MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MINORE

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AUTOBIOGRAFIA CAPITOLO 15


Ritorno a Firenze.

   Goethe in una sua tragedia ha questa frase: «Operoso il dover sia dove l'amore è inerte». Era per me venuto il tempo che agissi secondo quel consiglio goethiano.
   Mamma, quando fu persuasa che Mario era debellato per sempre — lo sa Iddio con che armi! — cominciò a richiamarmi con insistenza a casa.
   Capirà che facevo comodo! Lavoravo come la più attiva delle domestiche e, fuorché il vitto, non costavo nulla. Fuorché il vitto perché ero sempre stata indifferente alle mode e alle civetterie di ogni specie, che costano non poco alle mie sorelle di sesso, ed ora poi, disgustata come ero di tutto, ero divenuta indifferentissima. Portavo quello che mi davano da portare e purché fosse pulito ogni abito mi andava sempre a genio. Mode antiquate di anni, stoffe di pochi soldi (allora esistevano ancora) tutto mi andava bene. Perciò, riguardo a spese, ero un ideale.
   Papà non si convinceva a trasportare il domicilio a Reggio Calabria. Tornai quindi io a Firenze.
   Direi una grande bugia se le dicessi che vi andavo volentieri. Uscivo da un'oasi di pace per tornare fra la guerriglia, se pur non tornavo fra la guerra. E lo sapevo. A Reggio avevo avuto dei dispiaceri, anzi il dispiacere dei dispiaceri. Ma ero talmente circondata da amore che questo mi aiutò a sopportare il nuovo fulmine.
   Nulla stanca di più, nulla più demoralizza, nulla più consuma quanto le piccole quotidiane punture che dobbiamo sopportare quando si vive presso certi caratteri. Queste punture non sono ferite vere e proprie, ma spossano più di una vera, profonda ferita. Sono come il morso di sciami di zanzare che, sempre rinnovellandosi, si abbattono sulle nostre carni e pizzicano, e mordono, e succhiano, e irritano e inoculano stille infinitesimali di veleno, incapaci di uccidere se prese separatamente, ma capaci di iniettare germi di febbre la quale può uccidere. Quei morsi non strappano visibilmente le carni ma le rendono una maschera tumefatta e irritata, esasperano, levano la gioia del sonno, disturbano la siesta, ostacolano la lettura. Un flagello, piccolo nei suoi strumenti, ma grande nei suoi effetti.
   Io andavo incontro a questo flagello lasciando la pace in cui ero vissuta, lasciando la comprensione che mi aveva capita, lasciando l'affetto che mi aveva medicata. Nonostante quel che avevo sofferto per l'abbandono di Mario, ero tornata florida. Dall'agosto ero rifiorita. Sotto la scossa benefica della gioia la mia giovinezza si era ritemprata ed era avvenuta come una resurrezione fisica. Tanto può la felicità e l'amore in un essere prima di allora derelitto di amore e di felicità. Sopraggiunta la nuova pena, sia perché ormai Dio aveva raccolto la povera anima mia alla quale stava per essere assestato l'ultimo colpo di dolore, sia perché ormai si erano rimesse in moto tutte quelle armoniche leggi fisiche che costituiscono la quotidiana difesa dell'organismo umano e che prima languivano in un abbattimento soporoso, sia quel che si sia, io avevo superato fisicamente bene la prova dolorosissima.
   I miei cugini, affezionatissimi e orgogliosi di quel mio benessere che, con piena ragione, attribuivano alle mille premure che essi avevano avuto per me, non volevano lasciarmi partire. Ma non potevo certo continuare a stare lontano da casa mia. Mi pungeva il desiderio di tornare presso i miei prima di tutto per papà di cui immaginavo, senza troppo dover faticare, la vita grama, e poi anche perché, nonostante tutto, io a mamma ho voluto e voglio sempre bene. Un bene che sa di non poter trovare il contraccambio ma che non per questo diviene meno bene.
   So benissimo che mia mamma, affetta come è da una paranoia di persecuzione, è convinta che io non l'abbia amata. Ma so anche doppiamente benissimo quanto l'ho amata di un amore che neppure le sue durezze hanno stancato o diminuito. Un giorno, quando anche mamma sarà salita nella luce di Dio, cosa che a costo del mio olocausto ho chiesto e chiedo per lei — e credo che ciò sia un amore molto più fattivo di quello basato su smorfie e bacetti — un giorno, quando da quella luce mamma capirà la verità delle cose, allora, finalmente,comprenderà di quale amore la amasse la sua incompresa figlia…
   Bene, non importa se il mio affetto di figlia è misconosciuto. Così sono priva del godimento che da esso mi potrebbe venire e il mio affetto ha doppio merito.
   Tornai dunque a Firenze. Era il 2 agosto 1922.
   La Madonna degli Angeli, la Madonna del Perdono d'Assisi1, mi fu patrona in questo mio ritorno che era un grande perdono. E gli angeli mi devono aver aiutata a superare il primo incontro con colei che mi aveva levato tutto… Penso che il più assiduo fra di essi fosse l'angelo che nel Cenacolo confortò la Madre di Cristo mentre Egli veniva tradito col bacio, rinnegato da Pietro, offeso dai beneficati, torturato, deriso… L'angelo della Desolata fra le desolate, l'angelo del Getsemani e del Calvario, l'angelo che fece spola fra la Madre e il Figlio, l'angelo che raccolse le stille del sangue divino e le lacrime della Mamma di Gesù mi cantava l'inno del perdono per coloro che ci hanno crocifissi, accennandomi alla corona spinosa, ai chiodi torturanti, ai flagelli, alla croce, alla lancia e alla spugna che dovevano, come lo furono del Salvatore, dell'Agnello, essere le armi di sacrificio e di gloria della povera Maria.
   Trovai papà molto sciupato di salute: magro, terreo, lui che era sempre così bianco e rosso. Anche mamma era molto sciupata nonostante avesse sempre avuto l'aiuto della donna che, naturalmente, scomparve con la mia venuta.
   Mia cugina Clotilde e Memmo, che mi avevano accompagnata a Firenze, fecero un ultimo tentativo per persuadere papà a partire in capo a un mese con loro per la Calabria. Ma papà, con la cocciutaggine che certe malattie lasciano, rifiutò assolutamente. I cugini partirono dunque… ed io restai.
   Il caldo soffocante di Firenze, veramente insopportabile per me abituata all'aria leggera e ventilata dello Stretto di Messina, l'angustia dell'appartamento infuocato, penosa per me abituata alla grande aria del vasto albergo, i ricordi che si affollavano tutti a pungermi l'anima e le… chiamiamole pur benigne domande dei fornitori, dei vicini, ecc. ecc., i quali, più o meno apertamente, mi chiedevano che avessi fatto (legga: fatto del figlio) — taluni me lo chiesero apertamente — mi dettero subito non poco a soffrire. E il cuore ricominciò a ballare la sua indiavolata tarantella che si era assopita da qualche mese. Smagrii subito. Ma pazienza, questo.
   I primi giorni, finché ci fu pericolo che Clotilde tornasse, anche mamma fu dolce. Poi, a pericolo superato, tirò fuori le unghiette piuttosto… artigliate. Volle fare domande e insinuazioni. Ma le imposi silenzio con tale energia — la mia unica energia — che non osò più toccare l'argomento per anni e anni. Deve aver creduto che io sapevo con esattezza quello che aveva fatto lei. Se no non avrebbe ceduto con tanta sveltezza.
   Secondo atto di forza. Sempre fissa nell'idea che fare l'istitutrice o l'insegnante sia la quintessenza del bello, volle fare di me una istitutrice, e mi mandò alla Berlitz, la scuola di lingue. Vi andai perché lo studio mi è sempre piaciuto e rinfrescare le mie lezioni di francese mi piaceva. Ma: corse ai mercati, pulizie di casa, studio e corse alla scuola, spaventi per le sommosse popolari che allora infierivano, tuffi al cuore per incontri col colonnello ecc. ecc., mi fecero talmente male che dovetti sospendere. Addio sogno materno di fare di me una istitutrice!
   Allora altro capriccio. Mi mandò alla scuola di taglio e modisteria, sperando di fare di me una insegnante di taglio o una sarta. Vi andai pensando che mi poteva essere utile per tagliarmi quelle «tonache» che portavo… Erano vere tonache senza grazia. Ma non ci tenevo ad essere graziosa.
   Ecco: io vorrei sapere lo scopo vero di mamma nel voler persuadere la gente che io avevo tanto bisogno di guadagnarmi il pane che dovevo divenire o istitutrice o sarta. Non l'ho mai saputo di preciso. Ma uno scopo recondito c'è stato.
   Necessità non ne avevo. Lei può capire che se dopo un decennio di malattia non sono ancora come Giobbe è segno che le nostre finanze non erano poi troppo meschine. Ora stiamo finendo tutto, è vero, ma sono dieci anni che ci si pascola dentro. Prima la nostra rendita era più che sufficiente a trattarci molto bene e anche ne sopravanzava.
   Ma mamma voleva persuadere qualcuno che io ero una povera ragazza senza mezzi. Chi era questo qualcuno? Ho sempre pensato che fossero Mario e i parenti suoi. Chissà cosa aveva detto in quella sciagurata lettera!… Ora doveva convalidare il suo dire. Penso che abbia detto che io dovevo mantenere loro nella vecchiaia… Ne penso tante! Penso che abbia detto che mi ero fidanzata con un altro ricco sfondato… Penso che abbia detto che io avevo perduto la testa e l'onestà… Penso che abbia detto che avevo una malattia vergognosa… Ne penso tante, tante, tante!… Conosco mia madre e so che pur di spuntare il suo capriccio è capace di inventare qualsiasi cosa. Non importa se il buon nome di un altro va per aria, non importa se la gente critica e arzigogola su tutta la famiglia. Nulla importa. Basta che vinca lei.
   Insomma frequentai il corso di taglio e modisteria, detti gli esami e, nonostante odii il taglio come tutti quelli che non sono ambiziosi, ebbi ottimi voti. Ma poi mi fermai lì perché la salute sempre più si alterava. Né poteva essere diversamente.
   Mi accadeva talvolta di incontrare il papà di Mario, e vedere che mi aveva levato il saluto mi trafiggeva il cuore… Ogni volta che ciò accadeva io stavo poi male per più giorni. E poi c'era papà che, dimentico della parte che mia mamma, tenendolo sotto la sua suggestione, gli aveva fatto fare, ossia la parte di essere lui che non voleva le mie nozze con Mario, mi chiedeva quasi ogni giorno: «Ma tu perché poi non ti sei sposata con Mario?»… Una delizia, creda…
   La sera dell'ultimo dell'anno 1923 ero uscita per comperare del pungitopo e dell'agrifoglio. Era una sera nebbiosa e fredda. Io m'ero imbacuccata in uno scialle: parevo una turca. Avevo con me il mio canino.
   Andai in piazza Cavour, ora Ciano. Mentre comperavo i rami dalle rosse palline sentii come un tocco: quasi uno m'avesse toccata sulla spalla. Mi volsi… e vidi Mario che si avvicinava traversando la piazza. Era in divisa, avvolto nel mantello. Rimasi affascinata.
   Devo aver fatto un gran brutto viso, perché il venditore di agrifoglio mi offrì il suo sgabellotto perché sedessi. Ma io rimasi ritta, stringendo convulsamente la sponda del carrettino. Non sentivo più neppure le punture dei rami spinosi!…
   Mario sul primo non mi doveva aver riconosciuta, così avvolta come ero nello scialle. Forse si accorse che ero io dal mio canino che egli conosceva tanto bene. Non poteva impallidire più di quanto lo era già, ma curvò il capo come un colpevole e passò barcollando…
   Che rovina, Padre, che rovina!… Cosa ne avevano fatto del mio Mario così robusto, forte, sano, giovane, onesto, quelle due donne? Cosa, cosa ne aveva fatto mia madre portandolo al disgusto, alla disistima di me, alla disperazione, spingendolo, in un'ora di accasciamento, fra le braccia di un vampiro? E cosa ne aveva fatto, questo vampiro in veste di donna, di quella bella gio­vinezza? Una rovina… Curvo, magro, terreo, lo sguardo spento, le linee del volto precocemente invecchiate, il passo incerto… Un rudere d'uomo, un rudere d'uomo il mio Mario di non ancora 27 anni! Un malato, un finito, lui dianzi così pieno di salute e di speranze!
   Vede, stamane le ho detto: «Mi accorgo che sono molto mutata perché non sento sconvolgersi tutto in me, come prima, se tocco certi argomenti». Ma ora, mentre scrivo di quell'incontro e rivedo il mio Mario invecchiato, avvilito, sciupato, passarmi vicino a testa bassa come un colpevole, sento che mi si strappano dentro le fibre più vive…
   Mi sono più volte rimproverata di non aver trovato la forza di chiamarlo e chiedergli il perché del suo modo di agire. Avrei avuto la chiave del mistero che mi assilla… Ma ero rimasta paralizzata. Orgoglio di donna offesa, amore che mi si affollava tumultuando nel cuore, pietà, infinita pietà davanti alla sua rovina, tutto ha contribuito a quella paralisi… Ed era tanto bene che io lo interrogassi per levarmi dal cuore il mordente del suo modo di agire che, a vista umana, ha tutta forma di un tradimento.
   Ma sento che non lo è. Mario fu portato ad agire come agì da un complesso di cose che diminuiscono la sua colpa da tradimento a debolezza. Egli era allora nel fiore della giovinezza e, come egli mi aveva assicurato, per ottenermi da Dio aveva respinto tutte le lusinghe di facili amori. La posta della sua castità ero io. Io, devo convenirne, ero più anima che donna. Lo amavo con tutta me stessa ma senza quegli ardori e quegli abbandoni che avvincono l'uomo. Aggiunga l'opera materna che ha forse convalidato qualche mia imperfezioneinventata e che la mia riservatezza eccessiva poteva far pensare esistesse. Metta per ultimo lo sdegno, il disappunto di perdermi dopo tanta attesa e l'incontro fortuito, proprio in quell'ora di sconvolgimento, con quella russa d'inferno, e veda se per forza egli non si trovò preso in un vortice nel quale dovette soccombere. Io non lo scuso, ma lo compatisco.
   Tornai a casa a fatica. Non dissi nulla. Non dicevo mai più nulla da anni. La porta della confidenza in mia m adre era chiusa e ribadita da tempo. Ma ora avevo Dio per conforto.
  Non mi ero arrestata al punto dove ero a Reggio. Avevo sempre camminato verso Iddio. Arrivando a casa avevo messo ben chiaro il mio intendimento di andare in chiesa anche tutte le mattine, e vi andavo infatti quasi tutte le mattine e specie in maggio, giugno, settembre, ottobre, dicembre, in carnevale e in quaresima. Mamma friggeva ma… la lasciavo friggere.
   Poi avevo trovato un Vangelo di S. Luca. Lo aveva portato papà a casa. Vi doveva essere stata, durante la quaresima 1922, qualche giornata dedicata alla diffusione dei santi Vangeli. Era un libretto umile nella veste e girava da un mobile all'altro. Io del Vangelo sapevo solo quei brani che si spiegavano nelle messe domenicali. Sempre quelli, spiegati di sovente senza mettervi tutta l'anima e ascoltati ancor più di sovente con meno anima che mai. E poi io ero… un elefante solitario. Dovevo e devo ruminare un concetto da me per sentirlorealmente. Presi dunque quel povero libretto, che da mesi mamma faceva ballare da un mobile all'altro e che papà rileggeva di tanto in tanto, e me lo portai in stanza e cominciai a leggerlo.
   Fu «la lucerna2 posta sul candeliere perché illuminasse». Più lo leggevo e più sentivo farsi in me un nuovo cuore. Ho molto pianto su quel libretto… Lacrime soavi che mi rendevano l'anima fresca come ai giorni della mia infanzia innamorata del Cristo deposto dalla Croce. Che speranza, che abbandono, che ansia di amare come si deve amare il divino Evangelizzatore!
   Non ho mai più saputo separarmi dal Vangelo. Esso è il pane quotidiano del mio spirito. Non ho neppur più bisogno di leggerlo perché lo so a memoria, ma pure me lo rileggo perché ci trovo sempre un nuovo incanto. Quando mi sento tanto male, quando ho molta paura di qualche cosa, mi metto il volumetto dei 4 Vangeli, comperato agli inizi del 1925, sul cuore e non ho più paura di nulla. Mi sembra che Gesù, da quelle pagine, mi dica: «Non temere», e alle cose: «Non fate del male a questa donna».
   Io non so meditare sui libroni o sui librini di ascetica. Finisce che li leggo come un bel libro e basta. Ma il Vangelo! Se ho un dubbio, una malinconia, prego lo Spirito Santo, di cui sono devotissima, e poi apro a caso il Vangelo. Trovo sempre la parola che mi conforta, o mi illumina, o mi risponde al perché che mi assilla.
   Il piccolo librino col Vangelo di S. Luca mi ha scaldato il cuore piano piano come una fiamma di un confortevole focolare. Il suo calore si è sparso per tutte le vene, per tutte le fibre, ha pervaso tutto, ha fatto sempre più crescere in me il Cristo.
   Dice Ruysbroeck — uno dei pochi che io capisco insieme a S. Paolo, a S. Caterina da Siena, a S. Francesco d'Assisi fra gli antichi, e a S. Teresa del Bambino Gesù e Suor Benigna fra i contemporanei — dice Ruysbroeck: «Quando Dio viene in voi, gli è che già voi eravate in Lui, perché Egli non esce mai di Sé stesso… La nostra attitudine a ricevere la sua grazia dipende dall'intensità interiore con la quale noi ci muoviamo verso Lui. Al momento stesso del nostro muovere, il Cristo viene a noi con o senza intermediari, cioè coi suoi doni o al di sopra di essi. Anche noi ci precipitiamo in Lui o verso di Lui con o senza intermediari, cioè colle nostre forze o al disopra di esse. Ora Egli portandoci i suoi doni e concedendosi ci imprime la sua somiglianza, ci assolve e ci libera. Al momento della liberazione lo spirito si tuffa nel godimento dell'amore».
   Capisco molto bene queste parole. Io in quel tempo ero proprio a questo punto.
   Dio veniva a me, ossia la mia anima avvertiva che Egli veniva in me, ma ciò era perché io ero penetrata piano piano in Lui, attirata dalla dolcissima calamita del suo amore. Prima aveva fatto il vuoto intorno al mio cuore e poi mi aveva attirata, mi aveva affascinata, né più né meno di come fa uno che voglia attirare il nostro affetto, con in più la perfezione sua divina che supera in maniera non concepibile tutte le seduzioni umane. Poi aveva atteso che io rispondessi al suo invito. Avendogli detto, con sincerità di cuore e con fermezza di intenzione: «Voglio esser tua», Egli si era mosso verso di me ed io verso di Lui.
   Non gli chiedevo più nulla fuorché di regnare in me, non lo pregavo più di darmi questo o quello ma solo dicevo: «Signore, fa' Tu quello che ti par giusto di fare. Io non vedo mai giusto. Fa' Tu. Mi fido di Te!». E Gesù era entrato da Amico, Maestro e Re, portandomi tutte le sue grazie soprannaturali mentre io mi precipitavo in Lui con tutte le mie forze, con molto più delle mie forze, ancora deboli, pensando che dove non arrivavo io avrebbe provveduto ad arrivare Lui. Ma anche se Gesù fosse venuto a me spoglio di tutti i suoi doni, ormai l'avrei amato lo stesso: avrei amato Lui per Lui solo come lo amo infatti da anni.
   Egli nella sua bontà infinita mi ha voluta beneficare agli inizi della mia unione con Lui di tutte le tenerezze di un amore sensibile. Posso dire con S. Margherita Maria: «Il mio divino Maestro mi fece allora comprendere che quello era il tempo del nostro fidanzamento e che, allo stesso modo degli innamorati più appassionati, Egli mi farebbe gustare in quel tempo quanto c'era di più dolce nelle carezze del suo amore». 
   Dolci parole sussurrate dalla sua voce senza suono materiale ma così percepibile dalle potenze dello spirito, carezze misteriose sul cuore proteso come un fiore al suo Sole e sogni, sogni, sogni…
   Da quel sogno del giugno 1916 io non l'avevo più sognato. Ora tornava a me con una frequenza che mi faceva desiderare il sonno come una mia seconda vita meravigliosa. Ho seguito Gesù per le contrade di Galilea, l'ho sentito predicare alle turbe, sono passata al suo fianco fra i campi di messi e sono stata ai suoi piedi, col capo nel suo grembo, mentre Egli parlava seduto sulla sommità d'una scala, l'ho visto languire e morire nell'Orto degli Ulivi e sul Golgota, e… ho ricevuto la Comunione dalle sue mani nel bel Paradiso. Sempre con quel Volto, quello Sguardo, quella Voce, quelle Mani e quella infinita amorosa dolcezza e quella sublime maestà. Quante dolci visioni!…
   Il fuoco della sua Carità mi penetrava sempre più addentro e mi incendiava. Ardevo di amarlo infinitamente e di farlo amare. Avrei voluto dire a tutti: «Amate, amate Dio se volete essere felici! Amate e lasciate che Egli vi ami come lo desidera! Non opponete ostacoli al suo entrare!».
   Liberata e assolta dal suo amore, io, come dice Ruysbroeck, mi tuffavo nel godimento dell'amore. Di questo amore celeste la cui soavità, la cui dolcezza, la cui pienezza è tale che nulla può portarne il paragone. Spezzati tutti i legami che mi avevano tenuta avvinta alle creature, l'anima mi si slanciava libera e gioiosa nel regno del soprannaturale e sempre più vi penetravo. E non vi sono più uscita.
 


    Perdono d'Assisi è una forma di indulgenza voluta da san Francesco e confermata nel 1216 dal papa Onorio III, che la fissò al 2 agosto di ogni anno. Sarà più volte menzionato come una delle devozioni praticate da Maria Valtorta.

   2 la lucerna… del passo di: Matteo 5, 14-16; Marco 4, 21-22; Luca 8, 16-17; 11, 33.

MV a 25 anni