MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MINORE

A A A

AUTOBIOGRAFIA CAPITOLO 17


Estate 1930.

Ecco1 la croce del Signore - fuggite potenze nemiche.

 

   
   Nell'estate 1930 esperimentai la potenza della croce. Ma prima le devo narrare il mio Venerdì Santo.
   Il periodo che va dalla Domenica di Passione alla festa della Ss. Trinità è sempre stato per me un periodo amatissimo e desideratissimo. Neppure il Natale ha per l'anima mia quella potenza che ha il sunnominato periodo. Sono sempre stata una piccola innamorata del Crocifisso, bisogna ricordarselo, e perciò il periodo commemorativo della Passione ha per me una attrazione che nulla riesce a superare.
   Dopo questo periodo, che per me si conclude col dì dell'Ascen­sione, viene la Pentecoste. Altra festa a me dilettissima. Lo Spirito Santo! L'Amore! La Luce! Il Fuoco! Oh! come amo questa terza persona della Trinità Santissima! Mi parrebbe che il mio giorno fosse orbo di luce se non lo iniziassi col «Veni Sancte Spiritus»! E anche durante la giornata, se qualcosa mi assilla, mi turba, o mi è oscura, mi volgo al Paraclito con la fiducia di un bimbo verso il Sapiente che tutto sa. La novena dello Spirito Santo è per me sempre piena di una soprannaturale delizia e letizia che culminano toccando una luce vivissima nella mattina di Pentecoste.
   La maggioranza dei cattolici commette un grande errore dimenticando troppo di frequente la prima e la terza Persona della Ss. Trinità. Anche segnandosi della croce molti dicono: «Nel nome del Padre, del Figlio, dello Spirito Santo». Ma in realtà pensano solo al Figlio. L'ottusità della natura nostra è tanto viva che ben pochi sanno concepire ciò che è solo spirito, e perciò si appuntano al Figlio, l'unico dotato di corpo.
   Le persone pie accumulano comunioni sacramentali con comunioni spirituali. Ma non pensano neppure, e sentendolo dire quasi inorridiscono come di una bestemmia, che si possa, anzi, che sia atto di amore doveroso, abbracciare il Padre che è nei cieli con continui atti di rispettoso affetto, e fare delle cresime spirituali che ci rinnovano l'infusione dei sette doni divini dei quali abbiamo sempre tanto bisogno.
   Per mio conto ho sempre cercato di rimediare a questa lacuna della maggioranza. Da quando sono entrata nella luce di Cristo ho sempre cercato di riparare a questa mancanza di devozione verso la prima e la terza Persona della Triade santa.
  Non sempre ci è concesso di dire il «Pater» con quella tranquillità e riflessione che una tale sublime preghiera richiede per esser proprio «preghiera». La stessa abitudine di dirla fa sì che tante volte si ripete macchinalmente. E quando l'anima è assente, a che è valida la preghiera? A nulla. Resta un borbottio meccanico di labbra distratte. Ma quando dal fondo del nostro spirito scoccano come frecce le brevi invocazioni, le ardenti, se pur laconiche, confessioni di amore, come ne deve giubilare l'Altissimo e rispondere con benedizioni di potenza infinita!
   «Oh, Padre mio!», «Padre t'amo!», «Padre guarda la tua creatura», «Padre m'affido a Te!». Oh, brevi e infuocate preghiere che dite al Creatore come noi, creature sue, ci ricordiamo di Lui, quale merito ci acquistate e quante grazie ci ottenete! Quando nel pianto o nella gioia, nel fervore o nell'aridità, nella sicurezza o nel turbamento, e nelle ore in cui un evento ci tiene in forse sulla via da seguirsi, quando a sole che illumini il nostro giorno noi eleviamo un sospiro d'amore e di desiderio allo Spirito settiforme, oh! come Egli risponde, scendendo con i suoi tesori di luce, di carità, di sapienza, di fortezza!
   Avevo abituato anche le mie figliuole del Circolo a questa tanto benedetta elevazione della mente al Padre e allo Spirito Santo. Ma dubito molto che esse le siano rimaste fedeli.
   Per tornare in argomento le dirò dunque come il periodo che va dalla Domenica di Passione alla Ss. Trinità fosse un grande periodo per me. Lo è. La Settimana Santa poi mi ha sempre commosso il cuore, anche nei periodi più burrascosi. Che un Dio morisse per noi e in quel modo era per me qualcosa di così sublime che sentivo sciogliersi l'anima mia da ogni gelo nei periodi tristi della giovinezza e, nei seguenti, sentivo la più profonda commozione invadermi l'anima con un oceano di fiamme.
   Per le idee materne non ho mai potuto assistere in pace alle funzioni della Settimana Santa. Mamma in prossimità delle feste è sempre divenuta più intrattabile del solito e per evitare scene in contrasto con la solennità bisogna usare una diplomazia sopraffina… Non giova gran che, ma qualcosa fa… Dovevo perciò accontentarmi della comunione quotidiana e di fugaci visite in chiesa, rubando i minuti, a suon di corse che mi portavano il cuore in gola, durante le uscite per le spese. È comodo esser praticanti quando nessuno ci ostacola nella devozione. Ma che merito sarà serbato a coloro che devono sfidare le ire altrui e ricorrere a mille sante astuzie per potere andare nella casa di Dio?
   Nella Settimana Santa del 1930 io ero ancor più del solito infiammata di spirito d'amore e di riparazione. Avendo occasione, in grazia del Circolo, di uscire più di frequente, sguizzavo in chiesa come un pesciolino sfuggito dalla rete. Il grande Crocifisso dell'altare mi pareva mi guardasse con occhi più imploranti che mai.
   Quel Crocifisso! Io non lo vedrò mai più. Ma ritroverò in cielo, cambiate in gemme, tutte le lacrime che ho pianto sul suo petto e sulle sue mani trafitte quando potevo trovarlo deposto nella cappella dell'Arcivescovo nei periodi che sull'altare maggiore veniva messa una statua. Lo accarezzavo, col mio fazzoletto levavo la polvere che insudiciava il suo viso, le sue mani, i suoi piedi, e lo baciavo e lo bagnavo di pianto. Non mi pareva vero di poterlo toccare così! Non mi pareva più un legno inanimato, ma un corpo vivo e palpitante, e come a corpo vivo gli facevo nel pianto mille domande pietose: «Povero Gesù! Ti fan tanto male questi chiodi, queste spine, queste lividure? Oh! come te le vorrei levare a qualunque costo!».
   Sono le divine sciocchezze dell'amore! A taluno parranno sen­timentalismi. Non lo sono. Quando si ama uno in maniera assoluta si dicono sempre e con vera convinzione. La madre sulla cuna del suo bimbo che piange non si strugge nell'ansia di levargli la «bua» a costo di prenderla lei e non dice le dolci frasi che non sono mai ridicole, anche se bamboleggianti? La moglie amorosa non si curva, resa tutta pietà, sul consorte infermo crucciandosi di non poterlo sollevare nel suo soffrire e non ha per lui tenerezze di mamma, oltre che di sposa, e parole simili a quelle usate su una cuna? E perché non si dovrebbe amare Gesù con la stessa struggente tenerezza di come si ama un marito e un figlio? Almeno con la stessa tenerezza. Ma in realtà si deve amarlo con molta, molta, molta più tenerezza. Perché credere e giudicare sentimentalismo le carezze date a un Crocifisso o a un Sacro Cuore? La Santina di Lisieux non fa certo ridere quando sfoglia le sue rose e di ogni petalo se ne fa uno strumento per carezzare il suo Signore! Quelle rose sfogliate su di Lui erano l'emblema della sua vita che si sfogliava nell'olocausto d'amore. Non sentimentalismo, ma amorosa follia corroborata dalla realtà dell'olocausto.
   Anche le mie carezze sul Cristo crocifisso, anche le mie lacrime e le mie parole non erano emozioni ridicole di donnetta sentimentale e isterica. Erano bisogni veri e virili del cuore che già si immolava per essere simile al suo Dio.
   Oh! comprendo molto bene i grandi pianti della Maddalena, le sue, dirò così, crisi parossistiche di amore e di dolore. Non era isterismo, no. Era incandescenza d'amore. Io ero e sono della schiera ardente e penitente delle Maddalene e per levare Gesù dalla croce accetterei, non solo metaforicamente ma nella realtà, d'essere inchiodata al suo posto.
   Crede Lei che il mio soffrire mi basti? No. È tanto! Così tanto che senza una speciale grazia di Dio il mio essere non potrebbe sopportarlo e il cuore si spezzerebbe nello spasimo. Ma non mi basta. A me, Maria della Croce, anima di Cristo, non mi basta. E se anche Dio lo aumenterà non mi basterà mai, mai, mai. Mai, perché i dolori del mio Salvatore sono stati infiniti e vorrei infiniti i miei…
   Non so se nessuno dei sacerdoti si sia mai accorto di quei miei abbracci al Crocifisso. Non credo perché… facevo una barricata di seggiole contro le due porte e stavo sempre con il mio acutissimo orecchio teso. Non volevo essere scoperta. «Quando pregate2 chiudetevi nel segreto e il Padre che vede nel segreto ve ne darà la ricompensa». Ma il brutto era quando Gesù era sull'altare… Allora il pianto mi cadeva lungo le guance. Per fortuna erano sempre ore in cui la chiesa era deserta… Perciò solo il mio vecchio Parroco3 mi scoprì qualche volta. Ma di lui non avevo molta vergogna. Sapeva già abbastanza di me.
   E veniamo al Venerdì Santo.
   Fu l'unica volta che andai alla funzione delle «tre ore di agonia»… e per poco non ci rimasi morta. Eravamo andati io, papà e mamma. Caso inaudito negli annali di famiglia, mamma aveva acconsentito a questo mio desiderio. Era con noi anche una buona signorina.
   Alle 11 avevo tanto pianto ai piedi dell'altare guardando il mio Gesù e la divina Madre dal cuore trafitto. Ma non mi sentivo male. Non mangiai quasi nulla perché quando piango non posso più mangiare.
   Andammo dunque in chiesa. Eravamo seduti quasi sotto al pulpito. Alla seconda parola4 cominciai a sentirmi molto male.
   Una sofferenza mai provata fino a quel momento, ma una sofferenza terribile. Il primo attacco di angina-pectoris lo ebbi proprio il Venerdì Santo e nelle ore dell'agonia di Gesù.
   Se si pensa che un medico dell'antichità, riuscito a individuare questo male e le sofferenze e i pericoli che porta, ma non a trovare le cure, ebbe a definirlo: «Pausa della vita in cui si soffre la morte», si può capire cosa esso sia di terribile. Solo chi ha provato quell'angoscia straziante di spasimo, di crampi, di soffocazione, di collasso può sapere cosa essa sia in realtà. Ed io l'ho provata per la prima volta il Venerdì Santo. In agonia Gesù, in agonia Maria di Gesù. Ho creduto morire proprio. Uscire non si poteva per la folla, e poi non si può camminare in quei momenti!… Mi dovetti quasi svestire in chiesa perché tutto quanto allaccia aumenta il soffrire.
   Ma non ebbi paura. Sentivo che Gesù mi issava sulla croce… Lo avevo tanto chiesto in quei cinque anni di accettarmi per vittima… era venuta l'ora beata del consenso divino. E venuta in un giorno e in un'ora così colmi di significati.
   Lei potrà dire: «Ma si era sentita male anche l'anno avanti».
   Oh! era tutto diverso! Quello era parso quasi un inizio di colpo apoplettico dovuto a mala circolazione. Un grande afflusso di sangue al collo e al capo, una vertigine intensa e basta. Questo era spasmodico dolore, era sudore ghiaccio, era agonia vera e propria. Fu il regalo di Gesù morente alla piccola vittima.
   Dopo, passata la crisi, tornai come prima. Solo ero molto stanca. Ma dopo un buon sonno non sentii neppure più la stanchezza.
   Venne l'estate. Quell'anno non tornò da noi la solita famiglia che veniva ogni estate e con la quale eravamo in una relazione di amicizia. Eravamo in trattative con un altro conoscente nostro, ma all'ultimo momento non poté venire. Eravamo perciò senza nessuno.
   Alla fine di giugno una signora, nostra conoscente, ci chiese se avremmo ospitato un signore solo, un dottore, il quale voleva una casa molto quieta, di persone non popolane, dove si potesse mangiare e dormire bene e in pace. Durata dell'affitto: due o anche tre mesi. Però questo dottore voleva avere il permesso di portarsi seco un giovane suo protetto, il quale spesso sarebbe stato suo ospite e che avrebbe dato consultazioni in una stanza durante qualche ora del giorno.
   Consultazioni: una parola che vuole dire molte cose. Si danno consultazioni mediche e legali, si danno consultazioni anche sull'arte di coltivare… le cipolle. Basta essere dottori in agraria.
   Accettammo perché era molto conveniente e poco faticoso. Una persona sola da servire, perché il… consulente alloggiava altrove, era quello che ci voleva per me.
   Il 1° luglio cominciò ad arrivare il… consulente. Un discreto giovane, come aspetto, e un buon ragazzone come morale. Si insediò nella stanza dove ora sto io, allora salotto, e non volle che io levassi un quadretto del Crocifisso davanti al quale pregavo. Mi disse che egli era molto credente e che desiderava avere nella sua stanza di consultazioni quel quadro sacro. Benissimo.
   Non dava nessuna noia. Entrava, usciva, calmo, rispettoso e silenzioso.
   Il 4 luglio arrivò il dottore. Persona distintissima. Comprendemmo poi che era anche coltissima e molto ricca. Gli piacque tutto e fissò subito di restare per tre mesi. Per il primo giorno disse che avrebbe mangiato fuori di casa per dare tempo a noi di trovare le uova, di cui faceva largo uso, e fissare il pesce, perché uno dei pasti doveva essere a base di pesce per causa della sua uricemia. Vide il pianoforte e mi chiese se gli permettevo di usarlo. Suonava e cantava benissimo. Gli risposi che facesse pure.
   Il giorno dopo si iniziò la pensione vera e propria. Dopo il pasto del mezzogiorno il dottore era salito nella sua camera, anzi nel salottino del piano, per riposare. Io ero andata in cucina a rigovernare. Mamma era con me e papà dormiva nella sua stanza. Tutto taceva in quell'ora caldissima.
   Io d'un tratto mi sentii stranamente male. Non un male fisico. No. Era un male non fisico perché non c'era dolore alcuno, ma mi turbava anche il fisico. Non so spiegare.
   Uscii in cortile per respirare parendomi che l'aria della casa si fosse fatta d'un tratto mefitica. Ecco, forse questa è la sensazione più giusta: un'aria corrotta. Ma anche in cortile era lo stesso. Anzi mi pareva che mani invisibili mi opprimessero il petto, mi tappassero le nari. Mamma non sentiva nulla.
   Con fatica rientrai in casa. Con fatica perché qualcosa mi respingeva dalla casa. Volli salire al primo piano per prendere il cardiotonico che usavo quando ero sofferente. Salii la scala. Fino al primo breve pianerottolo tutto andò bene. Ma quando iniziai la salita della seconda rampa avvertii una forza che mi spingeva indietro come per impedirmi di salire. Avevo proprio la sensazione di due mani, molto grandi e forti, che mi si appoggiassero al petto respingendomi con grande vigore. Lottando e tenendomi bene stretta alla ringhiera, riuscii a salire. Quando giunsi al primo piano, di fronte alla porta chiusa del salottino, la sensazione divenne paurosa. Che avvenne allora in me? Non lo so. Mentre penetravo nella nostra camera da letto compresi, come lo vedessi coi miei occhi, che in quel salottino, dal quale nessun rumore usciva, si faceva dello spiritismo.
   Credo di appartenere alle persone coraggiose. Fuorché il terremoto e le rivolte popolari non mi fa paura nulla. Non le malattie contagiose, non le sofferenze, non gli animali. Sto a rispettosa distanza dai gatti, non perché non mi piacciano ma perché mi saltano agli occhi. Cosa vedono nei miei occhi non lo so. Constato che quando può il gatto mi si avventa contro e perciò sto alla larga da questo felino. Sfuggo le serpi perché mi fanno ribrezzo. Tutte le altre creature le amo, topi compresi, per i quali le mie compagne di sesso fanno tanti strilli. Non ho paura dei fulmini né dei venti. Ma dello spiritismo ho una paura nera, come ho paura di tutto quello che è misterioso.
   In collegio le Suore dicevano di sovente: «Pensate che bellezza se ora apparisse un angelo, la Vergine, Gesù!». E io pronta: «No, per carità! Salterei fuori dalla finestra!». Perché? Per paura di Dio? No. Per paura che lo Spirito del Male si vestisse di quelle parvenze per trarre in inganno. Mi dicessero: «Tu guarisci se ti lasci curare da un magnetista o da qualcuno di coloro che praticano magie e scienze occulte», io ricuserei, come ho ricusato, la guarigione per tema che un pezzettino di demonio mi restasse addosso.
   Quando nel 1921 ero in lotta con mamma per via di Mario, mia madre andò da un occultista. Non so cosa combinarono… Mi mandò un talismano che mi guardai bene dal portare addosso. Ma solo a riceverlo, solo l'andare da quel mezzo diavolo (per me certa gente è molto parente del diavolo), mi portò quel che mi portò. Ma mia mamma ci crede a certe cose e del diavolo, al quale crede sì e no, non ha paura…
   Insomma, per tornare al fatto, io compresi che si faceva dello spiritismo. Perché lo compresi? Mah! Lo compresi e basta.
   Tornata al terreno lo dissi a mamma e con rara audacia dissi che o la finiva quel signore o me ne andavo io. Stavo discutendo quando scese… il consulente. Pareva piuttosto seccato. Salutò e se ne andò. «Allora era lui di sopra insieme al dottore», dissi. «Ma benone!».
   Al mattino dopo trovai fissata sulla porta di casa una bella mano con sotto scritto: «Mustafà - Chiromante - Occultista ecc. ecc.».
   Misericordia! Era consulente in quelle scienze? Divenni furibonda. Tanto furibonda che comunicai il mio furore a mamma, la quale significò al dottore che se credeva di stare come bagnante rimanesse pure ma che sgomberasse ipso-facto se voleva dedicarsi a certe cose. Casa nostra non era atta a questo. Ci fu un bel battibecco. Poi il dottore aderì dicendo che avrebbe detto al suo protetto di andare altrove. Lui, il dottore, sarebbe rimasto.
   Passarono altri due o tre giorni. Il chiromante veniva ancora, in cerca di denaro, dal suo protettore, ma non si rinchiudevano più a quattr'occhi e aveva sgomberato il suo… gabinetto.
   Al quarto giorno rieccoti quella sensazione. Ma questa volta la combattei a dovere. Smisi di fare non so che, mi armai del Crocifisso e dissi: «Ora, Signore, è il momento di mostrarmi la potenza di questo segno. Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo ti chiedo di impedire al demonio di agire in casa mia», e terminai con la preghiera di S. Edmondo: «Gesù Cristo Re dei Giudei».
   Io non sentii più quella privazione di aria e dopo qualche tempo vidi scendere il medium (chiamiamolo col suo giusto nome). Eraturbatissimo. Venne in stanza da pranzo e fece tutto un racconto per persuaderci che egli era un bravo giovane, religioso, credente ecc. ecc. e che lo spiritismo non è contrario a Dio perché anzi chi lo pratica crede nell'al di là e dà modo alle anime disincarnate di venire a portarci le voci supreme ecc. ecc. Io zitta.
   Allora il medium mi disse, proprio a me: «Sa, io non sono un indemoniato. La si figuri (era fiorentino) che porto con me il lumen Christi (che fosse per lui non so) e lei la fa male a non volermi. Io ero venuto qui tanto volentieri perché le volevo far del bene (?). Ma lei la mi caccia…».
   «Io non caccio nessuno», risposi. «Se è vero che lei è amico di Gesù non si deve sentire in disagio presso di me».
   «Sì, invece, che mi ci sento. Lei la va sempre in chiesa!».
    «Ma anzi proprio per questo dovreste stare bene qui. Chi è con Cristo non teme Cristo!».
   «E invece le dico che la mi disturba».
   «Non venga più e buonanotte».
   Il discorso finì lì.
   Dopo poco ecco il dottore. Accigliato, torvo. Mi si piantò davanti e mi squadrò bene bene. Io lo guardai interrogativamente.
   A sera, era di domenica, mentre cenava il dottore disse: «Devo andare via perché la signorina non ci vuole. Non sa che oggi per poco non mi fa morire Mustafà?».
   «Io? E come facevo se non sapevo neanche che ci fosse?».
   «Sì, lei, proprio lei. Era in trance e di colpo mi restò in catalessi. Quando rinvenne disse che lo spirito Gabriel (?) nel fuggire impaurito lo aveva lasciato privo di vita. Solo dopo una mezz'ora era tornato e Mustafà è tornato in sé».
   Benissimo, pensai. Se anche voi non la volete smettere ve la faccio smettere io. E giù preghiere con la mia croce fra le mani.
   Morale: due giorni dopo Mustafà andava a Rimini coi suoi spiriti più o meno Gabrielli. Il dottore restava, perché diceva che doveva restare.E fino alla notte del 17 agosto tutto andò bene.
   Ma quella notte, fra il tocco e le due, mentre io dormivo come un bebé, fui svegliata di colpo da quella famosa sensazione di mani che mi opprimessero il petto per scacciarmi e di aria corrotta. Soffrii moltissimo e dissi a mamma (dormivo con lei): «Il dottore fa qualche cosa».
   Soffrii tanto e lottai tanto che al mattino, mentre ero fuori per le spese, fui per morire di un attacco di cuore. Tornata a casa avevo un viso così sbattuto che il dottore, che a parte il suo spiritismo era un bravo uomo, ebbe pietà. Ma io ricusai la sua pietà e gli dissi: «Che ha fatto lei questa notte?». Egli chinò il capo e confessò: aveva evocato il famoso Gabriel.
   Ne tragga Lei, Padre, le conclusioni. Io le dico solo che sono convinta che la potenza del nome di Gesù e della Croce impedì l'opera demoniaca; le dico che sono convinta che lo spiritismo è demoniaco (mi faceva troppo soffrire. Se fosse venuto da Dio, come dicevano quei due, non mi avrebbe torturata); le dico che il demonio non voleva che io fossi in casa e tentava respingermi non per me ma per Colui che era in me; le dico che sono convinta che in questo fatto c'è certamente nascosto un perché noto a Dio solo; le dico che non fu senza frutto perché in capo a tre mesi il dottore si era ricreduto su molte cose al punto di desiderare di riunirsi a Dio rinunciando a tutto il resto; le dico infine che sono arciconvinta che molto di quello che soffrii dopo fu opera di vendetta del demonio, che col nome di Gesù avevo atterrato.
   Il mio male era, fino ad allora, chiaro nei suoi sintomi e, se pur grave, non portava con sé quegli spasimi di tutto il corpo venuti dopo e che sono simili a quelli che deve provare uno i cui fasci nervosi siano ritorti da una mano spietata. Da quel momento i sintomi si alterarono, si mescolarono, si arruffarono con quelli di nuovi mali misteriosi che mai nessuno poté capire. E a questi si aggiunse uno scatenarsi di tentazioni che mi hanno anche piegata… Mai avevo provato tanto, mai ero arrivata a tanto! Le ore più nere della mia giovinezza furono rosee rispetto a quelle subite in questi nove anni di male.
   Sono oggi nove anni che sono a letto. Solo da un mese a questa parte mi sento libera dall'assedio demoniaco, che non dicevo a nessuno perché al giorno d'oggi al demonio non ci credono, ma che mi ha fatto tanto soffrire!
   Io ho vinto il demonio nell'estate 1930, ma esso si è vendicato in maniera esorbitante… Ma ne parlerò a suo tempo.
   Ed ora che dire? Dirò solo quello che si dice il Venerdì Santo adorando la Croce: «Albero leggiadro e splendido, ornato della porpora del Re… O te beata… O Croce unica speranza, salve!…».

 "Voglio che tu sia vittima della divina Giustizia
 oltre che sollievo del mio Amore"
 (Gesù a Suor Benigna5 Consolata Ferrero)  

 
    «La fame ardentissima che ho di salvare le anime mi spinge a cercarmi delle vittime che associo alla mia opera d'amore», aveva detto Gesù a Suor Benigna Consolata Ferrero.
    Io allora non conoscevo ancora questa Suora. Ma il bisogno di offrirmi anche alla Giustizia, come m'ero offerta all'Amore, mi urgeva nel cuore. Per puro caso venni a conoscenza di questa piccola Segretaria di Gesù.
   Era un po' di tempo che diverse persone, consacrate o meno, mi dicevano se avevo preso i miei pensieri negli scritti di lei, perché i pensieri erano uguali. Non sapevo neppure che fosse vissuta Suor Benigna! Mi venne desiderio di conoscerla. E Gesù, sempre cortese, mi fece trovare la via. Mi venne fra le mani una pagellina di lei. Avevo il filo conduttore. Scrissi alla Visitazione di Como per avere tutte le opere della Serva di Dio.
   Ieri sera mi sono fermata perché troppo sofferente per poter proseguire. Ed è stato bene, perché nella notte mi è venuto in mente di aver omesso dei fatti.
   Il primo si è che avevo da tempo pronunciato i voti di verginità - povertà - ubbidienza. Avevo allora passato il mio anello dalla mano destra, dove stava dal 1915 e dove voleva essere ricordo del povero Roberto, alla mano sinistra, dove voleva essere simbolo delle mistiche nozze con Gesù.
   Avevo dovuto per questi fatti subire molti predicozzi. Dal sacerdote, prima di tutto, che non approvava la mia intenzione. Avrei molto da dire in merito e lo dico subito per non pensarci più. Forse la mia sincerità le spiacerà alquanto, ma pazienza.
   Nella mia vita ho incontrato sacerdoti santi, senza dubbio, dei veri Sacerdoti dalla carità piena, dallo zelo indiscusso, dal­l'apostolato fecondo. Creature che vivono convinte della loro mis­sione e che si consumano anima e corpo nella cura delle anime, tutti preoccupati di portare queste anime a Dio, tutti occupati di infiammarle e sospingerle verso la carità e la generosità. Non ho trovato fra essi un vero Direttore. Confessori emeriti sì, ma Direttori no. Ma questo dipende da me e non da loro. Lei si è accorto come io sia restia ad aprirmi… e se lo sono ora con persona che giudico essere come io me la sognavo quale direttrice dell'anima mia, pensi come ero chiusa quando non vedevo nel sacerdote che avvicinavo quel certo che, che mi diceva: «Confida a questo sacerdote i segreti del tuo cuore».
   Ma fra i sacerdoti santi ne ho trovati molti non santi. E spiego il mio concetto.
   Quando io vedo un sacerdote poco zelante nell'assistere le anime, più preoccupato di interessi umani: case, rendite, lezioni da dare, visite da ricevere, ecc. ecc., impaziente verso le povere anime che saranno anche noiose, lo ammetto, con i loro scrupoli e piccinerie, ma che appunto per questo andrebbero con molto amore virilizzate nella fede; sacerdote che in luogo di aiutare gli slanci veri dei cuori li trattiene non per prudenza — questa sarebbe giusta — ma per tiepidezza di cuore, parendogli che è sempre troppo quello che si fa per il Signore e che non bisogna esagerare, allora io dico che quel sacerdote non è santo. Noti che trascuro altre colpe umane che mi fanno piangere e mi spingono ad espiare con penitenze speciali, ma sulle quali sorvolo per pietà della debolezza umana, sempre esistente anche sotto una veste talare… Ebbene, io di questi sacerdoti tiepidi ne vedo tanti!
   I santi sono sparsi come rari fiori in un vasto prato erboso, troppo rari per l'immenso bisogno delle folle di essere nuovamente evangelizzate.
   Ammiro l'opera dei Missionari che vanno in terre pagane a portare Cristo agli idolatri… Ma i negri d'Europa, i neo-pagani del Vecchio Mondo, che dopo aver avuto per i primi la luce di Cristo l'hanno nuovamente perduta sotto un ammasso di piacere, di vizio, di corsa alla ricchezza e al potere, chi li convertirà di nuovo? Chi li salverà portandoli con fuoco d'apostolo a Dio? Questi poveri negri d'Europa, il cui battesimo è ormai solo una formula che resta vana, per i quali sono lettera morta le parole della Fede, inutili cerimonie le funzioni ecclesiastiche, vergognose piccinerie di donnette i Sacramenti, questi poveri negri di Europa che si ricordano di Dio per bestemmiarlo, che vivono da bestie solo tese a saziare il ventre, il desiderio e il portafoglio, che muoiono ancor più da bestie, precipitando nell'al di là senza un estremo ritorno a Dio, chi li evangelizzerà? Chi, spendendo la sua vita in una predicazione di tutta la vita, intesa non come anni ma come opere, li riporterà alla Sorgente di Tutto, facendoli persuasi di una vita dello spirito — ben più alta della vita della materia che è la divinità dell'era moderna — vita dello spirito datrice della «vita durabile» cantata da Caterina?
   Oh! pietà, pietà di queste povere turbe europee, greggi rimaste con troppo rari veri pastori, mal guidate dagli altri, che più che del gregge si occupano di infinite futilità materiali! Riparlate, voi Missionari, a questi negri d'Europa, ben più infelici degli zulù africani i quali hanno una fede, quale che sia: nel serpe, nel sole, nel sasso, ma una fede, mentre i poveri idolatri di Europa non l'hanno. Non sono neppure idolatri poiché l'idolatria presuppone una fede in un idolo. Questi non credono più a nulla, neppure nel piacere che li disgusta senza saziarli… Tornate, tornate, Missionari, a ricristianizzare questa povera Europa che muore nel marasma del suo ateismo, fate brillare agli occhi degli avviliti e imbestiati europei la parola del Verbo «per cui tutte le cose sono state fatte», la potenza del Creatore, la luce di una Fede che ci assicura della nostra origine celeste e della nostra mèta celeste. Fermate con la Croce la discesa precipitosa verso l'abisso infernale di questa umanità che dispera, che uccide, che maledice. Rialzate il Cristo crocifisso contro le opere della superbia umana, che usa del genio che Dio le ha dato per creare un progresso micidiale sotto ogni punto di vista.
   Il mondo va salvato, questo nostro mondo cosiddetto «civile», col saio, la corda, la croce e il sacrificio. Solo in questi è la salvezza. Tutte le altre cose non saranno che fomite a più vaste rovine.
   Ma dove sono andata a finire? Un po' lontano… Mi scusi. Torno al punto di partenza.
   Dunque dicevo che il sacerdote mi predicava di non fare nulla, di non esagerare… Ma che esagerare! Sono stati degli esagerati tutti coloro che per amore di Dio hanno messo al loro collo, e alla loro anima, il giogo santo dei tre voti? Ma allora bisogna riformare tutta la storia di 20 secoli di cristianesimo, cancellare molte pagine evangeliche e aumentare di molto le statistiche dei manicomi nella categoria delle «manie religiose»!
   Cambiai sacerdote andando dal mio vecchio Parroco ora defunto. Avrei preferito un confessore di un ordine monastico, perché ho osservato che tutti gli ordini frateschi dànno sacerdoti zelanti. Ma S. Andrea e S. Antonio erano troppo scomodi per me che dovevo fare confessioni e comunioni di contrabbando… Il vecchio Parroco mi capì, ne sia benedetto, e mi concesse di pronunciare i miei voti e mai, finché fu a S. Paolino, ostacolò il mio andare verso la perfezione.
   Altri predicozzi vennero da mamma. Eliminati coloro che, giovani e forti, mi avrebbero potuto fare felice ma mi avrebbero levata al suo servizio, mamma si mise in caccia di un vecchiotto molto ricco e disposto a lasciarmi vicino ai miei: «Una casa a due piani», diceva, «in uno te e in uno noi». Eh! infatti sarebbe stata per lei una cuccagna! Ma non per me.
   Non mi vendo Padre, e non mi avvilisco in legami che ai miei occhi paiono poco dissimili da quelli del vizio. Capisco la santità del matrimonio, quando esso è compiuto per perpetuare la specie, come Dio volle. Ma un matrimonio che per vecchiaia dei coniugi o di uno dei coniugi non può dare speranza di prole mi pare un mercato di carne umana, un vizio velato da una etichetta di virtù. Perciò respinsi il vecchiotto, più anziano di me di 42 anni. Dico: quarantadue.
   Allora, peggio che mai, ecco, con l'aiuto di una conoscente, pescare un giovane e ricco avvocato. Era anche bello e buono ma… ma era infelice. Aveva con sé la tara di una di quelle imperfezioni fisiche che sono valide a far sciogliere dalla Chiesa un matrimonio, contratto con inganno di una delle parti.
   Io di nozze, dopo Mario, non ne volevo sentire parlare assolutamente. Avevo rinunciato a tutto per ottenere la redenzione di Mario per prima cosa, per essere fedele, seconda cosa, per delusione nei riguardi della costanza maschile, terza cosa, e infine, quarta cosa, perché avevo un cuore di donna e non un cuore di vitello che si dà a pezzettini ai merli e agli usignoli!… Poi mi ero consacrata a Dio. Ma anche se avessi pensato ancora alle nozze potevo mai unirmi ad un disgraziato che non avrebbe mai potuto avere figli?
   Ero stata avvertita, da persona credibile, di questa infelicità del giovane avvocato, infelicità confermata in seguito da nozze infelici e sterili. Mi ribellai perciò a questo progettato matrimonio. Le ho già detto che più che all'uomo io pensavo ai figli che da un uomo mi potevano venire: unica cosa che mi rendeva desiderabili le nozze, dopo la perdita di Roberto. Si figuri se potevo aderire al volere materno di un'unione contraria alle leggi della Chiesa, al mio modo di vedere e al buon senso, oltre che alla morale.
   Quando perciò passai la fede da destra a sinistra, mamma credette che ciò fosse per vergogna d'essere nubile oltre i trent'anni e mi subissò di: «Se mi davi retta e sposavi Tizio, se mi ascoltavi e sposavi Caio!…». La lasciai dire e tenni duro.
   Le altre prediche vennero dalla gente in genere. Ma io non mi sono mai curata di quello che la gente dice di me. Un po' di bruciore al primo momento, se è insinuazione grave, e poi buona notte!
   Altra cosa che ho omesso di dirle è l'abitudine che avevo preso di fare la meditazione scritta. Ne ho avuto molto giovamento spirituale. Lo scrivere obbliga la mente a concentrarsi più ancora nel soggetto meditato, dà inoltre il vantaggio di potere rileggere lo scritto nostro in momenti di aridità in cui siamo incapaci di elevazioni spirituali. Se la meditazione è sempre utile, la meditazione scritta è, secondo me, doppiamente utile. Affina dieci volte tanto le capacità meditative e aumenta le luci interne.
   Anche questo mi attirò rimproveri materni. E che bisogno c'era di rinchiudermi a pregare consumando la luce? Non bastava quella che consumavo per il Circolo, ecc. ecc.? Cosa erano queste esaltazioni? Mi credevo forse un Tommaso d'Aquino?, ecc. ecc. Lasciai dire e continuai nel mio sistema. Scrivevo le mie meditazioni e le lezioni per la gara delle ragazze, perché tutto il lavoro intellettuale era sulle mie spalle.
   Facevo anche la parte dell'Assistente ecclesiastico, mancante. Monsignor Lazzareschi, allora Assistente ecclesiastico diocesano, mi ci aveva autorizzata. Il pensiero religioso lo facevo sempre su un brano di Vangelo.
   Per mia propria esperienza sapevo quale forza spirituale viene dalla conoscenza del Vangelo: come un pane e un vino di vita, esso nutre e corrobora l'anima nostra dandole capacità di progredire velocemente nel Bene. Vorrei farne tutti persuasi… Invece la maggioranza dei cattolici osservanti si scervella su libri di ascetica che non capisce e trascura l'altissimo e il semplicissimo Vangelo, comprensibile anche ai più indotti. E leggono, leggono, si imbottiscono la testa di paroloni, si esaltano credendosi dei dottori della Chiesa, trovano il brivido emotivo che li solletica deliziosamente alla superficie e accende un… bengala iridescente ma molto effimero, alla cui luce essi si ammirano con compiacenza e si autodiplomano «anime mistiche, serafiche, sante…». E poi, chiuso il libro… tutto finisce. Non resta che la superbia di credersi degli eletti già aureolati di gloria celeste…
   Ma il Vangelo! Il Vangelo così limpido, così profondo, così vasto e così sublime, il Vangelo che è parola rivolta a tutti i figli di Dio, parola del Figlio di Dio ai suoi minori fratelli e che è capito a seconda non della scienza umana che uno possiede ma della scienza soprannaturale, che può essere perfetta in un analfabeta e appena formata in un dotto; ma il Vangelo che è aiuto per il credente che vuole restare in Dio e andare sempre più vicino a Dio!
   Anche qui lotte e ostacoli. Da parte dei sacerdoti, no. Anzi mi incoraggiavano a continuare. Ma le dirigenti diocesane e le dirigenti parrocchiali mi facevano guerra. Loro erano «le grandi mistiche» alle quali occorrevano i libroni giganti dei giganti della teologia! Buon per loro!
   Il male è che si dimenticavano delle parole di un librino che diceva: «L'uomo non vive di solo pane ma della parola di Dio»; che diceva: «Guai a voi, dottori della Legge che avete usurpato la chiave della scienza; non siete entrati voi e avete messo impedimento a quelli che entravano»; che diceva: «Colui che Dio ha mandato dice le parole di Dio, perché Dio gli dà lo spirito senza misura»; che diceva: «Chi ascolta la mia parola e crede in Colui che mi ha mandato ha la vita eterna»; che diceva: «Chi parla di sua autorità cerca la propria gloria: solo chi cerca la gloria di Chi l'ha mandato è degno di fede e in lui non v'è ingiustizia».
   Si dimenticavano di queste parole6, scritte nel librino che loro non volevano leggere, immerse come erano negli enormi libroni!… Ma se le avessero avute presenti, quelle parole del Verbo, non avrebbero impedito a me di dare questo pane di vita vera alle mie figliuoline, né alle mie figlioline di cibarsene.
   Il pane è l'alimento più semplice, più antico, più necessario all'uomo, e la parola di Dio, detta dalla stessa Parola del Padre, è l'alimento-base per nutrire le anime affamate di cibo spirituale. Perché volere impedire che le mie figlioline udissero la Parola che è vita e che, se è corroborata dalla fede, è fonte di vita eterna?
   Per ostacolarmi si avanzava il pretesto che io, non essendo sacerdote, non potevo intendere e spiegare il Vangelo. Ma non tenevano presente, costoro, che lo Spirito di Dio soffia dove vuole e che la Volontà di Dio può mandare chi gli pare a sostituire il «sale divenuto insipido», perché le creature non restino senza la sua Parola. Io ero l'ultima di tutti, io Maria Valtorta creatura umana; ma io, parlante per volere di Dio ai più ignoranti di me, ero qualcosa perché Dio mi concedeva lo Spirito senza misura vedendo la mia retta intenzione, che era quella di far conoscere la sua Parola e portare a Lui dei cuori giovinetti. Non parlavo, no, per mia gloria umana né per conquista di un potere più alto. Parlavo solo per dare gloria a Dio, aumentando il suo gregge e aumentando nel suo gregge la conoscenza del Pastore.
   Non davo scalata a cariche, che solo seducono coloro che vivono per la gloriuzza umana. Come Giovanni nel deserto, ero solo una Voce,una Voce che gridava in nome di Dio perché le anime si svegliassero alla vera Vita. E mi bastava di essere una Voce, ossia una cosa tutta spirituale che si forma, si alza e consuma senza ambizioni né retropensieri umani, che sale come fumo di incenso da un turibolo ardente per consumarsi beata divenendo profumo di lode all'Eterno. Ma «i dottori» della Diocesi e dell'Associazione, quelle cioè che vivevano enfiate dall'orgoglio della carica — ah! come dolce al loro cuore! — avevano paura che io, col mio apostolato, mirassi a privarle della loro autorità che era il loro tesoro, il tesoro dove era a guardia il loro cuore…
   Il mio cuore era a guardia del piccolo gregge che Dio mi aveva dato e che ho portato, finché fu meco, ai pascoli sani senza che neppur una di esse perisse, e che ora, mentre il pastore è malato, ancora non si perde, perché per le mie pecore ho offerto la vita e nessuna di coloro che Dio mi ha affidata è perita fuorché la figlia di perdizione, poiché ogni maestro deve conoscere l'amarezza del Maestro che vide perire un discepolo… Ma anche questa spero salvarla ancora, perché ancora tanto ho da patire, ancora tanto ho da morire prima di rinascere eterna in Dio.
   Certo, questi «dottori» che volevano mettere un bavaglio alla Voce che parlava di Dio, per una paura tutta umana, se avessero capito e ricordato le parole del Verbo non avrebbero messo impedimento al mio dire… Ma, come non mi mettevano più bavaglio né catena le brontolate di mamma, così non mi mettevano paura i «veti» delle «dirigenti». Mi bastava l'approvazione della coscienza e quella dei sacerdoti.
   Del resto non mi curavo, nonostante questo «resto» mi fosse propinato sotto forma di una guerriglia vergognosa a base di calunnie, di sgarbi, di piccinerie di ogni sorta… Ma ne ringrazio Iddio. Questo ha fatto sì che nessuna dolcezza umana si mescolasse alla dolcezza sovrannaturale dell'apostolato fatto unicamente per amore di Dio, dolcezza dello spirito che, mentre viene vilipeso, tormentato l'apostolo, esulta perché riconosce in quella persecuzione il segno che lo consacra… La lotta e la persecuzione sono il sigillo che contraddistingue sempre colui che è sulla retta via, perché il mondo odia, più di ogni cosa, colui che agisce bene. Infatti per i meno buoni quell'agire nel bene è rimprovero muto ma potente… e chi rimprovera è sempre odiato.
   Ed ora che ho riparato alle lacune vado avanti in questo povero capitolo che fin dalla sorgente si è smarrito in mille rigagnoli…
   Dunque scrissi alla Visitazione di Como per avere gli scritti di Suor Benigna. Mi giunsero in Quaresima, mi pare. Certo era primavera.
   Leggendo quegli scritti ho riconosciuto che realmente io avevo avuto uguali pensieri e, sapendo che quelle frasi erano state dettate da Gesù, me ne commossi fino al pianto. Dunque io, povera creatura, avevo potuto nel mio amore trovare espressioni e pensieri simili a quelli del mio Salvatore? Egli era tanto in me, operante in me, da farmi dire le stesse cose che Egli aveva dette alla sua Benigna per dare alle anime un nuovo mezzo di santificazione e una nuova prova del suo amore?
   Anche ora, quando senza accorgermi scrivo una lettera o parlo dicendo il mio pensiero e poi ritrovo quel pensiero quasi uguale in una frase del Vademecum della Visitandina, io tremo di gioia. Delle volte mi astengo per dei mesi da leggere quegli scritti per non essere suggestionata senza volerlo… ma poi mi arrendo perché, anche a distanza di mesi e mesi, io ho sempre una somiglianza viva con questi pensieri.
   E da questo ne traggo una conclusione. Se tre anime vissute in paesi e in modi diversi come siamo Teresina, Benigna ed io, abbiamo le stesse espressioni, è segno che quando Dio occupa di sé totalmente un cuore dà ad esso gli stessi sentimenti. Scintille della sua Carità provenienti da un'unica fonte ma sgorganti da tre canali diversi di merito — e fra questi il mio è il più rudimentale e difettoso — esse hanno la stessa luce. Note dello stesso poema d'amore, esse hanno lo stesso suono sebbene uno dei tre strumenti, il mio, sia suonato da una creatura ancora così lontana dalla perfezione.
   Prima avevo una amica nel Piccolo Fiore. Ora ne avevo due poiché anche Benigna è divenuta una celeste amica per me. Fra mezzo a loro, grandi vittime, io procedo sicura nel mio cammino che è un Calvario. Esse mi incuorano e mi sorridono e mi indicano una Luce sempre più vicina… In essa si nasconde il mio Gesù.
   Quando, a sacrificio consumato, Egli mostrerà chiaramente il suo Volto, che ora mi appare appena fra le cortine di fulgori che lo velano, alla sua piccola ostia, allora io morirò in un soprassalto di gioia…
   Seguendo il mio metodo, mi affidai al Signore perché mi dicesse Lui quando era il momento propizio per questa più severa offerta.
   Non le nego che la cosa mi dava pensieri contrastanti. L'animo era portato a compierla perché sentivo per santa ispirazione, e lo sentivo da tempo, che anche la Giustizia ha bisogno di vittime per essere disarmata. Questo disgraziato mondo accumula sempre più le colpe alle colpe, le offese alle offese. Coloro che riflettono si stupiscono che un castigo totale non venga a punire questa razza umana sempre più iniqua e stolta. Donde la necessità di sacrifici per placare Iddio. Questo lo capivo da anni e sempre più lo capisco. Ma se la mia parte migliore anelava ad immolarsi alla Giustizia del Padre per pietà dei suoi disgraziati fratelli, così protervi e blasfemi, la mia umanità titubava. Avevo presente quello che dice S. Teresa del B. G.: «…Se vi offriste alla Divina Giustizia, dovreste aver paura…».
   Infatti, fino a quel momento l'Amore misericordioso mi aveva usato misericordia e mi aveva trattata con dolcezza, considerando la mia debolezza. Non mi aveva risparmiato il dolore ma me lo aveva dato, durante questi cinque ultimi anni — ché da tanto durava la mia offerta all'Amore — sempre accompagnato da soprannaturali aiuti che mi erano preziosi per sopportarlo.
   Vero è che l'amore stesso, quando raggiunge certi culmini, è di per sé una sofferenza. Non lo dice per nulla l'atto d'offerta: «… ti supplico di consumarmi continuamente lasciando traboccare nel­­l'anima mia le onde di tenerezza infinita che sono racchiuse in Te, e così io divenga martire del tuo amore, o mio Dio!». Ed io questo dolce martirio lo subivo da anni… con momenti di tale incandescenza che credo di non errare dicendo essere stati una delle cause prime della dilatazione cardiaca e della lesione interna. Come un vaso troppo sigillato e portato all'ebollizione aumenta per la legge fisica della dilatazione dei corpi il suo volume e, non bastando questo ad alleggerire la pressione, esplode, altrettanto in me il cuore, dopo essersi dilatato sotto i palpiti accesi dell'amore — oh! ben più atti a sfiancare le pareti cardiache di qualsiasi naturale miocardite — era esploso nel suo interno dove, a detta dei medici, i fasci nervosi sono tutti spezzati.
   I signori medici non hanno mai potuto capire come ciò sia avvenuto in una creatura dalla vita regolata e sana come la mia… ma se avessero guardato in alto, verso regioni soprannaturali, avrebbero compreso il perché di questo mio male speciale, diverso da tutte le altre forme cardiache, definito da loro con mille nomi, perché ha i caratteri di tutti i mali e insieme manca di alcuni caratteri essenziali delle cardiopatie vere e proprie e tutte naturali…
   Se sapesse cosa mi costa parlare di queste cose così intime, vere tenerezze nuziali avvenute fra l'anima e il Cristo nel segreto del talamo più sacro!… Ma andiamo pure avanti! Le ho detto tutto il male fatto dalla povera Maria, ora le devo dire tutto il bene fatto da Gesù in Maria.
   Messa di fronte al pensiero di questa seconda offerta, io titubavo con la mia parte inferiore. Sentivo che su me si sarebbe abbattuto il rigore di Dio, perché avevo già constatato che il buon Dio faceva tutto il suo comodo con me, senza risparmiarmi, se aveva bisogno di qualcosa per le anime.
   Uh! cosa ho detto! Se certuni leggessero direbbero che ho bestemmiato… «Dio avere bisogno di una creatura! Ma costei è pazza!», direbbero così, al minimo. Ma è così. Dio che può tutto è tanto Padre, è tanto Bontà, è tanto Condiscendenza che vuole chi­narsi a chiedere ai suoi piccoli figli il piacere di aiutarlo… Anche i papà della terra fanno così, pur avendone più impiccio che aiuto… ma dicono ai loro bimbi: aiutami a portare questo, a tenere quello… Che orgoglio, allora, nel piccino che ha aiutato il papà che senza il suo aiuto non avrebbe potuto fare nulla!…
   Il buon Dio fa ugualmente. Ci chiama e ci dice: «Senti, bimba mia, ho bisogno di te per quel peccatore, aiutami a far fruttificare la predica di questo mio ministro, unisciti a me per dare speranza a questo disperato, vieni, vieni, che insieme strappiamo questo agonizzante al demonio». Oh! che soddisfazione soave, che santo orgoglio scende allora in noi pensando che abbiamo aiutato il divino Padre, che ci dice: «grazie» dai Cieli…
  Sono arrivata al punto di stare bene solo quando sento che Dio attinge continuamente in me per delle povere anime che conoscerò solo in Paradiso. E il mio pozzo si riempie solo in grazia di sempre maggior dolore. Più soffro e più mi sento colma e più il buon Dio può attingere, attingere per irrigare le anime languenti. La mia vita si esaurisce così, perché questa sorgente d'acqua soprannaturale al servizio di Dio e del prossimo si alimenta della mia vita terrena e la aspira goccia a goccia… Ma cosa può desiderare di più bello una stilla di rugiada che non sia di brillare un'ora dei folgoranti raggi solari, dissetando un fiore sitibondo, e poi ascendere al Sole stesso, aspirata dal suo ardore?
  Io, povera umile rugiada, mi lascio spargere sulle anime sitibonde da Colui che regola le piogge, le maree, i venti e gli astri, brillo sotto al suo Raggio, brillo per merito di quel Raggio, e poi muoio… Ossia no: poi ascendo a Lui, al mio Sole che dal profondo abisso dei Cieli aspira la sua povera gocciolina spersa nell'abisso della Terra, innamorata di Lui, desiosa di superare in un volo supremo la distanza che divide i due abissi lanciando, ultimo lavoro della sua vita, un mistico ponte fra terra e cielo e chiedendo al suo Sole che su questo ponte, frutto del supremo olocausto, salgano infinite schiere di anime per popolare il bel Paradiso…
   Mi rimisi dunque a Dio pregando: «Tu che comandasti ai venti e alle onde, comanda a me stessa quando sarà l'ora…».
   Intanto io mi preparavo con una vita sempre più pura e mortificata. Le penitenze avevano già una grande attrazione per me. A quelle che dovevo patire per conto di altri — e può credere che non mi mancavano: bastavano mia madre e le dirigenti per mantenermi sempre sulla mia mensa il pane della penitenza… — compivo delle penitenze spontanee.
   So che certi direttori non le approvano. Dicono che è più meritorio accettare, con letizia, o sommissione se non siamo tanto superiori da soffrire con letizia, quel che ci viene di penoso ora per ora. È vero. Ciò è grande a sufficienza. Ma quando Dio vuole di più bisogna dargli di più, perché Dio è un divino prepotente, l'ho già detto. Da me voleva il di più. E glielo davo.
   Nel settembre vi furono le elezioni all'Associazione. Ero stata avvisata che, per volere ecclesiastico, io dovevo divenire la Presidente. Non ne ero per niente entusiasta. Preferivo rimanere semplicemente la «Voce» che parlava di Dio, il canoro uccellino che canta le laudi del suo Creatore. Ma mi rassegnavo pensando che l'esser Presidente avrebbe potuto giovare di più alle mie figlioline, molto male condotte da dirigenti che di perfetto avevano solo l'orgoglio.
   Ma… nulla di nuovo sotto la faccia del sole! Le elezioni, in miniatura, dell'Associazione furono simili alle elezioni in grande formato delle Nazioni… Avvennero corrompendo le anime semplici, imponendo prepotentemente un nome in luogo di rispettare la libertà di voto, ecc. ecc. Seppi poi tutto questo retroscena, non onorevole per chi l'aveva commesso ma per me molto bene accetto perché, lo ripeto, l'esser Presidente non mi seduceva per niente.
   L'allora Presidente Diocesana, una delle più accanite contro l'umile «Voce» che chiedeva solo di ripetere le parole del Verbo, una delle più invidiose, perché stoltamente pensava che io aspirassi a divenire dirigente diocesana, si era alleata una, anzi due dirigenti di Associazione, quelle due più smaniose di divenire «Presidenti». Capirà: Presidenti di un'Associazione!!! Dice nulla Lei? Siamo sulla via del… «capo-popolo»! Morale: la presidenza a una delle due accolite, la vice-presidenza all'altra; a me, solo perché fui voluta in quella missione dai sacerdoti, la… grazia di continuare ad essere «Voce». Dopo, le circoline mi narrarono tutte le arti usate per riuscire con frode all'intento di, potendolo, defenestrarmi e disgustarmi. Addolorarmi sì, perché vedere la bassezza umana mi ha sempre addolorata. Ma per disgustarmi al punto di allontanarmi ci voleva ben altro!
   Io non lavoravo per me, ma lavoravo per amore di Colui che in quel piccolo gregge mi aveva mandata. E quando uno sa per Chi lavora ha già, in questo conoscimento, il suo premio, il suo premio di quaggiù. Il premio perfetto lo attende poi nel bel Regno dei Cieli, perché se Gesù ha promesso il Regno a coloro che sfamano gli affamati e dissetano coloro che hanno sete, vestono gli ignudi e visitano gli infermi e vanno a visitare i prigioni in suo nome, che non darà il Re celeste a coloro che hanno spezzato il pane della sua Parola a quelli che avevano l'anima affamata, che liberarono i prigioni — non solo li visitarono, ma li liberarono — mettendo nelle loro mani la chiave che apre tutti i serramenti del peccato, che rivestirono gli spiriti ignudi della luce del conoscimento di Dio e li curarono, se malati nel cuore, con la medicina sublime della Legge, e infine diedero sé stessi per bevanda, offrendosi olocausto per i fratelli miserelli? Oh! come allora risuonerà dolce, per coloro che si sono affaticati per Lui, la sua frase7 di benvenuto: «Venite, o benedetti, possedete il regno!».
   Di udire questa parola come sono desiosa! Ma come tremerei pensando alla morte se, avendo agito ipocritamente, pensassi ormai prossimo ad esser scoperto il vero su me e temessi che la voce tonante di Cristo potesse ripetere il tremendo: «Guai a voi, ipocriti, simili a sepolcri imbiancati che al di fuori, agli occhi della gente, apparite giusti, ma dentro siete pieni di iniquità!».
   Mia mamma, semi-paganella come è, e non lei sola, mi disse: «Ma pianta lì tutto. Non ti meritano!». Ma io non lavoravo per averne un merito terreno né per averne umane affezioni. Il mio scopo era in cielo e lavoravo per il cielo.
   Continuai perciò la mia opera di coltura, la aumentai anzi, perché persuasi il Parroco a lasciarmi tenere conferenze per chiunque volesse venire. Conferenze senza biglietto d'ingresso, naturalmente, perché se le persone si vanno a toccare nella borsa, ahi, ahi! che dolore! Specie se sono denari richiesti per opere buone. Fosse una stoffa, un rossetto, un pasticcino, uno spettacolo… eh! duole meno! Ma spendere per l'anima? Ohibò!
   Io pensavo così: «In chiesa, alle prediche, vanno sempre e solo coloro che, più o meno bene, sono già nel sentiero di Dio. Ma coloro che vivono fuori di questo sentiero, e che perciò hanno più di tutti bisogno di esserci condotti, in chiesa non vanno mai. Perché non rivolgersi a questi e sotto la veste di un trattenimento, che ha il raro pregio d'esser concesso gratis, non far loro balenare alla vista una scintilla della luce divina?». L'antica vocazione d'esser «Paolina» era sempre viva nel mio cuore. Cominciai dunque.
   Pensi che ero e sono timidissima, benché non sembri. In collegio scrivevo i temi accademici ma li leggeva un'altra. In ospedale non parlavo altro che coi feriti che mi parevano bimbi. Se venivano visitatori più o meno illustri correvo a nascondermi nel reparto «Isolamento»: là non ci veniva nessuno. In albergo stavo sempre con Memmo, schivando il più possibile le conversazioni. La timidezza è stata una penosa malattia per me, una vera sofferenza.
   Ma per Gesù divenni anche spigliata al punto di parlare in pubblico. Dal mio tavolo parlavo guardando il mio Crocifisso, quello che ora è a capo del letto, o un Sacro Cuore che avevo di fronte. Parlavo a Lui, non vedevo che Lui… la gente per me era scomparsa…
   La prima volta il tema era: «A. C., suoi scopi, suoi frutti». Parlai a cinque persone. Meno di così!… Circoline e dirigenti, meno due, tutte assenti.
   La seconda volta il tema era: «Natale nordico e Natale cristiano». Dodici persone e una diecina di associate più un sacerdote.
   La terza volta il tema era: «Fra rose e gigli nella Roma imperiale». Ventitré persone e trentatré associate più un sacerdote, il quale scoperse un giochetto della Presidente la quale, sull'uscio del locale, respingeva le persone che volevano entrare… Passò un brutto quarto d'ora l'incorreggibile Presidente!…
   La quarta: «Figure muliebri nella luce della Chiesa: Caterina da Siena, Stefana Quinzani8, Bartolomea Capitanio». Quaranta persone, due sacerdoti, un professore di Pisa, l'associazione quasi al completo e molte di altre associazioni cittadine.
   La quinta: «Nel centenario del Concilio d'Efeso». Sala al completo fin nella tribuna.
   Non le dico questo per gloria umana. Lo dico solo per mostrarle che il bisogno di sentire parlare di Dio è vivo anche fra i non praticanti. Perché il mio pubblico era quasi tutto di questi e, con riconoscenza a Dio, le dico che molti li ho visti poi tornare alla chiesa, da anni abbandonata.
   Ma che guerriglia dovevo sostenere! E che lavoro! Dovevo scrivere gli inviti, dovevo applicare i manifesti alle porte della chiesa, dovevo preparare la sala. Tutto io. Poi, naturalmente, dovevo preparare la conferenza. Ma per Gesù si fa questo e altro.
   L'anno sociale 1930-1931 la gara era sulla morale cristiana. Bellissima gara! Quanto c'era da dire! Quanto era bene che si sapesse cosa è la morale e specie la morale cristiana! Me ne occupai intensamente. Gli esami furono un vero successo. Quelli di A. C. Diocesani non sapevano chi scegliere per l'esame di diocesi perché i 10 erano numerosi in tutte le sezioni. Dovettero estrarre a sorte le destinate all'esame diocesano.
   Io premiai i voti massimi con un viaggio a Pisa per le visite ai monumenti. Avevo, durante un anno, a costo di mille sacrifici, messo da parte la somma per questa gita per le mie figliette. Fu una magnifica giornata di cui ancora esse si ricordano, e tanto più magnifica perché mai ne avevo parlato e perciò la sorpresa fu infinita. Le creature devono fare il dovere per il dovere e poi, a chi di dovere, il premiarle. Non le pare?
   Intanto che lavoravo così, una smania strana mi andava crescendo in cuore. Con gli inizi del 1931 sentivo un che, come se qualcosa mi avvertisse che un pericolo sovrastava. Quale pericolo? Su che precisamente? Mah! Non mio particolare, non di famiglia. Un pericolo generale, ne ero persuasa. E con questa persuasione un desiderio di operare per arrestarlo. Ma come si può arrestare un pericolo che viene da cose molto più grandi di noi? Solo con l'aiuto di Dio. E dato che sentivo essere un grande, grandissimo pericolo quello che si avvicinava, sentivo anche che bisognava offrire a Dio una grande, grandissima messe di opere. La preghiera non bastava. Occorreva il sacrificio.
   Ho sempre notato, nel movimento di A. C., una grande tendenza alle cosiddette «crociate». Crociata di purezza, crociata di carità, crociata di umiltà… tutte bellissime cose, per quanto, perché diano buon frutto, non basti bandirle per pochi mesi. «Non si diviene sommi d'improvviso» dice S. Bernardo. Non si acquista una virtù in quattro e quattro otto, dico io. Bisogna insistere molto tempo su essa prima di passare ad un'altra. Se no si fa un arruffio simile a quello di un improvvisato agricoltore che semina a casaccio un po' di tutto, mescolando piante precoci a piante lente a crescere, piante fronzute a pianticelle esili, col risultato di vedere morire soffocate queste o di estirpare quelle, sbarbando dal suolo le già complete. L'ordine ci vuole anche nel bene perché ogni fretta, ogni disordine è già di suo un male.
   Però fra le infinite crociate ho sempre notato che ne veniva omessa una: quella di sacrificio. Perché non parlare mai alle anime del potere, oltre che della bellezza, del sacrificio? Noi cristiani abbiamo per Iddio uno che sacrificò Sé stesso e che disse9: «Nessun discepolo è da più del Maestro. Se voi farete ciò che Io ho fatto prima di voi, allora sarete miei amici». E allora perché questa paura nera del dolore fra noi cristiani? Perché esigiamo che sia solo Gesù il sacrificato e noi si sia esenti dal sacrificio?
   Osservi bene, Padre, il 90 per 100 dei cattolici. E parlo dei cattolici praticanti. Seguono la religione fino alla frequenza dei sacramenti, delle Messe, dei rosari, all'osservanza delle astinenze e dei digiuni (questo già molto meno) e poi… basta. La preghiera delle preghiere, tramutata in azione, non c'è. Ci si ferma al: «Venga il Regno tuo», poi si riprende al: «Dacci il nostro pane quotidiano (col sotto pensiero, che non è detto ma è sentito più di quello che diciamo: ma mettici insieme molto companatico), rimetti i nostri debiti e non ci indurre in tentazione». La Volontà del Padre non la si nomina che a denti levati. Non si sa mai! Fare certe richieste! E poi se il Padre si sovviene di qualche volontà penosa per noi? E i debiti del prossimo? No, no, se li paghi! Ci vuole altro! E così pure la faccenda del benessere: macché pane solo! Molto, molto companatico, molto, molto benessere: salute ottima, affari prosperi, portafoglio colmo, oh! così va bene. È o non è così? È così, purtroppo.
   Il cristiano, redento da un Dio morto sulla croce, recalcitra al dolore, qualunque esso sia. Non vede la bellezza del dolore, la potenza del dolore, la deificazione che ci dà il dolore. Io per mio conto ho notato che se prego un mese come una macchina, spossandomi testa e stomaco, molto di frequente non ottengo nulla. Ma se soffro un'ora e offro il mio soffrire per un dato scopo, ottengo tutto. Il sacrificio è la salvezza del mondo e delle anime. Le anime e il mondo sono sempre salvate dal sacrificio dei generosi.
   Questi pensieri mi assillavano al punto che compresi esser l'ora di compiere l'offerta severa alla Giustizia divina. Ma siccome capivo la mia nullezza volevo aver l'aiuto di molti, molti altri. Occorreva un vero tesoro di sacrifici per impedire quello che già si formava alle soglie del futuro.
   Scrissi allora alla mia amica di A. C. cremonese per dirle quanto sentivo e terminavo così: «Tu che sei tanto influente e in contatto con delle vere potenze cattoliche, fatti portatrice di questo mio desiderio che mi viene da Dio. La nostra stampa, trascurando altre cose meno importanti, parli della bellezza del sacrificio e dei frutti che esso può dare. Confido che la nostra giovinezza, sempre pronta agli slanci verso il bene, si entusiasmi per questa arma potente che Gesù usò per il primo dandoci l'esempio, e una fioritura di segreti olocausti lavi il mondo corrotto da germi perniciosi come il sangue dei martiri lavò l'onta del paganesimo dal suolo di Roma, facendo dell'Urbe di Cesare l'Urbe di Dio».
   Mi rispose con una bella lettera. Bella per stile e per diplomazia. Oh! sì! molto diplomatico quello scritto! Un capolavoro! Ma sotto il velluto della diplomazia scappava fuori una patente di… pazzia. Per me, s'intende! «Ammiro il tuo modo di pensare, ma ti faccio osservare che la prudenza è la virtù dei santi e la tua proposta esula dalla prudenza. Perciò mi guardo bene dal presentarla al Consiglio Centrale. Tu fa' come vuoi, se ti pare di potere osare tanto, ma io trovo che tu esageri perché ecc. ecc. ecc. ecc.».
   Modo di vedere? Modo di agire, doveva dire. Perché io non proponevo: facevo. Risposi: «Se la prudenza è la virtù dei santi, la santa audacia è la virtù dei martiri, i quali hanno doppia corona perché santi e perché martiri. Se ai primi secoli la Chiesa non fosse stata ricolma di questi santi, imprudenti ma audaci, sarebbe tuttora nelle catacombe. Non vedo d'altronde dove sia l'imprudenza nel parlare del sacrificio. Si parla pure della crocifissione di Cristo! E non dovremmo incitare la milizia laica della Chiesa ad imitare Cristo? Perché allora permettere la lettura di certi libri di ascetica e di certe agiografie che montano, con effimeri entusiasmi, le testoline delle nostre socie? Non ti pare che sia peggio concedere loro di meditare su libri talmente alti da essere astrusi ai non teologi col frutto di mettere idee storte nei cervelli, se anche non vere paranoie mistiche? Attenta, Gina, che dici non esservi nulla che giustifichi un intensificarsi di immolazioni perché tutto è quieto e mai come ora la Chiesa trionfa (era il 1931: 2 anni dopo il Patto Lateranense). Attenta, che presto tu non ti debba amaramente ricredere!».
   Scrivevo questo ai primi di maggio 1931. Al 31 maggio vi fu la soppressione dei circoli giovanili di A. C. Primo atto della tragedia attuale, perché, se Lei osserva, cominciò con questo l'offuscamento della vera luce nella mente di chi è a capo di noi, poveri infelici…
   Il giorno avanti, domenica, io avevo parlato della Vergine10, celebrando il 15° centenario del Concilio d'Efeso, e avevo terminato invocando la protezione di Maria sulle folle in balìa degli egoismi e degli strapoteri dei capi…
  

   Oh! ma ora le racconto delle belle scenette. Scenette che mi fanno toccare con mano che nell'ora del pericolo i discepoli sono sempre uguali a quelli di 20 secoli fa.
   Ero in casa quella mattina e lucidavo vigorosamente i mobili, nonostante andassi sempre peggio col mio male di cuore.
   Sento suonare. Vado ad aprire. Mi si precipitano in casa tutte le dirigenti. Parevano un branco di galline spaventate e schiamazzanti. «Ci arrestano!», «La persecuzione!», «Le guardie!», «Ci uccidono!», «Ohimé!», «Misericordia!», «Io scappo!», «Io vado a letto!». Non ci capivo nulla. Dissi: «Silenzio! Parli una sola ché non capisco niente!».
   Mi narrarono allora che erano venute a chiamare la Presidente (la quale era lì livida come un coleroso) perché al Circolo c'erano gli agenti di Pubblica Sicurezza. Dal mattino erano sciolti i circoli e si doveva consegnare tutto. Andassi io, facessi io.
   Ah! Ah! In quel momento ero io che dovevo fare tutto! La «Presidente», quella che aveva fatto la parte di Giuda per essere la «Presidente», quella che in tutti i modi mi aveva ostacolata durante tutto l'anno e mi aveva sbeffeggiata, denigrata, schiacciata come si schiaccia un verme, ora si affannava a dire: «Già io lì dentro non ero nulla. Era lei che parlava, lei che dirigeva. Se c'è una che deve rispondere agli agenti (veda: se c'è una che deve andare in galera) è lei. Io ora vado a letto. Ho la colica».
   «Va bene», risposi. «Lei vada anche nella luna. Al Circolo vado io. Non ho paura». E siccome un po' di latino in certi casi fa bene, la inchiodai al muro con un poco di quel «latinorum» che dava tanto ai nervi a Renzo Tramaglino.
   Di tutto il gruppo delle dirigenti, 13 persone più io, restammo io e altre tre. Come nell'Orto degli Ulivi11!
   Al Circolo gli agenti furono cortesissimi. Mi dissero che loro non ritiravano nulla, ma entro sera io avrei portato in questura verbali e bandiera. Le mie conferenze non occorrevano. Erano state sentite da persone che le avevano giudicate immuni da ogni tara. Ahi! povera Presidente che voleva fare di me il capro espiatorio e invece era presa di mira lei!!!
   Alla sera, insieme a due dei discepoli fedeli, andai alla Questura. Una portava lo scatolone della bandiera, l'altra i verbali. Io niente. Il… generale porta solo il suo cervello!
   Un agente ci venne incontro mentre tanti altri, agenti e non agenti, ci guardavano come bestie rare. Voleva gli consegnassi tutto.
   «Prego», dissi, «consegnerò tutto solo al delegato e previa consegna di regolare ricevuta». In certi casi, e quando le teste bollono, ci vuole molta regolarità… Non si sa mai!
   «Ma il delegato è occupato».
   «Aspetterò».
   «Salga».
   Salimmo. L'agente davanti, io dietro, ultime le mie… due scudiere. Una lunga attesa. Infine l'agente, stanco di aspettare, vedendo che io non mollavo, bussò alla porta del Questore.
   «Chi è?».
   «C'è la Signora di Lourdes12 che vuole consegnare una bandiera, ma vuole la ricevuta».
   La Signora di Lourdes! Mi inchinai a me stessa! Le mie… scudiere mi guardarono con occhi più tondi di un bicchiere.
   «Passi».
   Passai.
   «Lei è la Signora di Lourdes?».
   «Precisamente». M'era venuta voglia di dire come Ferravilla13: «Sono me!».
   «Dia qua tutto».
   Le… mie scudiere deposero tutto sulla scrivania. Il delegato aveva cominciato a scrivere: «Dichiaro ricevere una bandiera e sei fascicoli di verbali da… mi dica il nome».
   E io imperturbabile: «Maria».
   «…verbali da Maria di Lourdes. Firmato ecc. ecc.».
   Uscii gloriosa e trionfante. Capirà: ero entrata là, povera donnetta a nome Maria Valtorta, e ne uscivo Maria di Lourdes…
   Le mie compagne ridevano. Ma non ridevo io, in fondo. A parte il titolo più che onorifico che era quasi una carezza di Maria alla serva del Figlio suo, per quanto mi fosse stato applicato da un ignorante in materia, ero molto addolorata. Meno superficiale di tanti, vedevo il volto vero della improvvisa levata di scudi contro la «mansueta greggia di Cristo14» e ne tremavo. Non per me ma per tutti. Guai quando si comincia a fare un passo falso! E quel giorno, molto in alto, si faceva il primo…
   Stabilii di accorciare le distanze. Avevo prefisso di fare la mia offerta alla Giustizia divina l'8 di settembre per avere a Patrona in quel voto di sofferenza la Vergine Santa. Ma ora non era più cosa da rimandare. Il segno era venuto. Chiesi a Dio di ispirarmi Lui stesso la formola.
   Dopo pochi giorni era il 1° venerdì del mese di giugno. Alla messa, in mezzo alle circoline, ebbi una vera ora di agonia di sangue… Ho visto intellettualmente tutto quello che doveva venire in futuro: guerre, fame, morti, stragi… e disperazioni a non finire. Che soffrire! Io, che non piango mai in pubblico, piangevo così ampiamente che ero come accecata. Finita la messa, dovettero aiutarmi ad uscire perché non vedevo nulla, tanto era copioso il pianto… Le compagne, le più buone, mi chiesero che avevo… Dissi loro quello che avevo, pur velandolo, sotto un pudico riserbo, di certi particolari.
   Dopo pochi giorni sentii sbocciarmi in cuore l'atto d'offerta così come l'ho scritto e pronunciato il 1° luglio: festa del Preziosissimo Sangue. Quale giorno più bello potevo scegliere per unirmi alla Vittima il cui Sangue divino sgorgò tutto per placare la giustizia del Padre? E quale nome più bello potevo scegliere per me, da quel momento, più bello di «Maria della Croce»?
   Colei che un ignorante aveva chiamato Maria di Lourdes poteva anche dirsi Maria della Croce. La Croce era il mio amore e la volevo per mio altare. La croce era la compagna della mia vita fin dall'infanzia e ora, spronata da un pungolo soprannaturale, chiedevo la grande Croce per esservi immolata. A me dunque il nome che mi si conveniva e che sarà il mio nome davanti agli occhi di Dio finché io viva ed oltre…

 "Io debbo ancora essere battezzato con un battesimo,
 e come sono angustiato finché esso non si compia"
 (Luca 12, 50)  

 
   Subito dopo essermi offerta al martirio dell'amore si unì un martirio di sofferenza, acuita nella carne e accresciuta nello spirito da un rigore che mi pareva pesare su me.
   Mi spiego o tento spiegarmi. Non che mi sentissi abbandonata da Dio. No. Il suo amore era sempre su me. Ma se Gesù mi carezzava, il Padre mi appesantiva la sua mano sul cuore. È incominciato allora un periodo di serrata penitenza. Tutto quanto costituiva il sensibile nell'amore soprannaturale scomparve. Intendo alludere ai dolci sogni che da anni erano la mia gioia, intendo dire quella sicurezza che la pietà di Dio ci avrebbe risparmiato quanto stiamo passando ora. Era venuta subito, e piena e oscura, l'ora del Getsemani… ed è durata, potrei dire, dieci lunghi anni, perché solo dal 1941 la sua rigorosità si è addolcita.
   Non creda che abbia provato aridità di cuore. No. Mai. Come mai sono rimasta senza il conforto dell'amore di Cristo. Ma ho sofferto intensamente e nel morale per la percezione esatta di quanto stava per accadere nel mondo… Ho pianto tutte le mie lacrime per questo. Ho tanto pianto, scongiurando l'Eterno ad allontanare questo tremendo flagello, mortificando con aspre penitenze me stessa per placare, placare, placare la Giustizia divina, che quando il flagello è venuto, e tutti hanno più o meno perduto la testa, io non ho avuto più una lacrima. Mi ero già torturata in anticipo vedendo tutto lo svolgersi della tremenda tragedia… Ho sofferto nel fisico con uno scatenarsi di mali uno più tremendo dell'altro, e non è ancora finita la serie… Tutti i dolori ho provato nel mio corpo divenuto un compendio di infermità! E, quel che è peggio, questi mali non hanno lasciato immune la parte spirituale, ma l'hanno turbata con uno scatenarsi di sensazioni che per sé sole sono un martirio… Ma dirò a suo tempo. Certo che la Giustizia non mi ha risparmiata in nessuna maniera. E lo vedrà anche Lei.
   Intanto le crisi cardiache spesseggiavano. Ad esse si aggiungeva uno squilibrio nel camminare e nel reggermi ritta, per cui l'andare sola era una vera fatica. Se ero prossima ai muri ancora andavo con una discreta sicurezza, perché ogni tanto mi appoggiavo ai muri stessi, mi aggrappavo alle grondaie ecc. ecc. Ma nei posti vasti vacillavo e dovevo arrestarmi ad occhi chiusi per riprendere l'equilibrio. Un equilibrio per modo di dire, però, perché piegavo verso destra.
   Ero già in cura da un anno. In principio si curò l'esaurimento nervoso. Quale esaurimento se io dormivo placida le mie notti intere, se avevo una memoria di ferro e una resistenza mentale a tutta prova, senza avvertire il menomo disturbo di stanchezza intellettuale? Mah! Dopo avermi imbottita di glicerofosfati, vedendo che andavo peggio, via i glicerofosfati. Troppo sangue e troppo grosso. Perciò ioduri e iodati per assottigliare il sangue. Peggio che mai. Allora via tutto e giù con calmanti cardiaci. Via il vino, via il caffè, via la carne. Peggio che andare di notte! Le crisi erano all'ordine, se non del giorno, almeno della settimana, ed erano sempre più forti.
   Ma, meno io che le provavo, e sapevo che erano una morte ogni volta, nessuno se ne preoccupava. In casa e fuori di casa tutti volevano essere aiutati e serviti da me. E mi fossero stati grati! Ma in casa era il solito trattamento egoista e dispotico. Fuori erano le invidie, così comuni e così deplorevoli in certi ambienti cosiddetti religiosi.
   Non può credere quante me ne fecero per invidia del mio riuscire! Non la sola Presidente che, dopo la paura durata un'estate, durante la quale era rimasta come una tartaruga intanata nel suo buco e col capo sotto la lorica, ora, a cose rimesse a posto col 4 settembre, era saltata fuori e aveva ripreso baldanza e prepotenza… Ma anche amiche mie del Gruppo Donne. Amiche che mi avevano vista bambina, che mi avevano voluto bene, che mi avevano spronata a fare qualcosa e, ora che facevo, e facevo più di loro, mi buttavano addosso tutta la bava del loro invido livore. Ne ebbi dolore perché ogni amicizia che si spezza mi dà dolore, e dolore mi dà constatare che uno che mi pareva buono si svela cattivo.
   Ma continuai lo stesso il mio lavoro. Nonostante tutto, ripresi le conferenze oltre il lavoro di circolo. La prima su S. Elisabetta di Ungheria. Vi andai tutta piegata dal tremendo dolore spinale. La seconda sul mio serafico padre S. Francesco d'Assisi.
   E quel giorno ho visto il mio angelo custode.
  

   Il mio gran soffrire di ieri sera mi ha fatto sospendere il mio dire. Stamane, prima di ricominciare, ho riletto quanto ho scritto in questo capitolo e ho visto che mi sono spiegata molto male, in maniera da indurla in errore.
   Ho scritto: «Non sono mai rimasta senza il conforto dell'amore di Cristo». Ciò potrebbe far pensare che ho continuato a godere delle sue carezze. Cosa in contrasto con quello detto poche righe avanti: «Tutto ciò che costituiva il sensibile dell'amore soprannaturale scomparve».
   La cosa è così. E speriamo che riesca a spiegarla bene. Niente più sogni, niente più carezze, niente più parole senza suono ma così percepibili all'anima. Niente più. Come se Gesù se ne fosse andato molto, molto lontano col suo amore. Ma io sentivo che mai come ora era in me. Solo era muto. Mi voleva bene come e più di prima, ma non si faceva più sentire in nessun modo. Era venuta per me l'ora delle tenebre, l'avevo voluta io, nessuno mi ci aveva forzato a subirla; io, solo io me l'ero imposta chiedendola al Padre. Adesso dovevo patirla con quanto di più doloroso ad essa fosse unito.
   Gesù, quando giunse la sua ora, rimase solo, staccato dal Padre. Era l'Uomo, unicamente l'Uomo che scontava la sua pena. Il Padre s'era ritirato nel profondo dei Cieli nel suo corruccio e la Vittima doveva soffrire da sola. Credo che più ancora di tutto il male che Egli, l'Innocente, sentiva rifluire in Sé con tutte le colpe — da Adamo primo ad Adamo ultimo — credo che più che la imminenza dei tormenti, che più che la persuasione dell'inutilità per tanti del suo sacrificio, che più che l'angoscia di vedersi tradito e rinnegato dai più amati e beneficati, quello che fece trasudare sangue dalle sue vene, superpressate da un peso di dolore immane, fu questo dover soffrire solo.
   È cosa tremenda. In tutti i dolori. Il dolore, quando è condiviso da un cuore di pietoso Cireneo, perde il suo peso schiacciante. Ma quando siamo noi soli a portarlo ci comprime fino a soffocarci… Se questo avviene per il dolore umano, molto più avviene quando questo dolore sale a sfere più elette delle umane. E Gesù soffriva per un dolore, per dei dolori di causa elettissima. Era l'Eroe che si sacrificava per una causa sublime, era il Santo che effondeva la sua carità per tutti, era il Martire che pagava per tutti. E gli mancava il conforto del Padre.
   Se guardiamo bene, durante quelle tremende ore15 che vanno dalla Cena — perché il suo martirio cominciò lì, nel dover subire la vicinanza del traditore, nel dovere, pur sapendo l'inutilità del suo ultimo richiamo, cercare di fermarlo nell'esecuzione del suo delitto: «Chi mangia il mio pane ha levato il suo calcagno contro di Me… In verità vi dico: uno di voi mi tradirà», e soprattutto nel dover dare Sé stesso, nel mistico Pane, a colui che già l'aveva venduto — se guardiamo bene, Gesù non perse mai la sua augusta maestà nel soffrire.
   «Dimmi come sai soffrire e ti dirò che uomo sei», dice un antico detto. Gesù soffrì in maniera talmente composta da mostrare quale fosse la sua vera natura. Mai un lamento, mai un tentativo di difesa. Il silenzio più alto sempre. Solo per glorificare il Padre, per testimoniare la verità, per confessare la sua missione, dice poche parole davanti al Sinedrio, a Erode e a Pilato.
   Ma dopo quel discorso dell'Ultima Cena, che io non posso mai leggere o ripetere a memoria senza piangere, dopo quella preghiera che segue al discorso, e che per me è la pagina più bella scritta dal momento dell'Annunciazione ad oggi, e che rimarrà sempre tale perché nulla la può superare, a meno che Cristo non torni a dirne un'altra ancor più sublime, discorso e preghiera di una calma divina, udiamo i gridi sconvolti del Torturato del Getsemani: «L'anima mia è triste fino alla morte… Padre mio, se è possibile passi da me questo calice!». E il Padre non risponde… Udiamo il grido straziante del Morente del Calvario: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai Tu abbandonato?». Tanto si sente abbandonato dal Padre, l'Innocente che muore, che neppur più lo chiama Padre!… In questa differenza che pochi notano, differenza resa ancor più grande dal momento in cui viene pronunciata, poiché chi muore chiama sempre il papà e la mamma ad aiuto nella convulsione finale — e Gesù era in tal convulsione — io comprendo tutta l'estensione di questo soffrire desolato del Cristo… E neppure in tal momento il Padre risponde… La morte in tutta la sua angoscia fisica, morale, spirituale, doveva essere gustata dall'Incolpevole per noi colpevoli.
   Gesù con me faceva uguale. Mi ero offerta vittima d'espiazione. E da vittima di espiazione dovevo vivere. Non voleva, non poteva parlare. Non voleva, non poteva farmi sentire che era lì e che mi aiutava solo con l'essere lì. Ma questa sua apparente inerzia, questo suo dormire, nell'ora in cui la tempesta scuoteva in mille modi la mia navicella, non diminuiva il mio amore per Gesù. E in questo era il mio conforto. Lo amavo sola, con la massima delle fiducie.
   Gli dicevo: «Tu non parli, Tu non ti muovi in me, ma so che sei lì ugualmente, che mi senti, che mi vedi. Ti amerò io doppiamente, per me e per Te, parlerò io per empire le pause del tuo mutismo, agirò io mentre Tu stai immoto. Non t'ho mai amato tanto come ora che non ricevo nulla da Te, nulla per i miei sensi umani, nulla per i miei sensi sovrumani. So che quello che Tu non mi dai, ora per ora, io lo troverò tutto in Cielo, versato da Te nella divina banca dei Cieli e aumentato del cento per uno poiché Tu, Amore mio, sei un banchiere di una prodigalità senza pari».
   Gli dicevo: «Povero Gesù! Forse sei stanco. Bussi alla porta di tanti cuori per entrare e riposare la tua divina stanchezza di Pellegrino che non ha dove posare il capo, poiché tua delizia è non stare nei Cieli ma stare fra gli uomini che hai ricomprati col tuo dolore. E nessuno ti vuole accogliere. Hanno già la casa del cuore piena delle sollecitudini terrene… Tu sei lo sconosciuto e, all'apparenza, si capisce subito che non porti ricchezze umane, onori terreni. Perciò ti chiudono la porta in faccia, se pure non ti escono contro coi mastini e coi randelli per cacciarti di più. E Tu sei stanco… Hai trovato un ricovero in un povero cuore che è tutto aperto a riceverti e ti sei addormentato con la tua afflizione nel cuore. Dormi, Gesù. Il sonno ci smemora da ciò che dà dolore. Dormi e riposa. Rimani Tu, come Padrone di casa, della mia povera casa del cuore, mentre io vado in giro per Te, a cercarti dei cuori, a dire Chi sei… Fa' il tuo comodo, Amore mio. Io farò il meno rumore possibile per non svegliarti, non avrò neppure un gemito se qualche cosa mi ferirà… Mi accontento di poterti servire lavorando per Te, di poterti amare senza che Tu me lo impedisca, di poterti contemplare, o divina Bellezza, mentre dormi nel mio cuore».
   Non ho mai amato così sovrumanamente Gesù come mentre Egli non ricambiava il mio amore sensibilmente…
   Intanto il Padre appesantiva la sua mano.
   Il dormire di Gesù, il suo sguardo velato nel sonno permetteva al demonio, che avevo vinto un anno avanti, di accostarsi subito per torturarmi in mille maniere. Come le ho detto, scatenando infermità che nessuno dei 29, dico ventinove… Esculapii, venuti durante questi dodici anni a tambussare, pigiare, bucare, frugare, ascoltare, è mai riuscito a capire. Scatenando più fiere invidie e più mordenti calunnie. Suscitando più acuti egoismi e freddezze e durezze e incuranze familiari. Persuadendo il prossimo che io non ero ammalata, ma fissata.Già, la mia era una fissazione paranoica, una manìa… e mi fu detto su tutti i toni… In altri invece infuse la convinzione che il mio lavoro per il buon Dio, che continuavo a compiere nonostante accusassi di esser molto ammalata, era la più bella prova che altro non ero che una pseudo mistica, un'isterica, legga volgarmente: una matta. Anche questo mi fu detto.
   E ci fu uno — un sacerdote che, per avermi molto avvicinata e visto il mio equilibrio, avrebbe dovuto essere almeno quello che più mi difendeva — che me lo disse con queste testuali parole: «Ma la sua, più che una malattia, deve essere una turba isterica. Sa! le donne!… Siete sempre dominate dall'isteria. In voi tutto si compie solo per gli impulsi di certi organi. È lì che devono cercare i medici».
   «No, sa», risposi. «Anche i medici hanno dovuto convenire che lì non c'è nulla, proprio nulla».
   «Allora (e qui un sorrisetto più pungente di un cespuglio di fichi d'India) allora saranno turbe mistiche…».
   Le confesso che il sangue mi salì al capo e dovetti fare uno sforzo potente per limitarmi a rispondere: «Non sono abbastanza femmina per essere dominata da certi organi, né tanto abbastanza santa da esser degna di turbe mistiche. Sono semplicemente una povera donna ammalata».
   Come sono crudeli gli uomini! Crudeli e profanatori! Perché voler alzare i veli più sacri dello spirito? E perché irridere un'a­ni­ma che Dio lavora?
   Infine il demonio si vendicò cercando di turbare il mio spirito portandolo verso la disperazione col mostrargli tutto il male che stava per venire nel mondo, le guerre e le stragi, la fame, i bombardamenti dei civili… Ma non vi riuscì. Ultima delle sue vendette, scatenare un male che ha ripercussioni su tutto l'essere… Gliene ho già parlato e gliene riparlerò.
   Ma nulla ha scalfito la mia confidenza, la mia fede, la mia volontà. Nulla, glielo assicuro.
  

   E torniamo al 4 gennaio 1932, giorno in cui vidi il mio angelo. Era domenica. Avevo iniziato la giornata con la S. Messa e Comunione. Poi, dopo avere riordinato la casa, via alla sede dell'As­so­ciazione per l'adunanza. Pensiero religioso e gara. Alle 12 a casa.
   Entro e sento un'aria irrespirabile. Mamma che, buon per lei, ha un cuore di ferro al quale l'acido carbonico non dà noia, aveva fatto 4 scaldini, tenuto un gran fuoco nei fornelli e serrato le finestre per non sentire il freddo. L'aria in casa era persino azzurrognola.
   «Ma qui si asfissia», gridai io che col mio cuore malato non sopporto l'acido carbonico neppure in minime dosi. E feci per aprire la finestra.
   «Lascia chiuso», urlò mamma. «Tutti i malanni li hai in casa. Fuori stai sempre bene!».
   Solenne bugia! Mi ero sentita male nei negozi, in pineta, per le vie, in chiesa, in mercato, dalle Mantellate, all'Esattoria, in casa di persone amiche… Ma quando mai mamma fu «mamma» con me?
   Non replicai più nulla e respirai quell'aria mefitica sentendomi il cuore sempre più pesante e palpitante.
   Mentre prendevamo il caffé venne una povera creatura a trovarci. Povera perché moriva a trent'anni di etisia. Due chiacchiere mentre io rigovernavo tutto. Appena uscita questa malata, mamma si sentì male e, naturalmente, perché la testa girava a lei, ci fu uno spettacolo di «ah!» e di «oh!». Chiamai la vicina di casa perché mamma non voleva stare sola mentre io andavo a scaldare del caffè e poi a prendere i sali aromatici.
   Corri a destra, corri a sinistra, sali e scendi le scale… Finii di sentirmi male. Mi sedetti in un camerino e… ebbi una sincope. Nessuno sentì il tonfo del mio corpo che cadeva, nessuno si occupò che io non tornassi, nessuno sentì neppure il baccano di vetri che io rompevo nel cadere. Mamma, alla quale il lieve capogiro era già passato solo col respirare aria pura, cicalava beatamente con la vicina…
   Mi rinvenni dopo quasi mezz'ora e mi trovai a terra con la bocca piena di sangue, perché nel cadere avevo coi denti fatto sette tagli nella lingua, con il dorso delle mani tutto scorticato dal colpo e dai vetri sui quali ero caduta, con le ginocchia sbucciate e con un cuore poi!… Mi alzai a fatica e piano piano scesi le scale…
   «Oh! sei qui finalmente? Dai una tazza di caffè a Elia (la vicina) che, poverina, non l'ha ancora preso, e poi muoviti ché è tardi e sono già venute a chiamarti per la conferenza».
   Allora mostrai le mie ferite e dissi il resto. Meno che nel cadere vidi al mio fianco il mio angelo. Come era bello! Che fulgore nel volto e nella veste che pareva fatta di petali di giglio cosparsi di polvere d'argento e di diamanti! Che sorriso! Ci starei tutti i giorni a soffrire come quel giorno per rivederlo! Deve essere stato lui a guidarmi nel cadere perché non andassi a conficcarmi sopra dei fiaschi che mi avrebbero reciso la gola.
   E così il capriccio di mia mamma mi procurò la vista dell'angelo mio. E mi procurò anche uno sfiancamento cardiaco.
   Il giorno dopo seppimo che anche quella povera malata, appena uscita da casa nostra, era caduta al suolo. Solo allora mamma si arrese all'evidenza che l'aria era satura di gas. E se ne arrese soprattutto perché si sentì male lei.
   Però nonostante l'avvenuto andai lo stesso al Circolo. Dio mi aiutò. Non ho mai parlato così bene come quel giorno.
   Quando alla fine fui complimentata e richiesta perché io, che avevo sempre una puntualità da re, avessi tardato tanto, mostrai le mani, che non avevo denudato dai guanti, e la mia lingua tutta tagliuzzata e dissi l'avvenuto. Furono tutti stupiti e mi mossero anche dei dolci rimproveri per la mia imprudenza.
   Ma che importa essere prudenti se la prudenza ci deve nascondere i volti di Dio e dei suoi angeli?
 


   Ecco… è un'invocazione presa dal Breviario Romano. Veni Sancte Spiritus (di alcune righe più sotto) è un canto d'invocazione allo Spirito Santo, preso dal Messale Romano.

   2 Quando pregate… è citazione da: Matteo 6, 6.

   3 il mio vecchio Parroco: mons. Giuseppe Guidi, parroco di San Paolino a Viareggio dal 1896 (anno della istituzione della parrocchia) al 1933.

   4 seconda parola, poiché la funzione delle "tre ore di agonia" consisteva nel commentare e meditare le "sette parole" (nel senso di: frasi) pronunciate da Gesù sulla croce.

   5 Suor Benigna è Benigna Consolata Ferrero (nota 53).

   6 queste parole, ed altre che seguono anche per accenni e allusioni, sono in: Matteo 3, 1-3; 4, 4; 5, 13; 6, 21; 23, 13; Marco 1, 3; 9, 50; Luca 3, 2-4; 4, 4; 11, 52; 12, 34; 14, 34-35; Giovanni 3, 8.34; 5, 24; 7, 18; 17, 12.

   7 la sua frase, nel contesto di: Matteo 25, 31-46. La citazione successiva è da: Matteo 23, 27-28.

   8 Stefana Quinzani (1457-1530), terziaria domenicana favorita da singolari doni soprannaturali, fondatrice di un monastero femminile, beata. Per le altre due si rimanda alle note 29 e 18.

   9 disse, in: Luca 6, 40; Giovanni 15, 14.

   10 avevo parlato della Vergine con riferimento al Concilio d'Efeso: definendo unite e inscindibili nel Cristo la natura umana e la natura divina, quel Concilio, adunatosi nell'anno 431, aveva riconosciuto in Maria Vergine la Madre di Dio oltre che di Gesù-Uomo.

   11 nell'Orto degli Ulivi, dove Gesù rimase con Pietro, Giovanni e Giacomo di Zebedeo (Matteo 26, 36-37; Marco 14, 32-33).

   12 Signora di Lourdes, poiché il Circolo si intitolava a "Nostra Signora di Lourdes".

   13 Ferravilla, nome d'arte di Edoardo Villani (1846-1916), attore comico del teatro milanese.

   14 mansueta greggia di Cristo era stata definita l'Azione Cattolica, organizzazione del laicato cattolico che collabora con la gerarchia ecclesiastica nel campo dell'apostolato. Le sue origini risalgono al 1865. Un conflitto con il regime fascista portò al temporaneo scioglimento delle sue associazioni giovanili.

   15 quelle tremende ore che si riferiscono al racconto di: Matteo 26, 17-75; 27, 1-50; Marco 14, 12-72; 15, 1-37; Luca 22, 7-71; 23, 1-46; Giovanni 13; 17; 18; 19, 1-30.

Casa Valtorta