MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MINORE

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AUTOBIOGRAFIA CAPITOLO 19


Senza Titolo

"Chi ama la propria vita la perderà
 e chi odia la propria vita
 in questo mondo la conserverà per la vita eterna…
 E che dirò io? Padre liberami da quest'ora?
 Ma io sono venuto appunto per quest'ora"
 (Giovanni 12, 25.27)

 
   Quando uno diviene completamente infermo subisce reazioni strane. Le prime, io le subii nell'aprile 1934; le seconde, più fiere, nell'agosto dello stesso anno.
   Passare dal moto, per quanto ormai ridotto e molto relativo, all'inerzia, è sempre penoso per chi era attivo. Ed io ero molto attiva. Dover dipendere dagli altri e farsi servire, mentre prima si era sempre fatto da sé e si era servito gli altri, è avvilente. Non sempre coloro che ci servono si ricordano di come li servimmo finché lo potemmo fare. E tanto meno se ne ricordano quanto più erano esigenti nel farsi servire finché lo potemmo fare. I primi giorni è una grande pena. Ma anche qui le reazioni sono diverse e la durata di esse pure diversa a seconda di come è l'allenamento spirituale.
   In coloro completamente lontani da Dio, immersi solo nel culto del senso e del denaro, l'infermità cronica è ribellione dalla manifestazione più violenta che può sfociare anche in un suicidio. Qualche volta, poiché Dio può tutto anche contro il nostro stesso volere, queste creature vengono salvate dal loro stesso dolore e riportate a Dio. Generalmente queste risurrezioni spirituali avvengono in anime non del tutto avulse da Dio ma solo sedotte dalla religione «del più comodo e del più piacevole». Sono anime più sviate che anime morte. Sotto il colpo del dolore si accorgono del loro aver fondato sul nulla il benessere e alzano gli occhi cercando un aiuto… Basta questo a Dio per farsi avanti e dire: «Povera creatura che soffri, eccomi, son qui. L'aiuto sono Io».
   Queste anime, in cui il dolore diviene voce di richiamo, sono spesso le salvate da un'altra anima che soffre per loro. Le due persone talora neppure si conoscono; delle volte non si conoscono neppure le anime… solo in Cielo avverrà l'incontro… Come saremo stupiti allora di vedere il nostro agente di salvezza nel più impensato essere che noi abbiamo sfiorato sbadatamente, o del quale neppure sapevamo l'esistenza! E come sarà bello per l'umile redentrice trovarsi intorno a farle festa coloro che ella ha redento col suo pregare e col suo soffrire!
   Uno dei dogmi che più mi affascinano della nostra Religione è quello della Comunione dei santi1. Quando io penso che la gioia di cui fruisco viene a me dai fiumi celesti di cui ogni flutto è formato dai meriti del Santo fra i figli degli uomini, dal mio Gesù, dalle grazie della Tutta-Grazia e dalla somma di opere e di carità di tutto lo sconfinato esercito dei martiri, dei vergini, dei penitenti, dei confessori, io mi sento rapita in un trasporto di riconoscente gioia e sento che finché meriterò questa infusione vitale non potrò perire. Io sono un povero essere ma, simile a una armatura che sorregga la mia debolezza, i tesori dei Santi operano intorno ed entro a me, dandomi capacità divivere la vita della fede. Quando io penso che alla mia nullità, che non sa altro che soffrire con gioia per imitare il Maestro e tutti i suoi eletti, è concesso di divenire a sua volta goccia nell'immenso fiume di questi meriti e andare a portare la mia freschezza alle anime arse da vampe umane, il mio lavacro alle anime infangate dalle colpe, il mio olio di carità ai feriti della vita, il mio nutrimento ai derelitti della sorte, il mio canto ai tristi, il mio pianto ai defunti, allora mi inabisso in un profondo di umiltà che adora e benedice! Essere, sol perché in me circola il sangue spirituale della Chiesa, essere io, io nulla, io miseria, io debolezza, io puerilità, una forza, una luce, un mezzo per dare Dio alle anime e col Dio ogni grazia, e le anime a Dio e con le anime dargli di che sollevare la sua sete!
   Nei tiepidi l'infermità dà nervosismo e piagnucolamento. Sono quei malati che, anche se hanno un male solo e non molto doloroso, non fanno che lamentarsi e proclamarsi i più infelici di tutti. Brontolano contro Dio che ha levato loro la salute. Anche avessero 80 anni e oltre, dicono sempre: «Però non è giusto che ora che sono presso a morire io soffra. Poteva risparmiarmi ancora un po'». Secondo loro è giusto che, invece, degli altri soffrano fin dai più teneri anni, tanto, dicono, chi ha sempre sofferto ci è abituato… Brontolano contro il prossimo che non ha mai sufficiente cura di loro. Una porta rimasta socchiusa è un attentato alla loro preziosa salute, un ritardo nel porgere loro un bicchier d'acqua è una prova sicura di malanimo, un lieve urto dato alla loro… fragilissima persona è un delitto, una parola detta per tentare di incoraggiarli è imperdonabile prova che noi non crediamo al loro soffrire, se si sorride è uno scherno, se si piange non si ha pietà della loro malinconia, se si parla li si fa aggravare, se si tace li si offende con l'indifferenza. Brontolano coi familiari, cogli infermieri, coi medici, arcibrontolano coi sacerdoti che dicono loro di avere pazienza, brontolano con le bestie di casa, brontolano per il caldo, per il freddo, per le mosche, per il fazzoletto che casca, per il caffè che è poco o troppo caldo, per il giornale che non si piega a dovere… Brontolano, brontolano come macchinette montate a elettricità. Vivono brontolando, inacidite dal loro livore verso tutti, più che dal male stesso. E queste sono quelle in cui c'è meno da sperare. Meno ancora che in uno ateo prima del dolore…
   Nei fervorosi l'infermità è rassegnazione. Non l'hanno desiderata, non l'avrebbero mai voluta se fosse stata loro facoltà il volerla o meno, ma posto che Dio l'ha mandata… col viso lavato dal pianto dicono: «Ebbene… Signore… pazienza! Se mi risparmiavi questa croce era meglio, ma posto che me l'hai data la terrò». E la tengono. La tengono. Però non l'abbracciano e non la portano. Stanno lì col peso addosso… e basta. Deve essere Gesù che ogni tanto leva loro il peso per farli camminare…
    Negli amanti di Dio l'infermità è gioia. La reazione di sgomento cessa dopo brevi momenti e non torna più. La carne soffre. Ma soffre essa sola. Tutto il resto è gioia. Questi hanno chiesto, con le più ardenti suppliche, quali neppure le fanno i sani per restare sani, di avere il dolore. Visto da lontano Dio che s'avanza portando la croce, vanno incontro a Lui esultando, baciano le sue mani sante che gliela offrono e baciano la croce come la cosa più cara. Non la tengono inerte ma, dopo averla stretta al cuore, se la mettono sulle spalle e vanno cantando… Dio davanti a loro e loro dietro mettendo i piedi nelle orme del Maestro, senza curarsi se il sentiero diviene ripido, spinoso, sassoso, senza preoccuparsi se i rovi lacerano le carni, se i ciottoli scorticano i piedi, se il sole martella esacerbando le piaghe, se l'acqua immolla le vesti, se il vento le agghiaccia, se la notte rende ancor più penoso l'andare… Sanno che alla fine spunterà il Sole! Sanno che alla fine il ripido sentiero si muterà nel liscio mare di vetro e di fuoco che adduce nella città dell'Agnello, sul quale mare di fulgori essi canteranno in eterno il cantico di Mosè e dell'Agnello2. Sanno tutto questo e non cedono la croce al pietoso Cireneo che li vorrebbe sollevare. Dicono: «No, Gesù, Amore santo. Tu l'hai portata per me una volta. Ora a me il portarla per i fratelli. Se la tua croce m'ha aperto una piaga dove si appoggia e il sangue goccia dall'òmero ferito, guarda, Gesù, il prodigio del mio povero sangue sul duro legno: lo fa fiorire in fiore di bene!». Sì, la croce fiorisce se la si ama. Sì, la croce diventa ala per chi la porta con generosità, ala veloce come ala d'angelo…
    Io rimasi sbalordita per poco. Mi rassegnai subito al mio destino. Dire: rassegnare, è mal detto. Devo dire: dopo lo sbalordimento del primo momento, già provato quando il male mi segregò in casa e che si ripeteva ora quando il male mi inchiodava in letto, io baciai cantando la mia croce, e devo riconoscere che non l'ho deposta un momento ma sempre l'ho portata cantando.
    Quando il dolore allenta la sua stretta, quando so che per me si prega per la mia guarigione, io tremo e sto in ansia che mi venga levato il mio tesoro. Sarebbe l'unica cosa che mi farebbe vacillare nella infinita fiducia, nella infinita confidenza che ho in Dio. Sarei tentata a pensare che Dio mi trova così indegna da non associarmi più all'opera redentrice del Figlio suo… Ed io che riconosco il mio non-valore, ma che conosco l'infinita misericordia del mio Dio che ci eleva al grado di redentori, noi povere miserie umane, cadrei nell'avvilimento e piangerei tanto. Ma io mi fido del mio Dio!
   Vede, Padre, oggi il demonio sghignazza intorno a me. Lunedì le dissi, non so se se lo ricorda: «Sento una malinconia inspiegabile oggi. Apparentemente non ho motivo di pianto. Ma certo qualcosa di penoso, che saprò presto, sta accadendo». Una delle mie solite premonizioni. Ieri sera il mio dottore3 è stato chiamato a Roma per una visita di controllo. Se idoneo, è la partenza per chissà dove.
   Lei sa quanti bisogni ho io e quali mali ho che richiedono certe cure alle quali ci si assoggetta male e non si può, per pudore, pensare di passare sotto altre mani. Lei sa anche i motivi morali per cui in casa mia è bene che venga uno che conosce bene le cose per non far fare commenti odiosi sul modo come vive mia mamma… è uno dei miei chiodi questo. Lei sa anche i motivi finanziari per cui sarebbe un disastro dover ricorrere ad altri medici. Tanti sono i motivi per cui è necessario che mi resti il curante.
   Per me, come creatura, non chiedo che questo. Nel mio lavoro, in un con la pace e la salvezza dei combattenti ecc. ecc., avevo messo anche questa intenzione per me; in un angolino, ma c'era. E il diavolo sghignazza: «Lo vedi il tuo Gesù come ti ascolta? Ti ha levato tutto e ora ti leva anche il medico. E te lo leva proprio ora che tu, povera stolta, ti illudevi di esser più sicura, proprio ora che il tuo straccio, sul quale hai consumato la tua forza, sta per esser messo sull'altare. Va' là che sei servita! La guerra va a rotoli, la pace è un mito, l'isolamento ti cresce intorno, il medico lo stai perdendo… Povera imbecille che ti sei illusa!…».
   Ma io lo lascio dire e mi attacco alla Croce gridando: «Signore, accresci la mia fede! Rendila tale da smuovere tutti gli ostacoli. Gesù, mi fido di Te! Sii a me Gesù». Se Gesù continuerà ad essere per la sua povera schiava: Gesù, ossia Salvatore, nulla potrà nuocermi mai. Io per conto mio nulla posso. Sono un'esile violetta che ha solo la buona volontà di consumarsi in profumo ai piedi della croce. È per questa convinzione della mia nullità che non ho voluto chiamarmi né figlia, né serva nel mio atto di offerta. Ma strumento e schiava.
   S. Teresina si dice «il piccolo bimbo della Chiesa, colui che ritto nella sua fidente innocenza presso il suo trono getta i fiori e canta il canto dell'amore». Io sarò meno ancora: sarò il fiore, il timido fiore dal capino penitente e dal cuore d'oro, la violetta che nasce fra l'umida zolla, sotto ai giganti del bosco, e ha per sua coltre le foglie cadute; la violetta che è più profumo che fiore e che solo cercandola si trova, tanto è modesta e schiva di apparire. Sarò la violetta che, colta dalla mano del «piccolo bimbo della Chiesa», viene gettata da esso, in un col suo canto, a morire sui gradini del trono di Dio.
   Non me l'ha insegnato la stessa Santina il canto della rosa che muore?
  

   «Quello che io sogno è di sfogliarmi…
   Si cammina senza rimpianto su delle

   foglie di rose
   e questi nonnulla sono un ornamento che una

   mano dispone…
   Gesù, per tuo amore ho prodigato la vita
   agli sguardi di tutti, rosa per sempre ferita

   devo morire.
   Per Te devo morire. Come lo bramo!
   Voglio, sfogliandomi, dirti che t'amo

   con tutto il cuore.
   Sotto i tuoi passi di bimbo vivere io voglio
   e per addolcire i tuoi passi estremi al Calvario

   ecco, mi sfoglio».
  

   La traduzione4 libera non sarà perfetta, ma l'ho fatta lì per lì come m'è sgorgata.
   Ma Maria, la violetta di Cristo, non morirà sui gradini del trono. Scenderà il Re, l'Agnello di Dio, a cogliere l'umile fiore che ha chiesto d'esser divelto dalla vita per morire profumando davanti a Lui, e il tocco delle dita sante darà una vita eterna alla piccola corolla, che nella sua esilità fu così resistente a tutte le bufere e nella sua modestia tanto ardita.
   Oh! che non si fida mai abbastanza nel Signore! Egli è sempre pronto a darci, con un sorriso, il «decuplo» di quanto noi chiediamo per suo amore…
   Sono lo strumento nelle mani di Dio. Nessuno strumento di lavoro si lamenta se l'operaio o l'artista lo usa fino a consumarlo o a spezzarne l'anima canora, come non si lamenta se, stanco di usarlo, lo butta in un angolo e lo lascia inerte a impolverarsi… Io pure devo essere così. Pialla, martello, sega e cacciavite nelle mani del Figlio del Fabbro intento a costruire le anime secondo il suo lavoro di artefice divino. Arpa o liuto, cembalo o tromba, io devo esser pronta ad aver voce o a tacere a seconda del desiderio del divino Artista che trae poemi di sinfonie dal suo Amore misericordioso. E se un peana troppo forte spezzerà l'anima mia canora non importa… Un'altra anima, più canora della mia, sarà usata dal Maestro per domare le creature furenti e renderle agnelle della greggia di Cristo.
   Uno dei primi avvenimenti della mia definitiva crocifissione in letto fu il cambiamento di dottore curante. Quello che così… pedestremente m'aveva curato per quattro anni era a Roma con la famiglia per la chiusura dell'Anno giubilare della Morte del Re­dentore. Sì, perché Gesù mi claustrò, dopo tre anni di vita pubblica, con gli inizi del 1933, e mi issò sulla croce proprio quando terminava l'Anno Santo per il suo XX centenario di Passione.
   Venne perciò un altro medico perché non si poteva stare senza… e questo fatto provocò un'infinità di pettegolezzi di ogni genere, fra i quali la piccineria del medico detronizzato che insinuò malattie contagiose che forse ora ci saranno, ma che allora non c'erano per niente, come lo dimostrano le svariate analisi. E con queste malattie contagiose altre mentali… È costume dei medici nascondere la loro incapacità di definire e guarire un male sotto l'etichetta di «mania» da parte della malata. Sicché fui a dovere lacerata dal buon prossimo.
   Io credo non errare pensando che tutto quanto avvenne dal 1° aprile in poi fu causato dalla mia speciale condizione di vittima offerta alla Giustizia divina. Vi era, dal 1931, un continuo aumento di persecuzione da parte demoniaca e da parte del mio prossimo, che si rendeva strumento del demonio per compiere quello che rientrava nei piani di Dio: ossia la mia purificazione.
   Al giorno d'oggi non ci si crede a questa potenza demoniaca che agisce e turba i suoi nemici o si impossessa di coloro che, poco guardinghi, possono esser presi da Lucifero come suoi agenti. Io ci credo. Non si potrebbero spiegare diversamente certi stati speciali di tentazioni in creature il cui unico lavoro è operare nella luce di Dio, come non si potrebbero spiegare certe cattiverie senza motivo che sono delle vere e proprie torture inflitte ai migliori. Sì. Vi sono anime che per la loro naturale tendenza o per insipienza divengono strumenti del demonio, che se ne serve per tormentare quelli che a lui più spiacciono. Come vi sono anime che per la loro particolare missione hanno il potere di inquietare Lucifero attirandosi le sue vendette. Costui, che non cura molto coloro che «non sono né freddi né caldi», come fa Iddio che rigetta i tiepidi5 da Sé, ha un livore speciale per quelli che ardono della carità, veri portatori di Dio perché «dove è carità là è Dio». E su questi si avventa con tutte le sue armi.
   Fra me, poi, e il demonio c'era una vecchia ruggine. Io non perdonavo a lui quanto mi aveva fatto soffrire dal 1914 al 1918 (particolarmente) e lui non mi perdonava di averlo messo in fuga nel 1930. Perciò guerra a morte. Finché Dio era stato su me, proteggendomi colle ali del suo Amore, poco aveva potuto farmi il demonio. Ma da quando io non ero più che un'ostia deposta sull'altare del Dio Giudice, e perciò abbandonata a me stessa, Lucifero si era messo all'opera.
   Ho detto abbandonata. Ma non si creda che fosse un abbandono, come dire?, un abbandono di corruccio. No. Era l'ora di prova di cui ho parlato in principio a questo quaderno. L'ora in cui il Padre si ritira perché è il nostro Getsemani e nel Getsemani i Cristi devono esser soli… Se ci fosse il Padre l'agonia non sarebbe agonia.
   Il ritiro del Padre aveva dato via libera al demonio, il quale mi ha torturata per nove anni. Oh! se non mi fossi offerta per salvare i disperati, per redimere coloro che sono sulla via della dannazione, per portare il Regno di Dio nei cuori e i cuori al Regno di Dio, se non avessi chiesto questa missione espiatrice, dovrei dire che quanto avvenne fu cosa crudele. Ma io so quanto ho dato, perché l'ho dato, e perciò trovo che questo, che potrebbe apparire ingiusto rigore del Padre, disamore del Padre, è invece la più bella prova d'amore. Chissà quanto è doluto all'Eterno di dovermi lasciare in balìa del Malvagio! Ma ciò rientrava nel mio desiderio e nell'opera di Dio, che aveva bisogno anche di questo per tante povere creature più infelici di me, perché morte alla grazia.
   Non so se rendo bene il mio pensiero. Ho sofferto. Quando sarò morta si dica pure che le sofferenze fisiche sono nulle rispetto a quelle morali che subii. Dico morali perché lo spirito non fu leso. Urtato sì, schiaffeggiato sì. Ma non menomato.
   «Perché6 la rivelazione non m'esaltasse, Dio permise ad un angelo di Satana di schiaffeggiarmi, onde io pregai che Egli me ne liberasse. Ma Dio rispose: "La mia grazia ti è sufficiente"».
   Lo spirito è proprietà dell'Eterno. È la casa dove il Padrone e il Re abita, dove la Triade santa si aduna perché ove è il Figlio là è il Padreche per Amore mandò il Figlio. E questa casa sarà Loro finché noi, di nostra malvagia volontà, non gliela leviamo col peccato.
   Il mio spirito era ed è proprietà del Dio Uno e Trino e, se nella mia miseria dico ad ogni palpito: «Signore, io non sono degna di riceverti e di ospitarti», non per questo però chiudo a Dio la porta del cuore, ma la apro tutta, fidando nella pietà misericordiosa del Signore…
   Essendo lo spirito di proprietà del mio Signore, contro di esso il demonio nulla poté fare fuorché girarvi intorno come leone furente e vendicarsi mordendo, dirò così, l'intonaco di esso spirito, ossia il morale. Quanto mi ha fatto soffrire! Ma ad ogni lotta il mio Gesù diceva: «Coraggio! Per il tuo dolore un'anima ha fatto un nuovo passo verso di Me. Ed io ti sono grato!».
   Ma che ne dice, Padre? Non bastava questa parola a far di me un leone indomito che non s'arrende, che tien fronte a tutti gli agguati, e che mentre atterra il male offre al suo Signore le prede che strappa al Nemico? Bastava. E sempre più mi faceva ansiosa di lottare.
   Nel maggio cominciò quella che io chiamo la Torre di Babele.
   Il nuovo medico, che curava così bene e mi aveva dato un miglioramento sensibile, fu circuito da una persona, uno degli strumenti del demonio, la quale lo persuase che io non ero malata di cuore ma di forme tubercolari. Il medico detronizzato, che villanamente s'era licenziato da sé non appena saputo che nella sua assenza ne avevamo chiamato un altro (io credo che ha colto la palla al balzo perché credeva fossi per morire e non voleva toccasse a lui…), aveva sparso questa voce e, riportata ampliata al nuovo curante, aveva preso credito. Veramente un medico dovrebbe credere solo a sé stesso. Ma insomma…
   Questo dottore non era di Viareggio. Andava e veniva da Firenze. Il 5 maggio, dopo una visita accurata, la solita visita di ogni settimana — veniva ogni settimana — mi cambiò la cura… Ne avevo già cambiate una dozzina. Via la trinitrina, via il viretone e via il cardiotonico. Voleva farmi iniezioni di calcio perché c'era la tubercolosi polmonare… La tubercolosi? Da quando in qua? A nessuna analisi era risultata e in me non c'era nulla che la facesse supporre. Ripeto: forse ora ci sarà. Ma nove anni fa no davvero. Basta. Mi rifiutai alle iniezioni di calcio.Non volevo iniezioni… E ora ne ho fatte oltre 13.000, dico tredicimila… Allora giù calcio, olio di merluzzo, colesterina per bocca e fosfati e vitamine… il mio stomaco divenne un acquaio… Erano tante le cose da prendere, e tutte a distanza di almeno un'ora l'una dal­l'altra e a distanza dai pasti, che io chiesi al dottore, con mossa da Fra Ginepro: «Mi dice allora a che ora posso mangiare?». Perché si raccomandava di supernutrirmi e di stare in riposo. Solo per mezz'ora al giorno dovevo stare al sole.
   Risultato: stomaco rovinato, impedimento al nutrimento, non sovrabbondante ma minore anzi del solito perché sempre indigesta per tutti quegli intrugli che ingozzavo, crisi di cuore più violente che mai, aumento di febbre, e infine una bella congestione dovuta al sole e alla calcificazione delle arterie, fino ad avere una sclerosi giovanile con formazione di aneurisma.
   Ma prima di dire il resto faccio un commento. Se un'altra persona avesse dovuto delibarsi quella diagnosi si sarebbe spaurita. Io la presi con letizia. Esser tubercolosa, e al punto in cui ero secondo quel medico, voleva dire morire presto. E che volevo se non consumare il mio sacrificio? Oh! stoltezza umana! Quella mia fretta era viltà ed egoismo. Perché non era altro. Viltà: soffrire molto ma per poco. Egoismo: cessare presto di soffrire. Non basta il desiderio del cielo a giustificare questa fretta, specie quando ci si è offerte come vittime.
   Il Redentore non ha affrettato di un attimo la soluzione finale del suo martirio. Sarebbe stato più comodo anche per Lui un solo colpo di spada, subito dopo il bacio infame. Avrebbe evitato tanti tormenti e levato subito il ricordo di quel bacio cancellandolo col sangue, quel bacio che dovette dare un ribrezzo al Cristo come lo strisciare freddo e sinuoso del serpe sulle carni vive. Ma Gesù non accelera nulla. Vive tutte quelle ore di tortura, suddivise in minuti di spasimo così intenso che ogni minuto vale un'ora. Le subisce tutte: una dopo l'altra col loro rosario di contumelie, di pugni, di randellate, di sputi, di corse fra la turba ubriaca di odio che lo stiracchia qua e là, sadicamente incosciente, con l'avvilimento d'esser denudato, vestito come un folle e un re da burla, con lo strazio della flagellazione spietata, della coronazione crudele, con la fatica sovrumana del cammino in salita, sotto il peso della croce e in quelle condizioni, fino alla vetta del Golgota, con la crocifissione atroce, con l'agonia tremenda…
   Una piccola vittima, le cui pene sono un nulla rispetto a quelle del Maestro, non deve avere più fretta di Lui. Ogni attimo di quelle ore torturanti era pegno di salvazione per infinite schiere d'anime, e per questo Gesù, se lo avesse potuto, avrebbe prolungato i suoi tormenti perché neppure uno, neppure uno dei suoi poveri fratelli erranti perisse dopo la sua morte. Una piccola vittima deve esser lieta di vedere prolungare la sua agonia offrendone ogni nuova ora a un nuovo scopo che ha un unico denominatore: salvare una nuova anima.
   Il mio buon Maestro mi istruì in tal senso, perché se il Padre s'era ritirato nell'ora del mio Getsemani io avevo sulla mia agonia non l'angelo di Gesù, ma Gesù stesso. Ce l'ho. Il mio buon Maestro mi istruì che dovevo benedire ogni giorno di più che fossi vissuta sulla croce, perché ogni giorno passato su essa poteva giovare a un'anima. Mi disse, con la sua Voce senza suono ma così sensibile allo spirito: «Sappi far fruttare ogni tua sofferenza. Ricordati che sei qui non per te ma per le anime. E le anime non si salvano che con la sofferenza. Dàmmi delle anime, Maria». Allora io gli risposi: «Dàmmi delle agonie, Gesù!». E il patto fu stretto. Un'anima per ogni nuova agonia. E che si salvasse proprio. Un'anima consolata per ogni giornata di dolore senza agonia.
   Da allora ho desiderato le agonie e le giornate di spasimo. Le ho desiderate con un desiderio senza misura, studiandomi di accrescere le mie sofferenze in mille modi. C'è tuttora una mia figlietta che ancora ricorda come si inquietava vedendomi sorridere quando mi sentivo venire addosso la crisi tremenda che mi portava alle soglie dell'eternità. Sorridevo pensando che un'altra anima si salvava.
   Presunzione la mia? No. Fiducia in Dio. Se è vero che anche un atto insignificante, compiuto per amore, acquista un grande valore agli occhi di Dio, quale valore non avrà il soffrire la morte per amore? Gesù lo dice[108], con la sua divina parola, quale amore perfetto sia questo: «Nessuno ha un amore più grande di colui che dà la vita per i suoi amici».
   Io davo la vita per i miei amici, abbracciando sotto tale nome una turba infinita di anime in cui erano, e sono, parenti, amici, conoscenti, sconosciuti, nemici, idolatri, defunti… e a capo di tutto questo esercito di amici che, ricomprandoli alla grazia, divenivano miei figli, io mettevo il mio Amico divino: Gesù, il Fratello, il Maestro, lo Sposo, il Re.
   Non si può avere un amore più grande per Te, mia ineffabile Gioia, di quello di dare per Te la vita, perché Tu trionfi nei cuori e il tuo Regno venga! No, non si può avere un amore più grande! E se nel mio amore vi sono debolezze umane che lo inquinano e ne diminuiscono il valore, Tu, indistruttibile Compassione, abbi ugualmente pietà di me. Non guardare, o Misericordioso, la mia povera realtà. Guarda solo il mio ideale desiderio d'esser perfetta agli occhi tuoi, non per averne un premio, ma per ricondurre un sorriso sul tuo volto amareggiato dai delitti di quest'ora.
   Qualcuno, vedendo la mia ilarità nel soffrire, fece meco la parte di Pietro8 presso il Maestro. Ma io ebbi la stessa risposta del Maestro verso lo zelante apostolo: «Va' indietro, Satana, ché tu mi sei scandalo». Non usai quella formula tale e quale perché sarebbe stata poco caritativa. Ma pure stemperandola in molte altre parole feci capire che se ero dipendente, peggio di una bimba, in tutte le cose, tenuta come ero dalla mano materna di ferro che neppure la malattia rendeva meco più dolce, intendevo conservare tutta la mia indipendenza nelle cose dello spirito. In queste solo Dio aveva diritto di imperare. E nessun altro.
   Vi era in questo una grande giustizia, in fondo. L'unico che m'avesse amata, per tutta la vita, era il mio Dio. Gli altri o non avevano potuto o non avevano voluto. Solo Lui mi aveva teso le braccia e accolta sul cuore, senza tener conto dei miei sgarbi, dei miei bronci, delle mie freddezze; solo Lui mi aveva consolata, asciugato le lacrime, medicato il cuore; solo Lui mi aveva fatto da padre, da madre, da fratello, da sposo, da amico. Ora, dopo avermi tanto dato, mi chiedeva una cosa sola, l'unica che gli potessi dare perché nella mia schiavitù familiare non possedevo nulla e non disponevo di nulla fuorché della mia vita, di quella vita che da Lui mi veniva e che Egli mi aveva tutelata fin lì. E io gli davo il mio unico picciolo. Gettavo il mio unico avere nel gazofilacio9 che Egli mi tendeva…
    Vi sono tante anime da comperare… Una volta di più mi persuasi come dopo 20 secoli di cristianesimo si sia ancora lontani dall'avere capito l'essenza del cristianesimo, che è religione di generosità, di ardimento, di carità… I più invece l'avviliscono ad una comoda agenzia dove devono esser vidimati, mediante un leggero pagamento, tutti i passaporti per il Paradiso, o a un enorme magazzino dove il proprietario, il buon Dio, sia sempre disposto a dare ai clienti quello che loro più piace. Una specie di paese della Cuccagna!… E che brontolii se non si trova subito quello che si chiede!…
  

   Venne così l'estate. E, con l'estate e la cura sbagliata, la congestione. Era il 1° agosto. Alle 15 andai proprio in estremis. Anche qui il demonio ci si mise a dovere per farmi disperare.
   Mio padre corse subito ad avvertire chi di dovere perché venisse il medico, allora a Viareggio per le bagnature. Ma l'incaricata, la stessa che aveva persuaso il medico circa la mia pretesa tubercolosi, preferì non fare raffreddare una pentola d'acqua anziché avere pietà di me e correre a chiamare il medico. Morale: egli giunse dopo due ore di crisi e quando già il sangue si coagulava nelle vene.
   Fu la mia prima iniezione, di 5 fiale diverse messe tutte insieme, quella. Si parlava già di farmi l'ipodermoclisi, ma si poté poi evitare. Per poco andai a fare il Perdono d'Assisi in cielo! In 24 ore ebbi cinque attacchi angiospastici!
   Alla mattina del 2 agosto, alle 4, il mio Parroco, convintissimo che io morissi, mi portò il Viatico. E rimase per molte ore, assistendo anche a un consulto in cui, preziosa scoperta, mi si trovò non più mal di cuore, di polmoni, di circolo, ma male di fegato (?). Fegato? E chi mai si accorse d'avere un fegato? Mah! Dovevo avere il male di fegato. Lo aspetto ancora dopo nove anni! Cura di acque termali ecc. ecc.
   Partiti i due… scopritori del fegato volli un'altra visita. Ma la volli senza presenza del curante. Venne il Professore Bianchi, tisiologo. Escluse il fegato, e escluse qualsiasi forma tubercolare e specie polmonare. Trovò solo che con tutto quel calcio somministrato mi avevano calcificato le arterie. Perciò cura decalcificante per la sclerosi precoce e da capo trinitrina e spasmosedina per il cuore lesionato al sommo. Silenzio, riposo, camera tenuta scura ecc. ecc. Passai l'estate col vetro aperto e le persiane sempre chiuse. M'è rimasto impresso il raggio di sole che batteva sul muro delle scale… Se penso a quel raggio rivedo quei giorni. Fui per 17 giorni più nella morte che nella vita. Poi l'embolo si sciolse e migliorai un poco.
   Ora dovevo essere vegliata. Mia mamma mi abbandonò subito ad altre mani. Io, se avessi avuto una figlia in quello stato, con un cuore che poteva cedere di minuto in minuto, non l'avrei lasciata un attimo. Lei mi lasciò fin dalla prima notte, nella quale fui vegliata da una suora. Povera donna! Faceva del suo meglio ma, forse abituata con la maggior parte dei malati che beve e mangia tutti i momenti, mi disturbava continuamente col chiedermi se volevo bere qualcosa… Le notti dopo vennero a turno delle signore e signorine amiche. Ma io le facevo coricare sull'altro letto. Mi bastava averle in stanza… Loro dormivano… io passavo le ore parlando con Dio e scandendo il tempo sul battere furioso del cuore. Di giorno veniva una suora per assistenza. Era molto buona.
   Il medico, ostinato, sosteneva che vi era della tubercolosi o dell'isteria. Analisi su analisi… e la tubercolosi non si decideva a saltar fuori per fare piacere a lui. Prove su prove per stabilire l'isteria. Ma anche questa non voleva mostrarsi per farlo felice. E io soffrivo terribilmente.
   Altro consulto con un chirurgo. «È un'appendicite! Va operata subito!». Buum! Anche nel 1920 era stato detto così, e dopo 14 anni l'appendicite non s'era ancora mostrata. L'aspetto tuttora. E vivo di insalata cruda, piselli e simili delizie per un intestino, secondo il chirurgo, quasi perforato!…
   Altro consulto: «È una insufficienza genitale». Tre volte: Buum! Non avevo mai sofferto in tal senso. Altro che insufficienza! Se mai era tendenza alla supersufficienza! Ma doveva esser quello il focolaio. Non c'era bene. Gran comodità per i medici curare delle donne! Quel che non sanno classificare con un giusto nome lo battezzano: isterismo, e noi siamo servite! Cura di ormoni ovarici. Frutto: il cuore sempre uguale. Una infiammazione ovarica sfociata poi nel tumore che mi dà tanto dolore e noie non solo fisiche.
   Allora, visto che non si è fatto centro nel bersaglio, signori si cambia. Torna da capo il tisiologo il quale — oh! incoerenza umana! — lavorato a dovere dal curante, si rimangia tutta la diagnosi di poco tempo avanti e, mentre prima m'aveva messa a acqua fresca e succhi di frutta per la pressione, ora mi ordina supernutrizione; mentre prima aveva ordinato immobilità assoluta, pena la morte, ora mi ordina di alzarmi e andare in pineta; mentre prima mi aveva decalcificato le arterie con tutti i nitriti possibili, ora riordina calcio a tutto spiano, perché c'è una tubercolosi bilaterale (bum!) che se non si arresta con supernutrizione, aria, moto e calcio, entro tre mesi (bum, bum!) m'avrebbe portata al cimitero fra tremende emottisi (bum, bum, bum!).
   Era il 4 settembre 1934. Oggi è l'8 aprile 1943. Io ho mangiato sempre meno, non ho preso aria fuorché quella che entra dalla finestra, non ho fatto moto, non ho preso calcio e sono qui… in attesa…
  Dovevo far moto, ma però nessuno dei tre medici consulenti si prese l'impegno di portarmi, con la autolettiga, a fare la radiografia… Sapevano che a muovermi risicavo la morte, se pur non ci precipitavo.
  Insomma uno mi dava alcool in tutti i modi, l'altro mi vietava anche il vino bianco innacquato; uno mi somministrava caffeina a alte dosi e l'altro mi vietava il caffè; uno mi supernutriva provocando crisi su crisi e l'altro mi metteva a acqua e succo di frutta… Roba da ammattire!!!
  Venne finalmente un professore, amico nostro. «Ma chi ha dato tutta questa roba?», esclamò vedendo la farmacia che avevo sul comodino. «Ma sono pazzi! Farei volare tutto in mezzo alla strada». Visita e esclusione assoluta di tubercolosi. Una grave miocardite, quella sì, e ormai una infiammazione ovarica. Letto, riposo assoluto, vitto sostanzioso ma ridottissimo, iniezioni di cardiotonici e basta.
  «E poi ora ci penso io a trovarle il medico che fa per lei». E lo trovò. È il medico attuale, che da otto anni e mezzo mi cura e che, se non è un'aquila che sana tutti i mali, è almeno un buon psicologo che capisce le cagioni dei mali. E questo è già tanto per un malato, e specie percerti malati!
   Riguardo a risanarmi… Egli dice spesso e da anni: «Noi non possiamo nulla in questo caso. Ci troviamo di fronte a forze più forti della medicina, le quali impediscono il minimo sollievo nelle condizioni della malata come impediscono la morte della stessa, che umanamente avrebbe dovuto essere morta già da anni e per la violenza dei mali che la rodono e per le cure stolte fatte in principio. Io non sono un credente convinto, ma mi arrendo all'evidenza del miracolo. E qui, nel durare di questa vita, vi è del miracolo: un miracolo ancor più grande di quello di una guarigione. Io non faccio nulla, seguo solo il male come posso perché sento che, anche facessi l'impossibile, cozzerei contro un Volere che annullerebbe ogni mio sforzo».
   Meno male che l'ha capita! Però anche gli altri, dirò così: di passaggio, quali i consulenti, hanno concluso tutti così. «Se lei è credente vada a Lourdes o a Loreto. Qui vi è la mano di Dio e Lui solo può operare la guarigione».
   Molte volte mi è stato proposto di andare a Lourdes o a Loreto. Anche il mio Parroco nei primi tempi mi propose di accompagnarmici lui gratuitamente. Ma, pur essendone grata, ho rifiutato. Prima di tutto sarebbe, come già ho scritto, una grave incongruenza. Non si richiede quello che si è donato. In secondo luogo io rinuncio alla grazia di salute, che potrebbe essere data a me, in favore di un'altra creatura ammalata e che non si rassegna all'infermità.
   Tutte le volte che c'è un pellegrinaggio di malati o una novena solenne quale quella alla Madonna di Lourdes, di S. Giuseppe, di S. Antonio ecc. ecc., io dico al Signore: «Se io andassi, se io ti pregassi, Tu, Bontà infinita, mi risaneresti anche. Ma io invece, te ne prego, ti supplico di dare a un altro la salute o almeno il sollievo dagli spasimi che daresti a me. Che ne fruisca un altro e te ne dia lode. Vi sono tanti padri di famiglia, tante madri di famiglia ammalati e necessari ai loro figlioli! Guarisci uno di questi! Vi sono tanti ammalati che si disperano d'esserlo: guarisci uno di loro! Basta che vi sia una creatura di più che ti ama e benedice ed io sono contenta, molto di più che se guarissi io o se mi diminuisse questo spasimare».
   Pensi come sarà bello per me il Paradiso in cui incontrerò coloro che furono guariti per la mia rinuncia! Guariti dal male fisico e guariti dalla sfiducia o dalla disperazione! Ora non so chi siano. Ma in Cielo lo saprò. Sarà lo stesso mio Signore a indicarmeli mentre, tenendomi stretta sul cuore, mi dirà10: «Vieni, benedetta, poiché fui malato e tu mi risanasti».
   Vi sarà certo anche questa beatitudine per quelli che rinunciarono a guarire per guarire un altro! Neppure un bicchier d'acqua dato in suo Nome è vano e resta senza premio… Quale premio avrà allora l'aver dato in suo Nome la grazia della sanità ad un fratello ammalato?
   Oh! sono così felice quando soffro tanto, tanto, tanto!… La mia missione è soffrire. Tutte le volte che la pietà dei medici escogita un rimedio, e tutte le volte che la pietà dei credenti innalza preghiere per il mio migliorare, si nota un peggioramento più grave e un soffrire più acuto.
   Nell'economia che regge l'Universo tutto ha la sua ragione d'essere e la sua missione da esplicare. Gli astri rotando ci danno luce e sprigionano forze astrali che influiscono sul fruttificare delle cose minori e sulle leggi delle maree. Le acque ubbidiscono al codice eterno che impone loro di scendere in pioggia e in neve dalle nubi che le adunano per innaffiare la terra e per formare i ghiacciai che alimentano i fiumi i quali, sfociando nei laghi e nei mari, li nutrono del loro elemento e ne fanno come degli enormi serbatoi dai quali il sole pompa gli evaporanti vapori per formarne novelle nubi datrici di pioggia. I pesci, gli stupidissimi pesci, servono alla pulizia delle acque oltre che per cibo umano. Gli uccelli servono allo sterminio degli insetti e alla semina spontanea dei semuzzi dei fiori. Gli alberi, riverenti alle leggi vegetali, si vestono di fronde a primavera per fare dimora ai nidi e ombria all'uomo, oppure si coprono di frutti per sfamare l'uomo e gli uccelli del buon Dio. I semi accettano d'esser sepolti nella terra nera, dove non strisciano altro che vermiciattoli, per spuntare, a loro tempo, in pianticelle che dan pane o cibo di ogni genere. Le pecore si coprono di più folta lana durante l'autunno per dare a primavera bioccoli agli uccelli fabbricanti i nidi e tepore di vesti ai figli dell'uomo. Le api e le farfalle servono a propagare il polline senza il quale inutile sarebbe il fiorire delle piante. I venti hanno la loro ragione d'essere perché regolano il calore, spazzano il cielo, mondano i mari e fanno da paraninfi nei vegetali connubi di fiore con fiore. Persino i rovi hanno la loro missione. Sono difesa ai penduli nidi, pieni di carni tenerelle, contro l'insidia dell'uomo e delle serpi, e servono di uncino ai bioccoli di lana cercati dagli uccellini e donati dalle greggi.
   Tutto, tutto ha il suo «perché» nel creato e tutto ha la sua missione datagli dal Creatore. Io ho la mia: quella di soffrire, di espiare, di amare. Soffrire per chi non sa soffrire, espiare per chi non sa espiare, amare per chi non sa amare. A me non ci penso. Dico al buon Dio: «Mi affido a Te!», ed è tutto quanto gli dico.
   Non penso menomamente di tenere registri e inventario, come fossi un commerciante, su cui segnare tutto quanto posso fare di bene per presentare i miei conti all'Eterno nell'ora del giudizio. Ma neanche per idea! I conti li odio!… Quando andrò lassù e mi verrà chiesto: «E tu che hai fatto di bene pensando a quest'ora?», io risponderò: «Ma… lo saprai Tu, Signore. Io so solo che ho amato Te e ho amato il prossimo per Te». Davanti ad una così assoluta assenza di… contabilità umana, il buon Signore non avrà altro che mettere… sulla contropartita un bell'annullato e farmi passare oltre… Lo dice anche Teresina: «Per i piccoli non ci sarà il giudizio». Io sono ancor meno che piccola: sono una deficiente che sa fare solo una cosa: amare.
   Non chiedo né morte né vita. Morire ora o di qui ad altri dieci anni mi lascia indifferente. Neppure il pensiero che la morte mi schiuderà la Vita è valido a farmi chiedere a Dio di affrettarsi a immolarmi del tutto. Una sola cosa voglio: «Fare la sua Volontà»… e d'altro non calme…
   Se diverrò povera, il buon Signore che sfama gli uccelletti del cielo sfamerà me pure. Se diverrò abbandonata, Egli, il buon Samaritano, mi procurerà l'assistenza. Se non avrò più casa, più vesti, più nulla, Egli, che sa cosa vuol dire non avere un sasso ove poggiare il capo, troverà per me una casa di Betania dove una pietosa mi darà quanto è necessario alla nostra umanità. Divenissi cieca, sorda, muta, coperta di piaghe, Egli, che mandò il cane11 a medicare la piaga di Rocco, il corvo a sfamare la fame di Benedetto, mi procurerà l'animale, migliore dell'uomo, che non avrà schifo delle mie piaghe e mi porterà il tozzo di pane. Se anche questo mi mancasse, mi basta che resti in me la facoltà di amarlo ancora, amarlo fino all'ultimo respiro il mio Dio, e non chiedo altro.
   Bisogna esser stati trattati dal prossimo come lo fui io per capire che sulla terra tutto è vanità e menzogna e che solo Dio non mente e non delude. Quando si è convinti di questo, si arriva, per forza, a quello, ossia ad amare l'Unico che non ci ha mai nuociuto: Iddio.
   Quando si ama Iddio, il calore si riversa dal centro al di fuori, e così si ama il prossimo, non per quello che vale ma per quello che è: opera di Dio, redento da Cristo, abitacolo dello Spirito Santo. Lo si ama per forza perché, avendo in noi Dio — chi ha la carità ha Dio — abbiamo la sua Misericordia, la quale copre le brutture altrui e riveste i corpi, anche se repellenti di tabi morali, di una veste soprannaturale.
   Perciò, se Gesù vuole ancora per molto tempo prolungare gli sponsali della mia anima con Lui, nel bel Paradiso, che dirò io? Dirò solo: «Ecco la tua schiava, o mio Signore, fa' con lei il tuo piacimento».
  

   Sono stata interrotta a questo punto per il pranzo.
   Mentre preparavo le bricioline di pane per i miei colombi ho, per la seconda volta durante la mattinata, sentito una voce che mi sussurrava: «Bada che quanto scrivi è materiale che resta e nel quale si frugherà per ricostruire la tua vita. Vedi perciò di riflettere a ciò che dici per non diminuirti o per non aumentarti». Anche stamane, nelle prime ore del giorno, mentre ero intenta alla mia toletta, la stessa idea prese voce in me.
   Mi accade spesso che le ispirazioni, i consigli, le voci mi suonino in cuore proprio quando sono occupata in cose molto lontane dal regno dello spirito. Quando prego è difficile che le oda, mentre quando scrivo, leggo, lavoro, mangio, scherzo con le mie bestioline, parlo con Tizio e Caio, ecco folgorare nell'anima una parola… Forse dipende che qualunque cosa io faccia il mio io profondo è sempre fisso in un posto e nulla può separarlo dalla sua vita che è Iddio. Non so. Penso sia così.
   La prima volta non ho dato retta a quella idea. La seconda vi ho riflettuto sopra e ho concluso così: «Chiunque sia che parla sappia che, esaminando me stessa, sento di non avere fatto altro che scrivere il pensiero più vivo e vero che ho in me e che ho narrato il male e il bene, il bene e il male, così come sono accaduti. Ugualmente farò fino alla fine. Se nella narrazione avessi a diminuirmi non me ne importa. Se invece avessi ad accrescermi nel concetto altrui, ciò non sarebbe nulla per me. Solo sarebbe una maggior gloria di Dio, che sa dal nulla trarre un prodigio di grazia. Riguardo poi al pensiero che nel mio scritto potrebbero domani i posteri frugare per ricostruire la mia figura ideale, ti dico che ciò non mi disturba. Quando ciò avvenisse, io non sarò più umana creatura, ma spirito. Come spirito, e spero spirito del regno di Dio, non ci sarà pericolo che l'orgoglio si susciti. Nei cieli questa piantaccia non alligna. Perciò non mi esalta e non mi deprime questa prospettiva. Se tu che parli sei il mio Dio, tu lo vedi che dico la verità su tutto e anche su questo ultimo pensiero. Se sei il Nemico, allora risparmiati pure il fiato: nessun tuo fumo di lode mi salirà al capo. Siine certo. Ho troppo presenti le mie passate miserie e la mia nullità di ora».
   E mi sono messa a mangiare tranquillamente.
   Ho voluto dirle anche questo perché mi pareva giusto di doverglielo dire. E ora vado avanti.
  

   Nel novembre, il 19 novembre, sognai che mio papà moriva… Allora stava molto bene. Ma io sognai che moriva… Mi svegliai con un grande batticuore. Lo dissi a mamma e alla signorina che aveva dormito in stanza mia quella notte. Quest'ultima mi consolò come poté. Mamma mi schernì, come suo solito.
   Passava per un periodo impossibile. Aveva creduto che il mio male durasse poco e poi mi alzassi come prima. Ma questa volta era proprio l'infermità cronica che era venuta. Lo avevo detto tante volte, negli anni precedenti: «Non ne posso più! Tiro, tiro la carretta, ma sono esausta. Se mi fermo, se casco, il povero ciuchino non si alzerà mai più». Anche allora non ero stata creduta… La privativa dei malanni era di mia madre… io e babbo non avevamo diritto di ammalarci. Così pensava lei. Ma Dio le mostrò il contrario. Quella quercia di babbo scrosciò al suolo in tre giorni ed io… sono inchiodata a vita. L'unica sana è lei. Insomma il vedere che io non guarivo e che, dopo essere stata fino eccessivamente servita da me, ora mi doveva servire, l'aveva resa idrofoba.
   Povero babbo! Quanti sgarbi, quante trascuratezze! Dovette vivere gli ultimi suoi mesi di vita condannato al lesso, agli affettati e al caffè e latte, lui abituato ai mangiarini e soprattutto ai dolci che sempre gli facevo e di cui era goloso come un grosso bambino.
   Povero babbo! Quanti rimbrotti perché, quando mi prendevano le crisi, mi stava intorno adorandomi come fossi stata ancora la Mariolina treenne che gli diceva: «Non sposerò nessuno fuorché te e ti regalerò la parrucca»! Mia madre avrebbe voluto che lui mi rimproverasse come lo faceva lei perché disturbavo tutti con le mie crisi nelle ore più impensate. Ma papà non mi rimproverava: mi baciava, si affannava a darmi aiuto, mi chiamava: «Bellezza, coccola sua», come quando ero piccina e non avevo che lui ad amarmi… e piangeva su me…
   Quando ero bimba e mi ammalavo, la mamma era con me un poco più «mamma». Ma ora, da quando sono ammalata, questo miracolo non si è più avverato. Sono solo un peso!…
   Povero babbo! E povera me! Quanta indifferenza! Quanti sgarbi, quante brontolate, quante assenze! Mio papà ci si inquietava vedendola occuparsi e preoccuparsi magari di innaffiare i fiori o piegare il bucato in luogo di venire al mio letto quando la crisi mi metteva fra morte e vita. Alla sera se ne andava al primo piano a dormire, spesso senza neppure darmi un bacio e buona notte!… Avrei potuto morire nella notte… Lei non ci sarebbe stata.
   Nel dicembre, al 18 dicembre, per avere voluto testardamente restare vestita d'estate, mamma prese una bronco-polmonite. Apriti, o cielo! Tre amiche, due suore, il medico, una donna a mezzo-servizio non bastavano per lei… Io rimanevo a giornate intere sola perché lei teneva tutti occupati.
   La sera del 25 papà, che giorni avanti aveva avuto una lieve emorragia vescicale, ebbe un piccolo ictus apoplettico. Stava entrando in stanza mia con un catino d'acqua… lo vidi traballare, farsi cianotico e storto nella bocca. Sfidando la paralisi cardiaca lo afferrai e lo guidai a sedere presso a me. Si riprese poi e quando il medico venne, e venne chi mi faceva assistenza notturna (dormendo), poté salire da solo nella sua stanza. Ma pensi quello che soffrii ad essere lì, impotente, sola — perché dalle 17 alle 22 eravamo sempre soli — e con papà sofferente. Il medico lo curò, gli fece applicare le mignatte…
   Mamma colse l'occasione di inveire contro me, con un biglietto rovente, e contro lui, con un fiume di parole, accusandoci di avere fattobaldoria nella sua malattia. Baldoria! Eravamo vissuti di brodo e di coniglio lesso… Il giorno di Natale sul fornellino mio avevo fatto un poco di cervello al burro. Ecco la baldoria nostra!… Non era, no, la baldoria che uccideva papà! Erano le collere sempre represse, erano le offese che doveva ingoiare… Nel 1910 si era ammalato per queste… ora moriva per queste. Io lo vedevo che delle volte gli venivano le vene giugulari grosse come bastoni dallo sforzo di dominarsi… Mah!
   Fra l'ansia e il mangiare male — il 26 rimasi senza mangiare fino alle 18… — mi aggravai di nuovo.
   Il 28 mamma volle alzarsi, contro l'ordine del medico, per presiedere alla mignattazione. C'erano due suore infermiere ma non si fidava… Scese al terreno, mezza spogliata, per fare una rivista a tutta la casa, trovando da ridire su tutto e tutti. Da me entrò per rimproverarmi, non vedendo neppure che uscivo allora da un attacco angiospastico. Poi tornò a letto ed ebbe una ricaduta. Sfido io! Aveva girato in camicia per tre ore al 28 dicembre!…
   Babbo si rialzò ai primi di gennaio. Perché mangiasse come doveva, e l'altra di sopra non facesse altre stupidaggini, commisi per più giorni l'imprudenza di alzarmi dalle 17 alle 20, ora in cui ero sicura che non mi sorprendeva nessuno. Riordinavo tutto, preparavo il cibo per l'indomani e poi… andavo a letto cadaverica. Il 26 gennaio mamma riprese le redini. Era tempo…
   Il 2 febbraio 1935, dopo un pesante sopore e una terribile crisi di cuore, si presentò la paresi. Fu allora che il medico curante vide accettata dai consulenti la sua teoria che non solo il cuore era leso ma era lesa la colonna vertebrale, meglio il midollo spinale. Se sia un tumore o una formazione di liquido, conseguente alla bastonata avuta nel 1920, non si sa. Ma la lesione c'è.
   Dopo il consulto io scrivevo così (copio dal diario): «Ho l'anima piena di canto. Incomprensibile canto, incomprensibile letizia per chi non sa l'anelito più ardente del mio cuore!… Tu, mio Bene, sai perché sono felice!… Dunque io non ho un male, ma tre mali addosso! Bacio questa mia trinità di dolore in cui vedo rispecchiata la volontà della Trinità eterna e adoro Dio che mi adorna di tre simili doni e con S. Francesco grido: "Signore, non sono degno di così grande tesoro!". Mi stringo al cuore questi tre chiodi, i tuoi tre chiodi, o mio Re, o mio Cristo, o mio Tutto, e poiché l'amore cresce più si vede compreso e compensato, con l'audacia degli amanti ti chiedo: "Perché tre sole ferite? Perché non cinque come le tue?". E aspetto fidente perché sento che Tu mi ornerai di tutti, di tutti i tuoi gioielli di dolore…».
   I tre mali erano: la miocardite, il tumore ovarico, ormai formato, e la lesione spinale. Ma vedevo che il medico nascondeva qualche cosa. E lo stuzzicavo a parlare.
   Il mattino del 3 vidi un segno cabalistico del dottore a mamma. Andarono nell'ingresso e si chiusero dentro. «Benone», dissi, «ora vengo anche io». A piedi scalzi, aggrappandomi ai mobili, andai fino alla vetrata e sorreggendomi alla macchina da cucire vidi attraverso ai vetri e udii il discorso. «Il professore le fa sapere che è una forma di paralisi progressiva. Molto lenta ma pericolosissima e inesorabile nel suo procedere. Per uno spavento, un'emozione o altro, può accelerarsi, colpire il diaframma e i centri bulbari e provocare la morte istantanea. Se non vi sono cause acceleranti può durare degli anni spegnendo lentamente la vita negli organi…».
   Tornai a letto perché… il cuore ballava e le gambe si flettevano. Non per paura, per fatica. Ma ormai ne sapevo abbastanza. Ho sempre voluto sapere la verità. E dirla.
   La paresi iniziatasi nell'addome basso ha conquistato piano piano molti altri organi e ogni tanto dà accenni di paralizzarne altri. Quando ascende è il capo che è preso, quando scende è il torace. È penosissima perché, a seconda del centro bulbare colpito, dà cecità o sordità, o disturbi di parola, di deglutizione, di respiro, di digestione, di filtrazione renale, di scrittura… Un emporio di guai.
   Fu allora che feci solenne patto con Gesù di riscattare un'ani­ma per ogni crisi. Prima l'avevo fatto alla buona. E come ero felice se avevo molte crisi al giorno! Allora come dolori avevo solo quelli cardiaci e spinali e uno stiracchiamento con un calore come dentro avessi del fuoco dove il tumore si formava.
   A Pasqua, per una terribile crisi causata dalla incorreggibile mamma, stetti con le braccia e la gola paralizzate per molti giorni. Soffrii,moralmente, come di più non si può. E non ero amata!… Solo il mio papà mi amava. Mamma mi imboccava con tanta mala grazia che preferivo lasciarmi morire di fame. Ero stesa su una tavola perché le vertebre erano molto infiammate. Avevo una forma curiosa di un sopore delirante… Dovevo subire cure per me odiose…
   E il diavolo ci soffiava dentro… Sentivo che la guerra veniva… Sapevo che papà moriva…
   In quel tempo Gesù, per sovvenire ai bisogni della sua piccola crocifissa, fece vincere un grosso premio ai miei. Mamma neppure lo disse a papà, che si angustiava pensando che io avevo bisogno di molte cure per chissà quanto tempo, e mi fece giurare che a papà non avrei detto nulla. E il mio povero babbo è morto senza averlo saputo. Se fosse stato a posto di mente, come era giusto glielo avrei potuto dire raccomandandogli di non dire nulla. Ma era inutile raccomandare certe cose a babbo! Dopo poche ore non si ricordava le nostre raccomandazioni e la frittata era fatta… Per evitare a lui e a me mille sgarbi, tacqui. Ce ne erano già tanti! E tante geremiadi con essi!…
   Subito dopo Pasqua volli divenire zelatrice di sofferenza nell'Apostolato della Preghiera. Il Parroco aderì al mio desiderio e disse che tutto era fatto. La sofferenza certo è fatta. Ma io, in otto anni, non ho ricevuto una pagellina, un segno qualsiasi di appartenere a questa categoria e a questa Associazione12.
   Intanto il dolore addominale cresceva, e perciò altre visite le quali sempre più confermarono l'esistenza del tumore. Ma non conclusero nulla perché al momento di fare qualcosa tutti i professori si ritiravano per lo stato del cuore.
   In quel tempo cominciai a capire il perché di certe deviazioni di tante povere mie compagne di sesso. Fino a quel momento mi avevano fatto la stessa pietà che suscita la vista di un delinquente. Pietà per la loro miseria. Le giudicavo proprio come delle delinquenti perché uccidevano sé stesse nel vizio.
   Anni prima un medico mi aveva detto, parlando di certe disgraziate che io definivo amorali: «Sono delle malate. E come tali vanno compatite e aiutate a guarire. Nessuna donna, fisicamente sana, scende a certe profanazioni. Sono delle malate». Non m'aveva detto altro e io, oca come ero, non avevo capito bene a che alludesse. Ero così immune da certe cose!
   Anche nel momento tremendo dei miei giovani anni avevo desiderato di compiere il male per una rivolta della carne mutilata del suo diritto di amare. Ma cosa fosse di preciso il male che desideravo compiere, cosa fosse di sicuro questo bisogno animale che si agitava in me, non lo sapevo. C'è voluto questo tumore a farmi capire certe cose. E a farmi pregare per le sventurate che vivono nel vizio.
   Mi ero fatto un calendario di sofferenza. Tutti i giorni offrivo le mie pene per una data classe di persone e per riparare a cose speciali. Al lunedì riparavo per le violazioni alla legge di Dio e della Chiesa, per la giustizia e per ottenere una morte santa agli agonizzanti. Al martedì per gli abusi e i disprezzi della parola di Dio, per la resistenza alla grazia e per le anime purganti. E così via. Al sabato, in cui offrivo e soffrivo per le confessioni sacrileghe e i peccati del senso, unii l'intenzione di espiare per redimere le donne perdute.
   Ora capivo come sia facile divenire donne perdute. Quante pagine evangeliche mi ha illuminate il mio tumore sulla misericordia, non solo degna di un Dio ma di uno scienziato sublime, del Cristo per le donne peccatrici che il Vangelo nomina! Ho riconosciuto fra le lacrime di riconoscenza e di umiltà che solo la bontà di Dio mi aveva salvata dal divenire come tante altre, creature in cui il peccato d'origine ha morso più profondamente, colpite inoltre da mali orrendi che fanno impazzire e non sorrette da una vera conoscenza della religione nostra… Ho riconosciuto che io, lasciata a me stessa, non sarei stata più forte di loro a respingere il senso che la malattia acuisce fino a farci rasentare la pazzia.
   Forse in me lavorava anche molto la suggestione demoniaca. Oh! mi ha tormentata in tutti i modi! Solo io lo so quanto mi ha tormentata! E per degli anni!
   Era una cosa strana. L'anima rimaneva sempre quella: unita a Dio, nella pace, nella sete del sacrificio. La preghiera era la mia gioia, desideravo i sacramenti più che dell'aria stessa. La carne era impazzita. Mi fa l'effetto che per un volere che non so a chi attribuire, se all'Altissimo o al Bassissimo, io fossi sdoppiata. Sullo spirito regnava Dio, nella materia mordeva Lucifero, aizzava, sconvolgeva… e qualche volta piegava nel fango. Poi la carne e lo spirito si riunivano e allora era l'angoscia di esser stata debole…
   Ho sofferto l'inferno. Mi sono inquietata contro me stessa che ero debole, contro i dottori che non mi levavano quel malanno che mi turbava lo spirito. Mi avesse dato solo dolore fisico, non mi avrebbe pesato. Mi sono inquietata contro i sacerdoti che erano così placidi davanti al mio tormento che non nascondevo loro. Non mi sono inquietata col buon Dio perché capivo che Lui non ci aveva alcuna colpa in quanto avveniva.
   Era l'ora terribile della tentazione. Una vittima della Giustizia divina deve passare anche questa per salvare le anime di tanti peccatori… Dopo aver subito le strette del demonio mi attaccavo al mio Dio, baciavo il mio Gesù e mi raccomandavo a Lui.
  

 "La vita eterna consiste nel conoscere Te,
 solo vero Dio, e quello che Tu hai mandato,
 Gesù Cristo"
 S. Giovanni, 17, 3  


   Ho sofferto, lo torno a dire, in una maniera inumana. Delle volte mi chiedo ancora come poteva avvenire questo in un'anima tutta donata a Dio. Penso che, con questo, Dio ha voluto tenermi bassa, perché non m'esaltassi e mi credessi perfetta. Oh! non c'è più pericolo che mi creda tale! Basta che io pensi a quegli anni di tormento per riconoscere, con San Paolo13], che se il mio io interiore si dilettava nella legge di Dio, un'altra legge pesava nelle mie membra in opposizione alla legge della mente e mi faceva schiava del peccato. L'angelo di Satana mi schiaffeggiò a dovere, non dubiti…
   Quanto, quanto ho sofferto! Vede: ora, fisicamente, io sono veramente una torturata. Ma tutto questo spasimo, per cui anche un respiro è uno strazio, non è nulla rispetto a quel soffrire che sono convinta essere stata la vendetta demoniaca. E non se ne parli più, per carità!
   Pregai dunque da allora per le donne perdute! Il che, naturalmente, acuì sempre di più la rabbia infernale.
  

   Nell'aprile 1935 ebbi un sogno che potrei quasi dire un'apparizione.
   Mentre ero assopita vidi la mamma di Marta14. Noti che erano le prime ore del pomeriggio, dunque difficilmente avrò dormito al punto di sognare. Era vestita come al solito, col suo velo in testa. Pareva pronta per uscire. Un volto che a dirlo bianco non si dice nulla. Era un volto che tramandava luce. Pareva che nell'interno di esso vi fosse una lampada che trasparisse. Non un fulgore, no: una luce calma che dava pace. Mi pareva ritta ai piedi del mio letto.
   «Oh! signora Isolina!», esclamai. «È venuta a trovarmi?».
   «Eh! sì. Ti ho sempre ricordata, sai?».
   «È felice?». Sapevo di parlare con lei già morta e vedendo il suo viso luminoso capivo che ella era in Paradiso.
   «Sono felice perché dove sono io si è felici. Ma però non è finito il mio purgatorio; neanche in grembo a Dio finisce…».
   «E perché? Come può essere questo?».
   «Dio mi ha dato il premio della mia vita che tu sai come fu sacrificata e retta… Ma io, anche nella gioia del Cielo, ho una spina nel cuore. La mia Marta… sola nel mondo… e in un ambiente,  io vedo, non cattivo, secondo il mondo, ma non meritevole rispetto a Dio. Quello che io ho seminato di fede sta morendo. Per ora quello solo. Ma caduta la fede… Il mio purgatorio è questo, è sempre stato questo, e dura ancora, anche in cielo. Vorrei che Marta fosse con te. Allora non ci sarebbe più purgatorio per me perché sarei sicura per la mia creatura e per la sua anima… Ti ho voluto bene, Maria, vogliamene tu. Ti affido Marta».
   Man mano che parlava diveniva sempre più luminosa e si dissolse, in fondo, in luce…
   Ecco perché Marta è qui15 invece di essere negli uffici come prima. Mamma, che aveva bisogno di aiuto, aderì al mio desiderio. Solo che io ho avuto un movente soprannaturale nell'accogliere Marta e mia madre un movente tutto umano e egoistico al sommo.
   Io ho compiuto la missione che la mamma di Marta mi ha dato per la sua creatura. Non ho nessun rimprovero da farmi. L'ho accolta, questa povera orfanella, con cuore di mamma e di sorella, dalle mani di sua madre, e le ho dato e le do un affetto sincero che non si limita solo a sdolcinature sciocche, ma che è aiuto per lei, è previdenza, è consolazione in mille piccole cose. Non potrei fare di più per lei se fosse del mio sangue. E soprattutto ho curato e amato l'anima sua.
   Quando venne da me aveva una pietà molto affievolita. Senza prediche, che quando vengono fatte a un cuore irritato ottengono solo un maggiore irritamento, ma solo amandola molto e lasciandola penetrare a poco a poco, di suo, nel mio io tutto donato a Dio, solo pregando e facendomi vedere a pregare — da lei, sì, mi sono fatta vedere per ricondurle alla mente l'immagine di sua madre che pregava tanto, per dirle senza parole che i buoni pregano sempre e nella preghiera trovano conforto in tutti i loro dolori e in tutte le loro solitudini — ho ottenuto di riportarla, a sua stessa insaputa, a una viva fede, e spero che non la perderà mai più, anche quando io non sarò più di questa terra. Sua mamma sarà felice del tutto, ora, nel bel Paradiso, dove certo mi attende per vegliare con lei sulla nostra Marta.
   Mi spiace solo di avere messo Marta nell'ingranaggio stritolante di mia mamma. Ma speravo proprio che fosse esosa ma non cattiva al punto come è cattiva, ingrata, astiosa, per questa povera Marta. Le assicuro che, se Marta aveva da scontare qualche mancanza verso il quarto comandamento, l'ha già bell'e scontata!…
   Ma forse anche questo non è senza uno scopo superiore che sapremo un giorno. Per intanto serve a testimoniare che cosa è la mia vita nelle mani di mia madre… Ne può dire tante di cose Marta, e da queste risulta netto il modo d'agire mio e materno, e non sono io quella che ne esco menomata. Lo devo dire per essere fedele alla verità senza false modestie spregevoli…
  

   Questa notte, 10-11 aprile, pensavo a quanto ho scritto nel quaderno ultimo finito. E mi accorgo d'essermi espressa malamente in un certo punto. Ho detto che mi inquietavo con me stessa, coi medici, per i fenomeni che mi procurava il male ovarico.
   Inquietarsi vuol dire perdere la calma, la fiducia, la pace, vuol dire ribellarsi. No. Niente di tutto questo. Io rimproveravo. Ecco quel che facevo. Rimproveravo e punivo acerbamente me stessa per non esser capace di respingere certe sensazioni, e rimproveravo con molto sale i medici che rimanevano inerti davanti a tutte le mie suppliche perché mi venisse levata quella neoformazione che mi dava fenomeni così complessi che turbavano tutta me stessa.
   E così è durato per degli anni. Poi finalmente ho capito che anche questo era una prova e aveva uno scopo… e non mi sono più agitata. E il più bello si è che le tentazioni sono andate rallentando subito. Si capisce che il diavolo, scornato di esser stato scoperto, se ne è andato all'inferno. Non è possibile spedirlo altrove, le pare? Ora, da quando ho narrato a Lei per esteso il mio stato, con quella lettera del febbraio, non ha più osato metter fuori neanche la punta del cornetto o del codino. Forse se lo sta rodendo di rabbia… Buon pro!
  

   E ora dovrò parlare di una cosa dolorosissima. Ma è la domenica di Passione… Posso quindi parlare di una delle mie più acerbe ore di passione. Gesù appassionato e Maria Addolorata mi aiuteranno e asciugheranno certo le lacrime che già ho nella strozza e pronte a cadere.
   Le confesso che non vorrei ad avere a parlare di questo perché è troppo, troppo straziante. Ma se non ne parlo la mia corona di spine viene a mancare di molti aculei e precisamente degli aculei più strazianti, perché è stato uno strazio della carne, della mente, del cuore. Strazio che, secondo il solito, non fu capito, non fu compatito, non fu creduto. Strazio ancora vivissimo dopo otto anni, per quanto ora non raggiunga il parossismo che ebbe nelle prime ore, durate mesi, e sia ora solo una nostalgia che mi gonfia il cuore e ne spreme pianto, una nostalgia accorata ma così viva che quando la sento più forte mi riduco come un povero uccellino caduto di nido e languente al suolo.
 


   Comunione dei santi, nella dottrina cattolica, è l'intima unione in Cristo tra i fedeli, sia vivi che defunti, e la comunicazione tra essi dei beni spirituali.

   2 il cantico di Mosè e dell'Agnello: Apocalisse 15, 3-4 (con riferimento a: Esodo 15, 1-18).

   3 il mio dottore è Lamberto Lapi, per nove anni medico curante di Maria Valtorta, che di lui scriverà un accorato ricordo dopo la sua morte in guerra, avvenuta in Corsica il 26 ottobre 1943.

   4 La traduzione è dal francese (nota 21).

   5 Iddio che rigetta i tiepidi, come è detto in: Apocalisse 3, 15-16; dove è carità là è Dio, come è detto in: 1 Giovanni 4, 16.

   6 Perché… è citazione da: 2 Corinzi 12, 7-9.

   7 lo dice, in: Giovanni 15, 13.

   8 la parte di Pietro, riferita in: Matteo 16, 21-23; Marco 8, 31-33.

   9 gazofilacio era, nel Tempio di Gerusalemme, il luogo in cui si versavano le offerte.

   10 mi dirà, come in: Matteo 25, 31-46.

   11 il cane… il corvo… in episodi della vita, rispettivamente, di san Rocco di Montpellier (sec. XIV) e di san Benedetto da Norcia (sec. VI).

   12 questa Associazione, detta appunto "Apostolato della Preghiera", fu fondata nel secolo XIX dal gesuita francese Xavier Gautrelet, allo scopo di far partecipare i fedeli all'instaurazione del regno del Sacro Cuore mediante l'offerta quotidiana di azioni e preghiere per la salvezza delle anime. Ai tempi di Maria Valtorta contava già 35 milioni circa di associati nel mondo. Ciascun associato dovrebbe ricevere ogni mese una pagellina con le intenzioni di preghiere proposte dal Papa.

   13 con San Paolo, in: Romani 7, 14-25; 2 Corinzi 12, 7-10.

   14 la mamma di Marta, già menzionata, è Isolina Alberigi vedova Diciotti, nata a Lucca il 25 giugno 1871, morta a Viareggio il 21 novembre 1932.

   15 Marta è qui, e vi resterà. Marta Diciotti, nata a Lucca il 2 dicembre 1910, rimase orfana di suo padre Angelo all'età di 4 anni e aveva 22 anni quando perse sua madre Isolina Alberigi. Entrata in casa Valtorta, a Viareggio, il 24 maggio 1935, divenne l'assistente dell'inferma Maria, la sua confidente, la testimone della sua missione di scrittrice mistica. Condivise con lei le prove della vita quotidiana e i disagi del tempo, segnato dal passaggio della seconda guerra mondiale. La accudì soprattutto negli ultimi penosi anni, fin quando Maria si spense il 12 ottobre 1961. Restò ad abitare in quella casa, divenuta mèta di visitatori a seguito della pubblicazione e diffusione degli scritti valtortiani. Nel 1975 permetteva al prof. Albo Centoni di iniziare a raccogliere le sue testimonianze orali, che hanno dato corpo al volume "Una vita con Maria Valtorta", pubblicato nel 1987. Più volte provata nel fisico, ha sempre recuperato la sua dinamicità, conservando la prontezza mentale e una sorprendente memoria. Il 19 ottobre 1996, all'età di 86 anni, ha dovuto lasciare la casa per una caduta che le ha procurato la frattura di un femore.

Madre di MV

 

Padre MV in uniforme 

 

Marta