MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MINORE

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LEZIONI SULL'EPISTOLA DI PAOLO AI ROMANI LEZIONE XXIII


RM-7 14-25

21-28 maggio 1948


    Dice il Dolce Ospite:
    «Per ben comprendere le parole di Paolo, bisogna ben considerare il Peccato d’origine.
    Lezione data molte volte, ma che non è mai data troppe volte, perché la dolorosa realtà di quel peccato e le dolorose conseguenze reali di esso sono sovente negate o messe in dubbio da molti, da troppi. E tra questi non mancano quelli che più di tutti dovrebbero esser convinti della realtà del peccato originale e delle sue conseguenze per gli studi compiuti, e soprattutto per le loro esperienze di ministero che mette di continuo sotto i loro occhi saggi della decadenza dell’uomo che, da creatura perfetta, per il peccato di origine si è mutata in creatura debole ed imperfetta contro gli assalti di Satana e di ciò che è intorno ed entro all’uomo, meravigliosa creazione invidamente turbata dal Nemico di Dio.
    Alcuno dirà: “Lezione che si ripete, perciò lezione inutile”. Sempre utile, perché, al bisogno, non la sapete mai abbastanza, né per voi stessi, né per gli altri.
    Troppo preme a Satana che voi non la sappiate! E perciò esso crea in voi nebbie ad offuscarvi la giusta conoscenza di questo episodio che non ha avuto termine e limite nel giorno che lo vide e negli esseri che lo compirono, ma che, come per seme e per sangue tutti gli uomini hanno ereditato la vita (esistenza) da Adamo e da Eva - e nell’ultimo uomo nato sulla Terra sarà ancora la discendenza dei due Primi Uomini - così, per funesta eredità, si propaga dal primo generante, Adamo, di progenie in progenie a tutti i figli dell’uomo sino all’ultimo generato.
    Per ben comprendere la confessione di Paolo, che è la desolata voce di tutti gli uomini che, volonterosi di operare perfettamente il bene, si sentono impotenti ad eseguirlo con la perfezione desiderata, bisogna contemplare il frutto della Colpa prima, e perciò anche la Colpa prima, per non trovare ingiusta la condanna e la conseguenza.
    Paolo confessa: “Io sono carnale, venduto e soggetto al peccato”. E prosegue: “Non so quel che faccio; non faccio il bene che voglio, ma il male che odio. Anche se faccio quello che non voglio, riconosco ugualmente che la legge è buona (nel proibire o comandare ciò che proibisce e comanda), però (quando faccio il male che odio con la mia parte migliore mentre non faccio il bene che vorrei fare) non sono, in questi momenti, io che opero, ma il peccato che abita in me... Nella mia carne non abita il bene... È in me la volontà di farlo, ma non trovo la via di compierlo... Quando voglio fare il bene, il male mi è già a lato... Mi diletto della Legge di Dio secondo l’uomo interiore, ma vedo nelle mie membra un’altra legge che si oppone alla legge della mia mente e mi fa schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra...”.
    “Io sono carnale”.
    Anche Adamo era formato di carne oltre che di spirito. Ma non era carnale, in quanto sopra la materia signoreggiavano lo spirito e la ragione. E lo spirito innocente e pieno di Grazia aveva somiglianza mirabile col suo Creatore, in quanto era intelligente tanto da comprendere quanto supera tutte le cose naturali. L’elevazione dell’uomo all’ordine soprannaturale, ossia alla figliolanza da Dio per mezzo della Grazia, aveva elevato l’intelligenza dell’uomo, già vastissima per il dono preternaturale di scienza infusa e capace perciò di capire tutte le cose naturali, alla intelligenza soprannaturale del poter comprendere ciò che è incomprensibile a chi non vi è predisposto da un dono soprannaturale: del poter comprendere Dio e, in misura minore, di poter essere una sua immagine fedele per l’ordine e la giustizia, per la carità, la sapienza, la libertà da ogni restrizione avvilente.
    Splendida libertà dell’uomo pieno di grazia! Libertà rispettata da Dio stesso, libertà non insidiata da forze esteriori o da stimoli interiori. Regalità sublime dell’uomo deificato, figlio di Dio ed erede del Cielo, regalità dominante su tutte le creature e su quel che ora vi è sovente tiranno: l’io in cui fermentano senza posa i veleni della gran ferita.
    Quando si dice: “l’uomo, re del creato sensibile, è stato creato con potere di dominio su tutte le creature”, occorre riflettere che egli, per la Grazia, e per gli altri doni ricevuti sin dal primo momento del suo essere, era formato ad essere re anche di se stesso e della sua parte inferiore, per la conoscenza del suo fine ultimo, per l’amore che lo faceva tendere soprannaturalmente ad esso, e per il dominio sulla materia e i sensi esistenti in essa. Unito all’Ordine e amante dell’Amore, era formato a saper dare a Dio ciò che gli è dovuto, e all’io ciò che è lecito dargli, senza disordini nelle passioni o sfrenatezza degli istinti. Spirito, intelletto e materia, costituivano un tutto armonico in lui, e a quest’armonia pervenne sin dal primo momento del suo essere, non per fasi successive, come vogliono alcuni.
    Non ci fu autogenesi, e non ci fu evoluzione; ma ci fu la Creazione voluta dal Creatore. La ragione, di cui siete tanto orgogliosi, dovrebbe farvi persuasi che dal nulla non si forma la cosa iniziale, e dalla cosa unica ed iniziale non può venire il tutto.
    Solo Dio può ordinare il caos e popolarlo delle innumeri creature che formano il Creato. E questo potentissimo Creatore non ha avuto limitazioni nel suo creare, che fu molteplice, né nel creare creature già perfette, ognuna perfetta secondo il fine per il quale è stata creata. È stolto pensare che Dio abbia creato, volendo darsi un Creato, cose informi, attendendo di essere da esse glorificato quando le singole creature, e tutte le creature, avessero raggiunto, con successive evoluzioni, la perfezione della loro natura perché fossero atte al fine, naturale o soprannaturale, per il quale sono state create.
    E se questa verità è sicura per le creature inferiori, con un fine naturale e limitato nel tempo, ancor più è certa per l’uomo, creato per un fine soprannaturale e con destino immortale di gloria celeste. Può pensarsi un Paradiso le cui legioni di Santi, alleluianti intorno al trono di Dio, siano il prodotto ultimo di una lunga evoluzione di belve?
    L’uomo attuale non è il risultato di un’evoluzione ascendentale, ma il doloroso risultato di una evoluzione discendentale, in quanto la colpa di Adamo ha per sempre leso la perfezione fisico-morale-spirituale dell’uomo originale. Tanto l’ha lesa che neppure la Passione di Gesù Cristo, pur restituendo la vita della Grazia a tutti i battezzati, può annullare i residui della colpa, le cicatrici della gran ferita, ossia quei fomiti che sono la rovina di coloro che non amano o poco amano Dio, e il tormento dei giusti, che vorrebbero non avere neppure il pensiero più fugace attirato dalle voci dei fomiti e che lottano per tutta la vita l’eroica battaglia pur di rimanere fedeli al Signore.
    L’uomo non è il risultato di un’evoluzione, così come il Creato non è il prodotto di un’autogenesi. Per avere un’evoluzione occorre avere sempre una prima sorgente creativa. E pensare di avere avuto dalla autogenesi di una sola cellula le infinite specie, è un assurdo impossibile.
    Per vivere, la cellula ha bisogno di un terreno vitale in cui siano gli elementi che permettono e mantengono la vita. Se la cellula si autoformò dal nulla, dove trovò gli elementi per formarsi, vivere e riprodursi? Se essa non era ancora quando iniziò ad essere, come trovò gli elementi vitali: aria, luce, calore, acqua? Ciò che non è ancora, non può creare. E come allora essa, la cellula, trovò al suo formarsi i quattro elementi? E chi le dette, quale sorgente, il germe “vita”? E quando, per ipotesi, questo inesistente avesse potuto formarsi dal nulla, come, dalla sua unica unità e specie, avrebbero potuto venire tante specie diverse quante sono quelle che si trovano nel Creato sensibile?
    Astri e pianeti, zolle, rocce, minerali, le svariate numerosissime qualità del regno vegetale, le ancor più diverse e numerose specie e famiglie del regno animale, dai vertebrati agli invertebrati, dai mammiferi agli ovipari, dai quadrupedi ai quadrumani, dagli anfibi e rettili ai pesci, dai carnivori feroci ai miti ovini, da quelli armati e vestiti di dure armi di offesa e difesa agli insetti che un nulla basta a distruggere, dai giganteschi abitatori delle vergini foreste, all’assalto dei quali non resistono che colossi pari loro, a tutta la classe degli artropodi sino ai protozoi e bacilli; tutti venuti da un’unica cellula? Tutto da una spontanea generazione?
    Se così fosse, la cellula sarebbe più grande dell’Infinito. Perché l’Infinito, il Senza Misura in ogni suo attributo, operò per sei giorni, sei epoche, a fare il Creato sensibile, suddividendo il lavoro creativo in sei ordini di creazioni ascendenti, evolventi, questo sì, verso una perfezione sempre maggiore? Non già perché Egli imparasse sempre più a creare, ma per l’ordine che regola tutte le sue divine operazioni. Il quale ordine sarebbe stato violato - e si sarebbe così reso impossibile il sopravvivere dell’ultima creatura creata: l’uomo - se questi fosse stato fatto per primo, e prima che fosse stata creata la Terra in tutte le sue parti, e resa abitabile per l’ordine messo nelle sue acque e nei suoi continenti, e resa confortevole per la creazione del firmamento; fatta luminosa, bella, feconda, dal benefico sole, dalla lucente luna, dalle stelle innumerevoli; fatta dimora, dispensa, giardino all’uomo per tutte le creature vegetali e animali di cui è coperta e popolata.
    Il sesto giorno fu fatto l’uomo, nel quale sono in sintesi rappresentati i tre regni del Creato sensibile e, in meravigliosa verità, la sua creazione da Dio per l’anima spirituale infusa da Dio nella materia dell’uomo.
    L’uomo: vero anello di congiunzione fra Terra e Cielo, vero punto di unione fra il mondo spirituale e quello materiale, l’essere in cui la materia è tabernacolo allo spirito, l’essere in cui lo spirito anima la materia, non già solo per la vita limitata mortale, ma per la vita immortale dopo la finale risurrezione.
    L’uomo: la creatura in cui splende e dimora lo Spirito Creatore.
    L’uomo: la meraviglia della potenza di Dio che infonde il suo soffio, parte di Se stesso Infinito, nella polvere, elevandola alla potenza di uomo, e dona ad esso la Grazia che eleva la potenza dell’uomo animale alla potenza della vita e condizione di creatura soprannaturale, di figlio di Dio per partecipazione di natura, facendola capace di mettersi in diretta relazione con Dio, disponendola a comprendere l’Incomprensibile, rendendole possibile e lecito l’amare Colui che sovrasta talmente ogni altro essere che, senza un suo divino dono, non potrebbe l’uomo, per capacità e per venerabondo rispetto, anche soltanto desiderare di amare.
    L’uomo: il creato triangolo che poggia la base - la materia - sulla Terra da cui fu tratto; che tende con le sue facoltà intellettuali ad ascendere alla conoscenza di Colui a cui somiglia; e tocca col suo vertice - lo spirito dello spirito, la parte eletta dell’anima - il Cielo, perdendosi nella contemplazione di Dio-Carità, mentre la Grazia, ricevuta gratuitamente, lo unisce a Dio, e la carità, accesa dall’unione con Dio, lo deifica. Poiché: “colui che ama è nato da Dio”, ed è privilegio dei figli partecipare della somiglianza di natura. Per l’anima deificata dalla Grazia, dunque, l’uomo è immagine di Dio, e per la carità, possibile per la Grazia, è somigliante a Dio.
    Il sesto giorno fu dunque creato l’uomo, completo, perfetto in ogni sua parte materiale e spirituale, fatto secondo il Pensiero di Dio, secondo l’ordine (il fine) per cui era stato creato: amare e servire il suo Signore durante la vita umana, conoscerlo nella sua Verità, e quindi godere di Lui, per sempre, nell’altra.
    Fu creato l’unico Uomo, quello dal quale doveva venire tutta l’Umanità, e per prima la Donna compagna dell’Uomo e all’Uomo, col quale avrebbe popolato la Terra regnando su tutte le altre creature inferiori. Fu creato l’unico Uomo, quello che, come padre, avrebbe trasmesso ai suoi discendenti tutto quanto aveva ricevuto: vita, sensi, facoltà materiali, nonché immunità da ogni sofferenza, ragione, intelletto, scienza, integrità, immortalità e infine, dono dei doni, la Grazia.
    La tesi dell’origine dell’uomo secondo la teoria evoluzionista, che si appoggia sulla conformazione dello scheletro e sulla diversità dei colori della pelle e dell’aspetto per sostenere il suo errato asserto, non è tesi contro la verità dell’origine dell’uomo - creatura creata da Dio - ma a favore. Perché ciò che rivela l’esistenza di un Creatore è proprio la diversità dei colori, delle strutture, delle specie delle creature da Lui, il Potentissimo, volute.
    E se questo vale per le creature inferiori, più ancora vale per la creatura-uomo; il quale è uomo creato da Dio anche se, per circostanze di clima e di vita, e anche per corruzione - per cui venne il diluvio e poi, molto dopo, nelle prescrizioni del Sinai e nelle maledizioni mosaiche, così severo comando e castigo (Levitico c. XVIII v. 23 e Deuteronomio c. XXVII v. 21) - mostra diverso aspetto e colore da razza a razza.
    È cosa provata, ratificata e confermata da continue prove, che una forte impressione può agire sulla madre concepiente in modo da farle dare alla luce un piccolo mostro che ripete nelle sue forme l’oggetto che turbò la madre. Anche è cosa provata che la lunga convivenza tra genti di razza diversa dall’ariana, produce, per mimetismo naturale, una trasformazione più o meno accentuata dei tratti di un volto ariano in quelli di popoli che non sono ariani. È pure provato che speciali condizioni di ambiente e di clima influiscono sullo sviluppo delle membra e sul colore della pelle.
    Perciò le nuvole su cui gli evoluzionisti vorrebbero posare l’edificio della loro presunzione non sostengono lo stesso, ma anzi favoriscono il crollo dello stesso.
    Nel diluvio perirono i rami corrotti dell’umanità brancolante nelle tenebre conseguenti alla caduta, nelle quali, e solo per i pochi giusti, come attraverso a nebbie pesanti, giungeva ancora un solo raggio della perduta stella: il ricordo di Dio e della sua promessa.
    Perciò, distrutti i mostri, l’Umanità fu conservata e moltiplicata nuovamente dalla stirpe di Noè, giudicata giusta da Dio. Venne perciò resa alla natura prima del primo uomo; fatta sempre di materia e di spirito, e rimasta tale anche dopo che la colpa aveva spogliato lo spirito della Grazia divina e della sua innocenza.
    Quando e come avrebbe l’uomo dovuto ricevere l’anima, se egli fosse il prodotto ultimo di un’evoluzione dai bruti? È da supporsi che i bruti abbiano ricevuto insieme alla vita animale l’anima spirituale? L’anima immortale? L’anima intelligente? L’anima libera? È bestemmia solo il pensarlo. Come allora potevano trasmettere ciò che non avevano? E poteva Dio offendere Se stesso infondendo l’anima spirituale, il suo divino soffio, in un animale, evoluto sin che si vuole pensarlo, ma sempre venuto da una lunga procreazione di bruti? Anche questo pensiero è offensivo al Signore.
    Dio, volendosi creare un popolo di figli per espandere l’amore di cui sovrabbonda e ricevere l’amore di cui è sitibondo, ha creato l’uomo direttamente, con un suo volere perfetto, in un’unica operazione avvenuta nel sesto giorno creativo, nella quale fece della polvere una carne viva e perfetta, che poi ha animata, per la sua speciale condizione di uomo, figlio adottivo di Dio ed erede del Cielo, non già solo dell’anima “che anche gli animali hanno nelle nari” e che cessa con la morte dell’animale, ma dell’anima spirituale, che è immortale, che sopravvive oltre la morte del corpo e che rianimerà il corpo, oltre la morte, al suono delle trombe del Giudizio finale e del Trionfo del Verbo Incarnato, Gesù Cristo, perché le due nature, che insieme vissero sulla Terra, vivano insieme, gioendo o soffrendo, a seconda di come insieme meritarono, per l’eternità.
    Questa è la verità. Sia che l’accogliate o che la respingiate. Ma, nonostante che in molti vogliate respingerla ostinatamente, un attimo verrà che la conoscerete perfettamente, e vi si scolpirà nello spirito, facendovi convinti di aver perso il Bene in eterno per voler seguire superbia e menzogna.
    Vero è che chi non ammette la creazione dell’uomo per opera di Dio - e creazione così come ho detto, ossia in modo tale da renderlo subito e sempre capace, se vuole, di guidarsi in tutte le sue azioni perché tutte siano volte al raggiungimento del fine per cui l’uomo fu creato; fine immediato: amare e servire Dio durante la vita terrena; fine ultimo: goderlo nel Cielo - non può capire con esattezza da che esattamente è costituita la Colpa, il perché della condanna, le conseguenze di esse due.
    Ma seguitemi. La mia parola è luminosa e semplice, perché sono Dio. E Dio, Sapienza Infinita, sa adeguarsi all’ignoranza e relatività dei suoi piccoli, perché Io amo i piccoli, purché siano umili, e dico loro: “Chi è piccolo venga a Me, ed Io gli insegnerò la Sapienza”.
    La prova.
    Quando l’uomo si destò dal suo primo sonno e trovò al suo fianco la compagna, sentì che la sua felicità era stata resa, da Dio, completa.
    Era già tanto grande anche prima. Tutto in Adamo ed intorno ad Adamo era stato fatto perché egli godesse una felicità completa, sana e santa, e la delizia, ossia l’Eden, non era soltanto intorno ma anche dentro all’Adamo. Lo circondava il giardino pieno di bellezze vegetali, animali ed equoree, ma entro di lui un giardino di bellezze spirituali fioriva con virtù d’ogni genere, pronte a maturarsi in frutti di santità perfetta; e vi era l’albero della scienza, adatto al suo stato, e quello della vita soprannaturale: la Grazia; né vi mancavano le acque preziose della divina fonte che si divideva in quattro rami e irrorava di sempre nuova onda le virtù dell’uomo, onde crescessero giganti, a farlo sempre più specchio fedele di Dio.
    Come creatura naturale, godeva di ciò che vedeva: la bellezza di un mondo vergine, testé uscito dal volere di Dio; godeva di ciò che poteva: la sua signoria sulle creature inferiori. Tutto era stato messo da Dio al servizio dell’uomo: dal sole all’insetto, perché tutto gli fosse delizia.
    Come creatura soprannaturale godeva - un’estasi ragionante e soavissima - della comprensione della Essenza di Dio: l’Amore; dei rapporti d’amore fra l’Immenso che si donava e la creatura che lo amava adorando. La Genesi adombra questa facoltà dell’uomo e questo comunicarsi a lui di Dio, nella frase: “avendo udito la voce di Dio che passeggiava nell’Eden nel fresco della sera”.
    Per quanto il Padre avesse dato ai figli adottivi una scienza proporzionata al loro stato, pure ancora li ammaestrava. Perché infinito è l’amore di Dio e, dopo aver dato, anela a nuovamente dare, e tanto più dà quanto più la creatura gli è figlia. Dio si dà sempre a chi a Lui si dà generosamente.
    Quando, dunque, l’uomo si svegliò e vide la donna sua simile, sentì che la sua felicità di creatura era completa avendo il tutto umano e avendo il Tutto soprumano, essendosi l’Amore dato all’amor dell’uomo.
    Unica limitazione messa da Dio all’immenso possedere dell’uomo era il divieto di cogliere i frutti dell’Albero della Scienza del bene e del male. Raccolto inutile, ingiustificato, sarebbe stato questo, avendo l’uomo già quella scienza che gli era necessaria, e una misura superiore a quella stabilita da Dio non poteva che causare danno.
    Considerate: Dio non proibisce di cogliere i frutti dell’albero della Vita, perché di essi l’uomo aveva natural bisogno per vivere una esistenza sana e longeva, sino a che un più vivo desiderio divino di svelarsi totalmente al figlio d’adozione non facesse pronunciare a Dio il: “Figlio, ascendi alla mia dimora e inabissati nel tuo Dio”, la chiamata, senza sofferenza di morte, al celeste Paradiso.
    L’Albero della Vita, che si incontra al principio del Libro della Grande Rivelazione (Genesi c. II v. 9 e c. III v. 22), e che si ritrova nuovamente alla fine del Libro della Grande Rivelazione: la Bibbia (Apocalisse di Giovanni c. XXII v. 2 e v. 14), è figura del Verbo Incarnato - il cui frutto, la Redenzione, pendé dal legno della croce - di quel Gesù Cristo che è Pane di Vita, Fonte d’Acqua Viva, Grazia, e che vi ha reso la Vita con la sua Morte, e sempre potete mangiare e bere di Lui, per vivere la vita dei giusti e giungere alla Vita eterna.
    Dio non proibisce ad Adamo di cogliere i frutti dell’Albero della Vita, ma vieta di cogliere quelli, inutili, dell’Albero della Scienza. Perché un eccesso di sapere avrebbe svegliato la superbia nell’uomo, che si sarebbe creduto uguale a Dio per la nuova scienza acquisita e stoltamente creduto capace di poterla possedere senza pericolo, con il conseguente sorgere di un abusivo diritto di auto-giudizio delle azioni proprie, e dell’agire, di conseguenza, calpestando ogni dovere di filiale ubbidienza verso il suo Creatore - dato che ormai gli era simile in scienza - del suo Creatore che gli aveva amorosamente indicato il lecito e l’illecito, direttamente o per grazia e scienza infuse.
    La misura data da Dio è sempre giusta. Chi vuole più di quanto Dio gli ha dato, è concupiscente, imprudente, irriverente. Offende l’amore. Chi prende abusivamente è un ladro e un violento. Offende l’amore. Chi vuol agire indipendentemente da ogni ossequio alla Legge soprannaturale e naturale è un ribelle. Offende l’amore.
    Davanti al comando divino i Progenitori dovevano ubbidire, senza porsi dei “perché” che sono sempre il naufragio dell’amore, della fede, della speranza. Quando Dio ordina, o agisce, si deve ubbidire e fare la sua volontà, senza chiedere perché ordina o agisce in quel dato modo. Ogni sua azione è buona, anche se non sembra tale alla creatura limitata nel suo sapere.
    Perché non dovevano andare a quell’albero, cogliere quei frutti, mangiare di quei frutti? Inutile saperlo. Ubbidire è utile, e non altro. E accontentarsi del molto avuto. L’ubbidienza è amore e rispetto, ed è misura di amore e rispetto. Tanto più si ama e si venera una persona e tanto più la si ubbidisce.
    Ora qui, essendo Colui che ordinava: Dio - l’infinitamente Grande, il Buono, il Benefattore munifico dell’uomo - l’uomo, e per rispetto e per riconoscenza, doveva dare a Dio non “molto” amore, ma “tutto” l’amore adorante di cui era capace, e perciò tutta l’ubbidienza, senza analizzare le ragioni del divino divieto.
    Le discussioni presuppongono un autogiudizio e una critica all’ordine od azione altrui. Giudicare è difficile cosa e raramente il giudizio è giusto; ma non lo è mai quando giudica inutile, errato, o ingiusto, un ordine divino.
    L’uomo doveva ubbidire. La prova di questa sua capacità, che è misura d’amore e rispetto, era nel modo con cui avrebbe o non avrebbe saputo ubbidire.
    Il mezzo: l’albero e il pomo. Due cose piccole, insignificanti, se paragonate alle dovizie che Dio aveva concesso all’uomo.
    E che? Si era dato Lui: Dio, e vietava di mirare un frutto? E che? Aveva dato alla polvere la vita naturale e soprannaturale, aveva infuso il suo soffio nell’uomo, e vietava di cogliere un frutto? E che? Aveva fatto l’uomo re di tutte le creature e lo considerava non suddito suo, ma figlio, e vietava di mangiare un frutto?
    A chi non sa sapientemente meditare, questo episodio può sembrare un puntiglio inspiegabile, simile al capriccio di un benefattore che, avendo ricoperto un mendico di ricchezze, gli vieti, poi, di raccogliere un sassolino giacente nella polvere. Ma così non è.
    Il pomo non era solo la realtà: frutto. Era anche il simbolo. Il simbolo del diritto divino e del dovere umano.
    Anche quando Dio chiama e benefica straordinariamente, i beneficati devono sempre ricordarsi che Egli è Dio e che l’uomo non deve mai prevaricare, anche se si sente straordinariamente amato. Eppure questa è la prova che pochi eletti sanno superare. Vogliono più di quanto già non abbiano avuto, e vanno a cogliere il non dato. E trovano così il Serpente ed i suoi frutti velenosi.
    Attenti, o eletti di Dio! Ricordate sempre che nel vostro giardino, così colmo dei doni di Dio, c’è sempre l’albero della prova, e intorno ad esso cerca sempre di avvinghiarsi l’Avversario di Dio e vostro, per strappare a Dio uno strumento e sedurvi alla superbia e cupidigia, alla ribellione. Non violate il diritto di Dio. Non calpestate la legge del dovere vostro. Mai.
    Molti sembrano, troppi secondo alcuni, gli strumenti di Dio, le “voci”. Io dico a voi tutti, teologi e fedeli, che cento volte cento di più sarebbero, se tutti coloro che Dio chiama a speciale ministero sapessero non cogliere ciò che Dio non ha dato, per avere più ancora.
    Tutti i fedeli hanno nel Decalogo, albero della scienza del Bene e del Male, la loro prova di fede, di amore, di ubbidienza. Per le “voci” e gli strumenti straordinari più che mai è allettante quell’albero e insidiato da Satana. Perché più grande è il donato, e più è facile il sorgere della superbia e della cupidigia, la presunzione di essere sicuri di salvarsi in ogni modo. Invece Io vi dico che chi più ha avuto, più è in dovere d’essere perfetto per non avere grande condanna, quale non sarà data a chi, avendo poco avuto, ha l’attenuante dell’avere poco saputo.
    Prevengo una domanda. Quell’albero portava dunque frutti buoni e frutti cattivi?
    Portava frutti non diversi da quelli di ogni altra pianta. Ma era pianta di bene e di male, lo diveniva a seconda del comportarsi dell’uomo, non tanto verso la pianta quanto verso l’ordine divino. Ubbidire è bene. Disubbidire è ­male.
    Dio sapeva che a quell’albero sarebbe andato Satana, per tentare. Dio tutto sa. Il malvagio frutto era la parola di Satana gustata da Eva. Il pericolo di accostare la pianta era nella disubbidienza. Alla scienza pura che Dio aveva dato, Satana inoculò la sua malizia impura, che presto fermentò anche nella carne. Ma prima Satana corruppe lo spirito facendolo ribelle, poscia l’intelletto facendolo astuto.
    Oh! ben conobbero, dopo, la scienza del Bene e del Male! Perché tutto, persino la nuova vista, per cui conobbero d’esser nudi, li avvertì della perdita della Grazia, che li aveva fatti beati nella loro intelligente innocenza sino a quell’ora, e perciò della perdita della vita soprannaturale.
    Nudi! Non tanto di vesti quanto dei doni di Dio. Poveri! Per aver voluto essere come Dio. Morti! Per aver temuto di morire con la loro specie se non avessero agito direttamente.
    Hanno commesso il primo atto contro l’amore con la superbia, la disubbidienza, la diffidenza, il dubbio, la ribellione, la concupiscenza spirituale e, per ultimo, con la concupiscenza carnale. Dico: per ultimo. Alcuni credono che sia invece stato l’atto primo la concupiscenza carnale. No. Dio è ordine in tutte le cose.
    Anche nelle offese verso la legge divina l’uomo peccò prima contro Dio, volendo essere simile a Dio: “dio” nella conoscenza del Bene e del Male, e nella assoluta, e perciò illecita, libertà di agire a suo piacere e volere contro ogni consiglio e divieto di Dio; poscia contro l’amore, amandosi disordinatamente, negando a Dio l’amore riverenziale che gli è dovuto, mettendo l’io al posto di Dio, odiando il suo prossimo futuro: la sua stessa prole, alla quale procurò l’eredità della colpa e della condanna; in ultimo contro la sua dignità di creatura regale che aveva avuto il dono di perfetto dominio sui sensi.
    Il peccato sensuale non poteva avvenire sinché durava lo stato di Grazia e gli altri stati conseguenti. Poteva esserci tentazione, ma non consumazione della colpa sensuale sinché durava l’innocenza, e perciò il dominio della ragione sul senso.
    Castigo. Non sproporzionato, ma giusto.
    Per capirlo bisogna considerare la perfezione di Adamo ed Eva. Considerando quel vertice, si può misurare la grandezza della caduta in quell’abisso.
    Se alcuni di voi venissero presi da Dio e messi in un nuovo Eden, lasciandovi quello che siete, ma dandovi gli stessi comandi che dette ad Adamo, e voi disubbidiste come Adamo, credete voi che Dio vi condannerebbe con l’uguale rigore con cui condannò Adamo? No. Dio è giusto. Sa quale tremenda eredità è in voi.
    Le conseguenze del peccato d’origine sono state riparate dal Cristo, per quanto è la Grazia. Ma la debolezza della lesione alla perfezione originale rimane. E questa debolezza è costituita dai fomiti, simili a germi infettivi rimasti nell’uomo in latenza, ma sempre pronti ad entrare in potenza e soverchiare la creatura. Anche nei santi più santi essi sono. E la santità altro in fondo non è che frutto della lotta e vittoria continua che l’anima e la ragione del giusto sostengono e riportano per e sugli assalti dei fomiti, per rimanere fedeli all’Amore.
    Ora Dio, che è infinitamente giusto, non sarebbe inesorabile con un di voi come con Adamo lo fu. Perché considererebbe la vostra debolezza.
    Con Adamo lo fu, essendo Adamo dotato di tutto quello che lo poteva far vincitore, e facile vincitore, sulla tentazione. Onde il castigo. Quel castigo in cui si vede che se l’uomo prevaricatore non rispettò i limiti messi da Dio, Dio rispettò i limiti che si era messo verso l’uomo.
    Dio non violentò il libero arbitrio dell’uomo. Mentre l’uomo violentò i diritti di Dio. Né prima, né dopo la colpa, Dio violentò la libertà d’azione dell’uomo. Lo sottopose ad una prova. Non ignorava, essendo Dio, che l’uomo non l’avrebbe superata. Ma era giusto che ve lo sottoponesse per confermarlo in grazia, come aveva, per lo stesso fine, sottoposto alla prova gli angeli e confermato in grazia quelli, tra loro, che avevano vinto la prova. E, sottoponendolo alla prova, lo lasciò libero di agire rispetto ad essa.
    Se Dio avesse voluto violentare la libera volontà dell’uomo di scegliersi il suo destino, o non gli avrebbe proposto la prova, o gli avrebbe legato le potenze del volere in modo che l’uomo fosse impedito di agire male. Così pure, se lo avesse voluto premiare nonostante tutto, gli avrebbe o perdonato tutto in anticipo o, per avere base a perdonarlo, gli avrebbe suscitato nel cuore la contrizione perfetta, o quanto meno un’attrizione per i beni che aveva perduto, aiutando, con un suo raggio d’amore, a volgere l’imperfetto dolore di attrizione, per la perdita dei beni presenti in quell’istante e futuri, in perfetto dolore di contrizione per l’offesa fatta a Dio e per la perdita della sua Grazia e Carità.
    Ma tutti questi casi sarebbero stati delle ingiustizie verso gli angeli, che furono sottoposti alla prova, che non ebbero legate le potenze del volere, che non furono perdonati in anticipo, e che non ebbero suscitato nel loro essere, e da Dio stesso, alcun moto di contrizione o attrizione, atto a suscitare un perdono divino. Vero è che gli angeli erano più degli uomini favoriti al non peccare per i doni di grazia e per quelli di natura (spiriti privi di corpo e perciò di sensi) e per essere quindi esenti da pressioni interne di senso e da pressioni esterne (il Serpente), e soprattutto per la conoscenza di Dio; e ciononostante peccarono, senza attenuanti d’ignoranza e di stimolo di senso, per pura malizia e sacrilego volere. Ma non ci fu nulla di quanto detto prima. Né da parte di Dio, né da parte dell’uomo.
    Dio rispettò la volontà umana. L’uomo perseverò nel suo stato di rivolta verso il suo divino Benefattore. Superbamente uscì dall’Eden dopo aver mentito - perché ormai il suo congiungimento con la Menzogna era avvenuto - e l’aver addotto povere scuse al suo peccato, mentre che l’essersi fatto cinture di foglie testimoniava che, non perché erano nudi e di apparir tali a Colui che li aveva creati e conservati vestiti solo di grazia e innocenza si vergognavano, ma perché erano colpevoli avevan paura di comparire davanti a Dio.
    Paura, sì. Pentimento, no. Onde Dio, dopo averli cacciati dall’Eden, “pose due cherubini sulle soglie dello stesso”, onde i due prevaricatori non vi rientrassero fraudolentemente per fare bottino dei frutti dell’albero della vita, rendendo nulla una parte del giusto castigo e defraudando ancora una volta Dio di un suo diritto: quello di dare e levare la vita dopo averla conservata sana, lieta e longeva coi frutti salutari dell’albero della vita.
    Castigo giusto, dunque. Privazione di quanto spontaneamente l’uomo aveva spregiato: la Grazia, l’integrità, l’immortalità, l’immunità, la scienza. E perciò la perdita della paterna carità di Dio, del suo aiuto possente; e perciò la debolezza dell’anima ferita, la febbre della carne svegliata, delirante e soverchiante la ragione; e perciò la paura di Dio, la perdita dell’Eden dove senza fatica e dolore era la vita; e perciò la fatica, la morte, la soggezione della donna all’uomo, l’inimicizia tra uomo e uomo, tra i figli di un seno, il delitto, l’abuso, tutti i mali che tormentano l’umanità, la paura di morire e del giudizio, il tormento di aver provocato il dolore, e di trasmetterlo a quelli più amati, in un con la vita.
    Conseguenze.
    Oltre la condanna immediata e personale e le sue immediate personali conseguenze, il peccato di Adamo e la condanna provocata da esso ha avuto conseguenze che sino alla fine del tempo dureranno, pesando sull’Umanità. Come capostipite della famiglia umana, Adamo ha trasmesso la sua infermità nei suoi discendenti.
    Non avviene diverso quando un uomo tarato procrea dei figli. Con più o meno virulenza, i veleni della malattia sono nella sua prole e nella prole della prole, e se, con medicine adatte, la malattia ereditaria da virulenta e datrice di morte può mutare in forma più benigna, pure mai quei figli, e i figli dei figli, saranno sani come quelli venuti da un sangue sano.
    “Per opera di un sol uomo il peccato è entrato nel mondo”, è scritto. Ed è verità.
    Questo dolore, prima che da Paolo, è detto dalla Sapienza, dal Verbo docente, dai Salmisti. Da Dio sempre perciò, perché è sempre Dio che parla per bocca dei suoi ispirati.
    Questo dolore empie il mondo, si tramanda da generazione a generazione, né finirà sinché non avrà fine il mondo. Ha empito del suo ululo il luogo dove Adamo con fatica traeva pane dalle zolle sulle quali gocciava il suo sudore. Si è sparso per la Terra, e orizzonti, e gole, e selve, e animali lo hanno sentito rabbrividendo e se lo sono trasmesso. E, come luce accecante, ha fatto vedere ad Adamo ed Eva l’immensità del loro peccato, non commesso soltanto verso Dio, ma anche verso la carne e il sangue loro.
    Sino a quel momento il verdetto di Dio non aveva ancora frantumato la ribellione dell’uomo, il quale, col facile adattamento dell’animale - ché l’uomo privo di Grazia non è che il più perfetto degli animali - si era presto adattato al suo nuovo destino, non più facile e giocondo come quello primo, ma non privo di gioie umane che compensavano dei dolori umani.
    La passione del senso si soddisfaceva nella carne compagna, fusa, non santamente come Dio voleva e come l’uomo innocente e pieno di scienza aveva compreso nell’Eden, a farsi una carne sola; la gioia del creare da soli - oh! orgoglio persistente! - nuove creature, illudendosi con ciò di essere simili a Dio Creatore; il dominio sugli animali, la soddisfazione dei raccolti e del bastare a se stesso, senza avere a ringraziare nessuno. Gioie sensuali, ma sempre gioie.
    Oh! quanta oscurità da fumo d’orgoglio e da caligine di concupiscenze sfrenate perdurò ostinata nei due protervi!
    La maternità era ottenuta con dolore, ma la gioia dei figli compensava quel dolore.
    Il cibo era ottenuto con fatica, ma il ventre si empiva ugualmente e la gola era soddisfatta, ché la Terra era colma di cose buone.
    La malattia e la morte erano lontane, godendo i corpi, creati perfetti, di una salute e virilità che facevano pensare ai due protervi longeva la vita, se non eterna.
    E la superbia fermentante suscitava il pensiero derisore: “Dove è dunque il castigo di Dio? Noi siamo felici anche senza di Lui”.
    Ma un giorno il verde dei campi, su cui sbocciavano i fiori multicolori creati da Dio, rosseggiò del primo sangue umano versato sulla Terra, e ululò la madre sul corpo del dolce Abele estinto, e il padre comprese che non era stata minaccia vana quella che prometteva: “Ritornerai nella terra dalla quale fosti tratto, perché sei polvere e polvere ritornerai”, e Adamo morì due volte, per sé e per suo figlio, ché un padre muore la morte dei figli vedendoli spenti, ed Eva partorì, con strazio, dando alla Terra il corpo esanime del suo diletto, e comprese cosa è il partorire in peccato.
    Ma ugualmente nella stessa ora, nella quale folgoreggiava - ed era misericordia ancora - il castigo di Dio, morì l’orgoglio e venne partorito il pentimento, la nuova vita per la quale i due Colpevoli iniziarono l’ascesa del sentiero della Giustizia e meritarono, dopo lunga espiazione ed attesa, il perdono divino per i meriti del Cristo.
    E di Maria. Oh! lasciate che Io qui celebri questa verità dell’Immacolata che fu, che è Mia, e che, per il nostro congiunto amore, ha dato al mondo il Verbo fatto Carne: l’Emmanuele.
    Per una infedeltà della donna l’umano genere conobbe il peccato, il dolore, la morte. Per la fedeltà della Donna l’umano genere ha ottenuto la rigenerazione alla Grazia, e perciò il perdono, la gioia pura, la Vita.
    Per la concupiscenza, la morte, tutte le morti. Per la purezza di una verginità triplice - di corpo, d’intelletto, di spirito - la Vita, la vera Vita, e della carne risorta dei giusti e vivente in eterno, e della mente aperta alla Verità, e dello spirito rinato alla Grazia.
    Per il connubio con Satana, l’odio fratricida e deicida. Per il connubio con Dio, l’amore fraterno e l’amore spirituale che abbracciano Divinità e Umanità, e su ambe si effondono, e per ambe operano, l’Amore Incarnato e l’Amore verginale, ambedue offerti, volontariamente, totalmente, e consumati perché Dio fosse consolato e l’uomo salvato.
    La morte di Abele frantumò l’orgoglio di Adamo e fece esperta Eva del più atroce partorire alle Tenebre. La morte di Cristo frantumò il Peccato e mostrò all’Umanità cosa costi il partorire alla Grazia. L’ululo di Eva ha corrispondenza nel grido di Maria alla morte del Figlio Ss.
    Io dico, a coloro che credono Maria sopra al dolore perché Piena di Grazia, che neppure Eva soffrì, nella sua desolazione meritata, ciò che sofferse Maria innocente. Perché se l’ululo di Eva segnava la nascita del Pentimento, il grido di Maria segnò la nascita dell’èra nuova. E se in quell’ora segnata dal primo sangue umano, sparso per criminale violenza, per cui la Terra fu maledetta due volte, ebbe inizio l’ascesa verso la Giustizia, nell’ora di nona, segnata dall’ultima stilla del Sangue divino, discese dai Cieli la Redenzione, uscendo come fiume di salute dai due Cuori innocenti e piagati del Figlio e della Madre.
    Veramente non solo per i meriti di Gesù, ma anche per quelli di Maria voi avete la Vita; ed Ella, Madre della Vita, Madre Vergine, pura, innocente, che non conobbe le doglie del partorire - secondo la legge della carne decaduta - il suo Gesù, ha conosciuto però, e ben conosciuto, le doglie del più doloroso parto, partorendo voi, Umanità peccatrice, alla novella Vita della Grazia.
    Per un solo uomo, l’uomo conobbe la morte. Per l’Uomo solo, l’uomo conosce la Vita. Per Adamo l’Umanità ha ereditato la Colpa e le sue conseguenze. Per Gesù, Figlio di Dio e di Maria, l’Umanità eredita nuovamente la Grazia e le sue conseguenze.
    La quale Grazia, sebbene non annulli tutte le conseguenze terrene della colpa d’origine - ché il dolore, la morte e gli stimoli restano a darvi pena, paura e battaglia - fortemente vi aiuta a sopportare il dolore presente con la speranza del Cielo, vi aiuta ad affrontare la paura del morire con la conoscenza della Misericordia divina, vi aiuta a reagire e domare gli stimoli o fomiti con gli aiuti soprannaturali per i meriti di Cristo e i Sacramenti da Lui istituiti.
    Ho detto: “La Grazia, sebbene non annulli tutte le conseguenze della Colpa...”. Questo è un punto sul quale molti si ribellano, dicendo: “È giusto questo? Non poteva il Redentore rendere tutta la perfezione?”.
    È giusto. Tutto in Dio è giusto.
    L’uomo non fu ferito in uno scontro con Dio, per cui Dio dovesse sentirsi in dovere di riparare al danno fatto volontariamente o involontariamente. L’uomo da se stesso si è volontariamente ferito, e consciamente ferito. Or quando un uomo si ferisce in modo talmente grave, nella vita d’ogni giorno, resta o mutilato, o tarato, o segnato almeno da gravi cicatrici; né opera di medico può cancellare del tutto il danno, e soprattutto rifare le parti perdute.
    Adamo si è mutilato della Grazia e della vita soprannaturale, dell’innocenza, integrità, immunità, immortalità e scienza. E, come capo-stipite di tutta l’umana famiglia, ha trasmesso la sua penosa eredità a tutti i suoi discendenti.
    Ma l’Umanità, più fortunata dell’uomo singolo, per mezzo di Gesù-Salvatore-Redentore, ha ottenuto la guarigione. Più ancora: la “ricreazione” nella Grazia: vita dell’anima. E per i Sacramenti da Lui istituiti, le virtù che essi infondono, ed i Miei doni, ha ottenuto anche i mezzi per sempre più crescere nella perfezione, sino a raggiungere il culmine con la “supercreazione” che è la santità.
    Però neppure il Sacrificio dell’Uomo-Dio, capace e sufficiente a restituirvi i doni perduti ed a rielevarvi all’ordine soprannaturale - ossia alla capacità di amare, conoscere, servire Dio in questa vita, per possederlo in gaudio, in eterno, nell’altra - ha cancellato le cicatrici delle grandi ferite che l’uomo si è inferto volontariamente, e specie quelle della concupiscenza triplice, che è sempre pronta a rifarsi piaga se lo spirito non veglia a tenere soggette le male passioni.
    Ho anche detto: “La conoscenza della Misericordia divina”. Sì. L’eredità della Colpa, come vi ha ottenuto il Redentore, così vi ha ottenuto la conoscenza dell’infinita carità, e sapienza, e potenza divine.
    L’uomo, rigenerato figlio di Dio per mezzo di Gesù, conosce ciò che Adamo non conosceva. Conosce a quale immensità giunga l’amore del Padre, che dà il suo Unigenito a cancellare col suo Sangue il decreto di condanna dell’Umanità, decaduta nel suo Capostipite.
    Adamo, per la scienza infusa, e più per la Grazia che elevandolo all’ordine soprannaturale lo aveva reso capace di conoscere Dio, molto conosceva di quanto Dio lo amasse, perché tutto, intorno ed entro Adamo, aveva voce di amore divino. E Adamo, per l’elezione all’ordine soprannaturale, molto sapeva amare. Sapeva amare in quella giusta misura che Dio aveva giudicata sufficiente durante la vita a preparare l’uomo alla visione e al godimento di Dio dopo il trapasso da Terra a Cielo. Ma mai, neppure nei trasporti d’amore più grande, l’Adamo innocente poté giungere a salire, col suo desiderio di conoscere e amare, sino al centro della Verità, mai poté inabissarsi in questa fornace ardente dell’Amore che è anche Verità, mai poté possedere la conoscenza totale di quella verità che ha nome Amore Infinito.
    L’uomo vivente sulla Terra non può vedere Dio quale è. Neppur l’Uomo-Adamo, testé creato e ricco di doni. Tutto aveva voce di Dio. Tutto gli parlava di Dio. Tutto lo attirava a Dio. L’uomo era il grandemente amato e ricoperto di doni, per aiutarlo ad amare. Ma tra l’uomo e Dio è sempre un abisso. Sono due abissi che si guardano, e il Maggiore attira il minore, gli sfavilla dinanzi allo spirito, lo investe dei suoi fuochi, lo fa ricco delle sue luci dardeggiate sullo spirito dell’uomo come per una continua infusione di sapienza.
    Il Divino Amore ha, per l’uomo, il gesto d’invito di due braccia e di un seno che si aprono e si offrono per l’amplesso che beatifica, e l’amore umano dona ali all’uomo perché possa dimenticare la Terra e lanciarsi verso il Cielo, verso Dio che lo chiama. Ma una legge di giustizia stabilisce che l’incontro totale, la fusione, si abbia solo dopo la prova che conferma nella grazia.
    Per questo, più l’uomo sale nel tentativo e desiderio di raggiungere Dio, e più Dio sfugge, si ritira nel suo abisso senza fine. Né fa ciò per crudeltà, ma per tenere attive le forze e le volontà dell’uomo di raggiungerlo, e così aumentare la capacità umana a ricevere con frutto e farsi colmare dalla Grazia, ossia ancora da Dio stesso. Perché veramente l’uomo è tanto più atto a ricevere e possedere Dio e la sua Grazia Ss., quanto più attivamente, instancabilmente, intensamente, muove verso Dio.
    Ho parlato al presente perché tale è la condizione dell’uomo verso l’immensa Divinità, incomprensibile ad ogni intelligenza creata. Anche i più grandi contemplatori - e metto qui i nomi di Giovanni e Paolo per indicarvi due già redenti da Cristo, ai quali si aperse il Cielo sino al terzo e al settimo grado, e anche Mosè, Ezechiele, Daniele, che videro, rispettivamente, “il tergo di Dio”, la “luce lasciata dall’Infinita Luce”, “l’Essere dall’aspetto d’uomo” ma che era “fuoco d’elettro” e “voce che si faceva sentire da sopra il firmamento”, “l’Antico dei giorni il cui volto era velato dal fiume di fuoco che scorreva rapidamente davanti alla sua faccia” lasciando visibili soltanto i capelli e le vesti - non poterono conoscere l’Inconoscibile sinché furono tra i mortali i due primi, nel Cielo dopo la Redenzione gli altri.
    Ma tale, particolarmente, era la condizione di Adamo, elevato all’ordine soprannaturale, e perciò dotato, come voi restituiti e fedeli alla Grazia, di un’intelligenza spirituale capace di accostarsi molto alla Verità di Dio, ma non di conoscere il Mistero di Dio.
    Solo per Gesù l’uomo ha potuto penetrare più avanti - oh! molto più avanti! - valicare distanze, alzare veli, accostarsi all’ardore del Focolare Uno e Trino e conoscere l’immensità dell’Amore con una profondità sconosciuta ad Adamo.
    Sconosciuta per misura di prudenza. Perché Adamo, ove avesse avuto proposto da Dio il Cristo futuro e avesse avuto da Dio richiesta di adorare il Verbo Incarnato per amore e per opera dell’Amore, non si rifiutasse di adorare il Compendio vero dell’Amore Trino e si rendesse così colpevole dello stesso peccato di Lucifero, divenuto Satana per aver rifiutato adorazione all’Amore fatto carne, pretendendo superbamente di esser capace esso stesso di redimere l’uomo essendo simile a Dio in sostanza, potenza, sapienza, bellezza, anziché simile per partecipazione di natura, offendendo così particolarmente lo Spirito Santo, Datore delle luci, sapienze e verità contenute in Dio. E i peccati contro lo Spirito Santo, dei quali Lucifero e i suoi simili in ribellione si sono resi colpevoli, come molti uomini, non sono perdonati.
    Dio voleva perdonare all’uomo. Gli propose perciò la prova di ubbidienza. Ma gli risparmiò la prova di adorazione per il Verbo fatto Uomo, onde Adamo non peccasse in modo non perdonabile, invidiando la potenza del Cristo, presumendo di potersi salvare e di poter salvare senza bisogno del Cristo, negando come impossibile la verità conosciuta che l’Increato potesse farsi “creato” nascendo da donna, che il Purissimo Spirito, che è Dio, potesse farsi uomo assumendo carne umana.
    Voi no. Voi redenti dal Cristo, voi venuti dopo l’avvento di Cristo, e soprattutto dopo il sacrificio di Cristo, conoscete tutto l’amore di Dio. Il Cristo questo amore infinito ve lo ha rivelato, con Se stesso, con la sua parola, col suo esempio e le sue azioni.
    Mirate il Cristo bambino, vagente in una grotta, e non ne avete paura. Anzi quella debolezza umana attira la vostra debolezza spirituale, la quale non si sente sconfortata né spaurita davanti al Dio Infante, al Dio che si è annichilito, Egli, l’Immenso, in piccole membra, Egli, il Potente, in membra bisognose di tutti gli aiuti, tanto esse sono incapaci di provvedere ai bisogni dell’organismo.
    Mirate il Cristo fanciullo, e non ne avete paura. La sua sapienza è dolce. Con poche parole vi indica la via sicura per giungere alla Casa del Padre: “Occuparsi di ciò che vuole Dio, di ciò che va dato a Dio”. Tutta la Legge è in questa risposta breve e sapiente. Egli vi dice, parlando a quelli che rappresentano l’umanità eletta e cara al Signore: “Non sapete che si deve fare questo, questo solo, questo al disopra di ogni altra occupazione, avere questo amore al disopra di ogni altro amore, per avere posto in Cielo?”.
    E già tutto il Cristo docente è in queste brevi parole, il Cristo che dice a Marta: “Tu ti occupi di troppe cose, una sola è necessaria”. Il Cristo che dice al discepolo, ancor troppo attaccato alle cose del mondo: “Lascia che i morti seppelliscano i morti”, e ancora: “Chi, dopo aver messo la mano all’aratro, volge indietro lo sguardo, non è adatto al Regno di Dio”.
    Il Cristo che, amando con perfezione la Madre, non l’antepone alla sua missione, ma chiaramente dice che “è suo sangue chi fa la volontà di Dio”, ed Egli per primo la fa, perché l’amore verso Dio è sempre, doverosamente, il più grande rispetto ad ogni altro amore, anche a quello per la Madre Ss.
    Il Cristo che rimprovera Pietro chiamandolo “Satana”, perché lo tenta a non fare la volontà del Padre suo. Il Cristo del Sermone del Monte. Il Cristo che dice l’ultima beatitudine: “Beati quelli che mettono in pratica la parola di Dio”, ossia ancora la Legge.
    Il Cristo che a Nicodemo insegna come l’uomo vecchio, l’erede di Adamo decaduto, possa raggiungere la rigenerazione e vedere il Regno di Dio “rinascendo per acqua”, e quest’acqua di vita Egli, il Cristo, ve la dà, “e per Spirito Santo”, ossia per amore, e amore è fare la volontà di Dio nell’ubbidienza alla sua Legge per tutti, e ai suoi singoli decreti per ognun di voi.
    Il Cristo che insegna la religione che è giudicata vera, meritevole di premio da parte della Divina Giustizia: “Non cerco il mio volere, ma quello di Colui che mi ha mandato”.
    Il Cristo che vi dà il Dio che si può amare sensibilmente: “Voi non avete mai sentito la voce di Dio e visto il suo Volto sino ad ora. Ma eccomi. Io sono Colui sul quale Dio ha impresso il suo sigillo. Chi vede Me vede Colui che mi ha mandato. Chi mi ascol­ta, ascolta il Padre, perché Io non ho parlato di mio, ma ho detto quanto il Padre mi ha detto di dire”. E vi disvela l’amore del Padre che dalla colpa di Adamo trae il mezzo per incuorarvi ad un più grande amore, ad una più esatta conoscenza e più stretta unione: “La Volontà del Padre mio è che voi mi conosciate per ciò che sono: Dio”.
    Il Cristo che proclama: “Io non faccio niente da Me, ma dico e faccio ciò che vuole il Padre mio. Sempre faccio ciò che a Lui piace”.
    Il Cristo, Pastore buono, che confessa la ragione più vera del grande amore del Padre per Lui: “Per questo mi ama il Padre: perché do la vita volontariamente, perché questo è il desiderio del Padre mio, onde voi siate salvati”.
    Il Cristo che, alle soglie della Passione, dice: “Il Padre mio mi ha mandato e mi ha prescritto ciò che devo dire e fare. E so che il suo comandamento è vita eterna.
    Il Cristo che, per Se stesso, assolve Pilato dicendogli: “Non avresti su Me alcun potere, se non ti fosse stato dato dall’alto. Per questo, Colui che mi ha consegnato nelle tue mani è più colpevole di te del mio morire”. E Colui che lo consegnava nelle mani dell’autorità, in una divina follia d’amore per l’uomo, è il Padre suo, il Dio Infinito davanti al quale il Figlio dice la sua orazione perfetta. “Non la mia, ma la tua Volontà si compia. Sia fatta la tua Volontà in Terra come nel Cielo”; è Dio Padre che permette alle autorità umane di essere tali sinché Egli lo vuole, dopo di che né forza d’armi né alcun’altra forza vale a mantenerle al loro posto di comando.
    Oh! Il Cristo ubbidiente dalla nascita alla morte, il Cristo che dice “Sì” al primo vagito, e dice “Sì” con l’estrema parola del Golgota, il Verbo del “Sì” eterno al Padre suo, il Cristo che non fa mai paura, che non sgomenta con la sua legge perché vi dà l’esempio che essa legge è possibile ad eseguirsi da parte dell’uomo poiché Egli - l’Uomo - l’ha vissuta prima ancor di insegnarvela, questo Dio-Uomo che si consegna alla morte, ai nemici, agli spregi, alla fatica, alla povertà, alla carne - ed ho messo la morte per prima e la carne per ultima, non per errore, ma perché al Salvatore fu più dolce il morire che al Verbo-Dio il limitarsi in una carne - vi dà, o uomini, la conoscenza di ciò che è Dio-Amore.
    E quel Divinissimo Padre, che immola il suo Dilettissimo, vi dà la misura dell’amore di Dio per voi.
    È detto: “Non vi è più grande amore di quello di colui che dà la vita per i suoi amici”. Ma è anche da dirsi: “L’amore di un Padre che sacrifica il suo vero, unico Figlio per salvare la vita dei suoi figli adottivi, i quali, veri figli prodighi, hanno volontariamente lasciato la casa paterna e si sono resi infelici, dando dolore al Padre, è un amore ancor più grande”.
    E di questo amore vi ha amato Iddio. Ha sacrificato il suo Unigenito per salvare l’Umanità colpevole, quell’Umanità che, come non fu grata, ubbidiente, amorosa per Lui all’inizio dei giorni, quando gioiva del molto ricevuto gratuitamente da Dio, così non è grata, ubbidiente, amorosa per Lui ora che da venti secoli ha avuto da Dio non il molto, ma il Tutto, ma l’Immenso, dando Dio: Se stesso, nella sua Seconda Persona.
    Dopo aver meditato tutto questo, è dolce concludere che se grande fu il castigo, che però non fu ingiusto, più grande, infinitamente più grande del castigo è stata la Misericordia. Quella Misericordia che, non paga di restituirvi, a prezzo del suo Dolore, del suo Sangue, della sua Morte di croce, i doni di cui vi aveva defraudato Adamo, vi dà Se stesso nella Ss. Eucarestia, vi dà le acque della Vita di cui è fontana saliente al Cielo, vi dà la sua dolce Legge d’amore, l’esempio suo, la sua Umanità, per rendere facile alla vostra umanità di amarlo, la sua Divinità perché le vostre preghiere siano ascoltate, come voce stessa del Figlio amatissimo vivente in voi, dal Padre suo, vi dà lo Spirito Santo con tutti i suoi doni, per i quali le virtù infuse col Battesimo sono potentemente aiutate a svilupparsi ed a perfezionarsi, quei doni che aiutano grandemente il cristiano a vivere la sua vita di cristiano, ossia la vita divinizzata, da figlio di Dio, e che, senza annullare i fomiti, dànno a voi la forza di reprimerli, facendo di essi, che “male” sono, “bene”, ossia eroismo, mezzo di vittoria, corona e veste di gloria.
    Come per Paolo, la vita di ognun di voi è lotta interiore fra la carne e lo spirito, fra l’aspirazione al Bene e l’azione non sempre perfettamente buona, lotta in cui Dio vi conforta e aiuta. Per questo, nessuno abbia scandalo se un suo prossimo confessa con la parola e l’azione d’esser come Paolo “carnale e soggetto”. E nessuno si accasci se comprende di esserlo. Ma l’esempio di Paolo guidi e sostenga.»