MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MINORE

A A A

QUADERNI DEL 1944 CAPITOLO 255


11 e 12 febbraio 1944

   Venerdì 11-2-1944, ore 23,30

   Mi si ripete più distintamente la visione[132] delle prime ore di oggi. E Gesù mi dice di descriverla.
   Gesù, in mezzo al gruppo dei suoi discepoli, si incammina per una viuzza sassosa rischiarata da un poco di luna. Uno dei suoi ha anche seco una torcia per illuminare meglio la strada. Giuda non c’è. Alla luce della torcia vedo che Gesù è vestito di rosso pallido con manto rosso più cupo.
   Il gruppo, alla testa del quale è Gesù, che si appoggia a Giovanni come fosse stanco, valica un torrentello poco ricco d’acque. Solo al centro vi è dell’acqua che scorre gorgogliando fra i sassi. Il resto del greto, che non è più largo d’un cinque o sei metri, è asciutto, ed i ciottoli del fondo biancheggiano al lume di luna che fa d’argento l’acqua ridarella del torrente. Un rustico ponticello è gettato su questo corso d’acqua e su quello passa il gruppo.
   Oltre ad esso prosegue per ancora qualche metro la viuzza, ma ai suoi margini già sono ulivi ed erba. Poi cessa in un vero uliveto. Questo è fatto così: il suo inizio è pianeggiante, con una specie di piazzola irregolare che fa come da valletta erbosa contornata e sparsa di ulivi. Poi il suolo monta e scende a scaglioni e a vallette che lo fanno parere un rustico anfiteatro. Gli ulivi fanno la guardia, come sentinelle sparse sui naturali contrafforti di questo luogo. Assomiglia molto ai nostri uliveti, che generalmente sono sempre disseminati a scaglioni, sui pendii delle nostre colline.
   Gesù dice ai discepoli di attenderlo nella piazzola erbosa, ma poi chiama Pietro, Giovanni e Giacomo come fosse pentito di inoltrarsi solo o temesse qualcosa; e si inoltra con essi inerpicandosi per la prima balza.
   Qui giunto dice ai tre: “Attendetemi qui voi, mentre Io prego. Ma non dormite. Potrei avere bisogno di voi. E, ve lo chiedo per carità, pregate. Il vostro Maestro è molto accasciato nello spirito…”. Calca molto sulla parola “molto” e dice le ultime due frasi con tono di profonda mestizia. Ha la voce come resa più profonda e afona da una pena interna. Una voce stanca. E triste.
   Pietro, che ha preso la torcia da uno degli altri lasciati prima, risponde: “Sta’ tranquillo, Maestro. Vigileremo e pregheremo. Non hai che chiamarci che verremo”.
   E Gesù li lascia. Cammina volgendo loro le spalle. Sale lentamente a testa china cercando il posto dove mettere i piedi al lume della luna, che ora è più alta e chiara.
   Dopo aver fatto qualche metro, gira intorno ad uno scaglione che sporge in avanti, mettendo questo fra sé e i tre apostoli. Lo scaglione è alto, all’inizio, pochi centimetri, mezzo metro circa, ma poi si alza rapidamente perché il sentieruolo che ha preso Gesù scende invece e perciò il gradino del terreno si fa subito più alto. Dopo pochi metri vi è un dislivello di qualche centimetro più alto di Gesù. Lì vi è anche un masso che sembra [essere] stato collocato lì o dalla natura stessa o dall’uomo per sorreggere la costicella.
   Contro questo si ferma Gesù. Ha quasi sotto ai suoi piedi la chioma argentea di un ulivo del balzo sottostante, e sopra il capo ha i rami contorti di un ulivo tutto curvo che si protende nel vuoto dal balzo soprastante il sasso. La luna passa con tanti occhietti ed aghi di luce fra le fogliette che si muovono continuamente ad un lieve vento.
   Gesù prega. Ritto in piedi contro il sasso, col volto levato al cielo e le braccia aperte a croce. La sua preghiera è intensa. Lo odo sospirare e sussurrare le parole con pressante anelito.
   Poi si volge appoggiando le spalle al macigno e guarda… Oltre le chiome spettinate degli ulivi digradanti ai suoi piedi seguendo i dislivelli del luogo collinoso, si vede Gerusalemme. Tutta bianca nel chiaro di luna. Tutta calma, all’apparenza, tutta buona, tutta dormente. Gesù, con le braccia incrociate sul petto, la guarda intensamente. Sospira con maggiore affanno.
   Poi si incammina di nuovo. Torna ai tre discepoli. Questi hanno acceso un focherello, forse per sentire meno la frescura notturna, forse per resistere meglio al sonno. Ma in realtà dormicchiano già. Le teste, specie quella di Pietro, ciondolano sul petto.
   “Dormite? Non avete saputo vegliare un’ora sola? Ed Io ho tanto bisogno del vostro conforto e della vostra preghiera!”. I tre si scuotono e si sfregano gli occhi. “Pregate e vigilate. Anche per voi ne avete bisogno”. E li lascia nuovamente tornando al suo posto.
   Al lume della luna, che gli batte in volto facendogli parere bianca anche la veste mentre si dirige verso il sentiero, vedo che ha un volto stanchissimo. Un volto martirizzato da un dolore interno. Sembra invecchiato. Lo sguardo non ha fulgori. La bocca cade con piega triste.
   Torna al suo masso e si inginocchia con più intensa preghiera. Prega e medita. E nel meditare si abbatte. Lo vedo sussultare, lo odo gemere. Lo vedo che porta le mani congiunte oltre il capo e appoggia queste al masso e la fronte ai polsi e sta così, supplicando. Quando alza il volto, la luna, ora a perpendicolo su di Lui, mi fa vedere un volto lavato dal pianto.
   Si alza. Fa qualche passo avanti e indietro mormorando parole che non afferro, sollevando gli occhi al cielo e le mani, riabbassando queste e quelli con sconforto. Soffre. Piange. È agitato.
   Torna ai tre che dormono anche meglio di prima. Anche il fuocherello sonnecchia. “Ma dunque? Dormite ancora? Pregate. La carne non vi vinca. Non vinca la carne, in nessuno. Se lo spirito è pronto, la carne è debole. Aiutatemi”.
   I tre si scusano. Lasciano le pose comode che avevano preso, cercano dei rametti, e per farlo si alzano e si sgranchiscono, ravvivano il fuoco. La vampa mostra un volto così torturato che avrebbe dovuto tener desto anche un moribondo. Ma i tre hanno sonno…
   Gesù li guarda, scuote il capo. Torna via. Torna al suo masso.
   Prega da capo. Prima a mani levate e aperte a croce, poi in ginocchio come prima a mani congiunte. Poi tace. Pensa. E deve soffrire atrocemente perché ora singhiozza apertamente, accasciandosi sulle calcagna. E invoca il Padre… Con tanto affanno. Sembra un bambino torturato che chiami l’unico che lo può salvare.
   Ma si riprende e, dopo aver gemuto: “No, no. Troppo amaro è questo calice. Padre, allontanalo dal tuo Figlio”, si riprende e dice: “Però non ascoltare la mia voce, Padre, se essa chiede cosa contraria alla tua volontà. Non ricordarti che ti son Figlio, ma solo servo tuo. Non la mia, ma la tua volontà sia fatta!”.
   E dopo questa preghiera la marea di tutto il dolore del mondo si rovescia su Lui, lo preme, lo schiaccia, lo abbatte. Materialmente è una povera cosa curvata al suolo, col volto contro terra, sull’erba fresca, unica pietosa alla sua febbre: sembra uno che muoia. Spiritualmente è un’anima torturata, un pensiero esterrefatto, un cuore schiacciato dall’abbandono del Padre, dal suo rigore, dalla cognizione della tortura che l’aspetta. Da tante, tante cose.
   Sta così lungamente. Quando una gran luce si mostra sul suo capo – non vedo altro che una luce candidissima – Gesù alza il capo. La luce lunare e quella angelica mi mostrano un viso rosso di sangue. Le lacrime fanno due righe bianche nella maschera rossa. Anche le mani sono rosse, le braccia che Egli alza verso la luce. Si leva il mantello rosso scuro e si asciuga con esso il volto, le mani, il collo, le braccia. Ma il sudore sanguigno continua. Ogni poro ha la sua goccia che si forma, cresce e cade. L’erba appare più scura là dove Egli ha tenuto il volto, tinta come è di sangue.
   Gesù affanna come uno preso da malessere. Si pone seduto contro il masso. Si appoggia. Si abbandona, col capo chino in avanti, le braccia stese ai lati del corpo. La luce angelica è sopra di Lui. Poi scompare fondendosi al raggio lunare.
   Gesù è da capo solo. Ma è più confortato. Si asciuga nuovamente, accuratamente, volto e mani nel mantello, che ripiega poi, mettendolo contro il masso e appoggiando su questo il capo e le mani in un’ultima preghiera.
   Poi si alza e si avvia verso i discepoli lasciando il mantello là dove è. La sua tunica rosso pallido appare macchiata come fosse bagnata di un liquido scuro. Ma il volto ha ripreso il suo aspetto maestoso per quanto sia immensamente triste e pallido più del consueto.
   I tre, comodamente sdraiati, dormono, tutti avvolti nei loro mantelli, presso il fuoco definitivamente morto.
   Gesù li scuote: “Alzatevi. Andiamo. Chi mi tradisce è vicino”.
   I tre, confusi dal rimprovero e dal sonno, si alzano sbalorditi e si guardano intorno. Non vi è che la luna e gli ulivi…
   Ma mentre si sbirciano a vicenda e sbirciano il Maestro, quasi a chiedersi e chiedergli dove è chi tradisce, irrompono nella piazzuola, dove ormai sono giunti anche Gesù e i tre, riunendosi agli altri otto, Giuda e una masnada di brutti ceffi che del soldato non hanno nulla ma del delinquente molto.
   Giuda si accosta a Gesù, che lo guarda con uno dei suoi sguardi dominatori pieno di quei lampi che per tutta la sera non gli ho visto. Giuda affronta quello sguardo. Gli resiste – non so come faccia – e con un sorriso melato si fa ancor più vicino e bacia il Maestro sulla gota destra.
   “Amico, che sei venuto a fare?”. Giuda abbassa per un solo attimo il capo. “Con un bacio mi tradisci?”. Se nella prima frase vi è ancora un rimprovero, un richiamo, un ultimo tentativo del Maestro e del Salvatore di ricondurre Giuda al pentimento, nella seconda, davanti alla sua anima tetragona ad ogni rimorso, non vi è che accorata constatazione del fatto.
   La turba viene avanti con funi e bastoni e cerca di catturare tutti, meno Giuda.
   “Chi cercate?” chiede Gesù con voce pacata.
   “Gesù Nazareno”.
   “Sono Io”. La voce è un tuono. La deve udire tutta la Terra questa professione del suo essere. Quei manigoldi piombano al suolo come fulminati.
   “Chi cercate, vi dico”.
   “Gesù Nazareno”.
   “Ve l’ho detto che son Io. Lasciate dunque questi altri. Io vengo. Riponete spade e bastoni. Non sono un ladrone. Stavo sempre fra voi. Perché non m’avete preso allora? Ma questa è la vostra ora e quella di Satana. Andiamo. E tu, guarisci. Nell’anima per prima” e toccato l’orecchio fenduto lo risana.
   L’ultimo gesto che può fare con le mani, perché gliele legano con una fune atta a legare dei buoi, non un uomo. Gliene passano una anche alla vita, e una squadra prende l’estremità di quella delle mani, l’altra di quella della vita.
   I dodici apostoli sono tutti fuggiti. Chi a destra e chi a sinistra. Gesù è solo fra i suoi aguzzini.
   E comincia il cammino. Chi lo tira a destra e chi a sinistra, in modo che Egli è sbatacchiato qua e là contro tronchi e muretti, e inciampa spesso.
   Quando sono al ponticello, un più forte strattone lo sbatte contro la ringhiera di legno. La sua bocca urtata violentemente sanguina. Mentre si rialza, portando le mani legate alla bocca per tergersi il sangue, dei manigoldi sono scesi sul greto a far provvista di sassi, e le pietre volano contro Gesù. E dato che colpiscono anche la scorta, si accende una zuffa, più o meno vera, la quale finisce in bastonate vere sulle spalle e sul capo di Gesù. Le torce illuminano la scena perché la luna è al tramonto.
   Si giunge, fra schiamazzi e sevizie, alla casa di Caifa, dove è interrogato da Anna che attendeva. Nel cortile che è sul davanti della casa vi sono già molte facce patibolari e dei sacerdoti.
   Giovanni, con Pietro riluttante, entra esso pure e si accosta al fuoco acceso in mezzo al cortile, perché la notte si è fatta fredda e ventosa come per inizio di temporale. Si capisce che, dopo essere fuggiti in un primo tempo, sono poi tornati accodandosi alla turba schiamazzante.
   Gesù è condotto nell’aula, semicircolare, del Sinedrio. Degli scanni stanno nell’arco di essa, e sulla parete retta vi sono quelli più pomposi del Sommo Sacerdote e delle cariche più importanti. Al centro uno spazio vuoto, nel quale viene condotto Gesù per essere interrogato dalla muta astiosa e accusato dai falsi testimoni.
   Gesù tace. Guarda e tace. È mite, innocuo, paziente. Sta ritto nella sua veste maculata dal sudore sanguigno, ormai asciugato e che la fa appena più scura. Ha già due o tre lividure sulle mani e sul viso, frutto delle sassate e bastonate, e sulla fronte una riga di sangue scende da una ferita che par fatta da una pietra tagliente. La bocca ha il labbro lievemente enfiato. Ma è ancora tanto bello, tanto Dio.
   Alla supplica del Sacerdote: “Io ti scongiuro per il Dio vivo di dire se sei il Cristo Figlio di Dio”, Gesù risponde: “Tu l’hai detto. Io lo sono. D’ora innanzi vedrete il Figliuol dell’uomo seduto alla destra della potenza di Dio venire sulle nubi del cielo. Del resto, a che mi interroghi? Ho parlato in pubblico per tre anni. Nulla ho detto d’occulto. Interroga quelli che m’hanno udito. Essi ti diranno che ho loro detto e fatto”.
   Una delle guardie gli dà un manrovescio che lo fa traballare colpendolo proprio sulla bocca enfiata e dicendo: “Così rispondi, o satana, al Sommo Sacerdote?”.
   Gesù lo guarda con pietà e risponde: “Se ho parlato male dimmi in che ho errato, se ho detto bene perché mi percuoti?”.
   Ma quello schiaffo è il segnale della sarabanda di lazzi e percosse.
   Mentre i sinedristi proclamano che non vi è bisogno d’altro per condannarlo, le guardie e altri brutti ceffi bendano Gesù e a turno lo percuotono e urtano dicendo: “Gran profeta, di’ chi t’ha percosso”.
   Ormai l’alba è venuta ed entra nella sala facendo più lividi i volti dei sinedristi e più cereo il volto di Gesù, su cui le percosse fanno segni violacei.
   Il Sinedrio prende le ultime decisioni e Gesù è condotto fuori. Mentre cammina sotto il portico che costeggia la sala, alto sul cortile di tre scalini, Gesù si volge a guardare Pietro che è rimasto solo. Giovanni non c’è più. Uno sguardo di così accorato dolore che mi squarcia il cuore già squarciato dall’agonia del Getsemani. Il canto del gallo fende la pura aria del primo mattino come uno squillo di luce. Pietro china il capo e barcollando esce.
   Anche Gesù esce. In mezzo alla sua turba di carnefici vociferanti. E si riprende il cammino fra sassate, bastonate, contumelie e immondezze lanciate su Gesù. La folla, che si avvia ai mercati, si unisce al corteo e ingrossa di metro in metro. La voce si propala e tutta Gerusalemme si precipita a vedere lo spettacolo. Le guardie romane escono a respingere la folla che si riversa contro il Pretorio e prendono in consegna Gesù.
   Pilato lo interroga e non trovando in Gesù materia di condanna è disposto a rilasciarlo. Ma i Giudei, dal di fuori del Pretorio, imprecano e tumultuano. Allora Pilato, udito che Gesù è nazareno, lo manda da Erode dalla cui giurisdizione dipende la Galilea.
   Altro cammino per le vie sempre più tumultuanti, e sempre maggiori percosse e bestemmie e sputi e immondezze.
   Erode, una grinta da galera, lo interroga promettendogli salva la vita se fa in sua presenza qualche prodigio. Ma Gesù tace mentre scribi e sacerdoti lo accusano. Allora Erode lo fa rivestire di una sopratunica bianca e, dopo averlo deriso, lo rimanda a Pilato.
   Io credo che nelle case di Gerusalemme non erano rimasti che i morti e gli agonizzanti. Tutto il resto, meno i bambini piccini, è fuori ad imprecare contro Gesù.
   Pilato, molto seccato, torna ad interrogare Gesù. Ma per quanto non voglia scontentare il Sinedrio e sollevare la plebe, un resto di giustizia gli vieta di giudicare colpevole Gesù. Allora viene ad una via di mezzo. Decide di farlo flagellare e di liberarlo. E lo dice.
   Ma la folla urla: “Libera Barabba e condanna il Nazareno”. È una vera sedizione.
   Pilato dà ordine ai soldati di portare Gesù ai flagelli. Lo vedo condurre in un cortile interno, lastricato di marmo variopinto e circondato di portici. Al centro vi è una colonna molto più alta di un uomo, dalla quale sporge un braccio di ferro con un anello pendente.
   Gesù viene fatto spogliare. Si leva la sopratunica di Erode, la veste rossa, una tunichella che aveva sotto la veste, e resta con quelle corte brache che ho già visto al Battesimo[133] e i sandali. Poi va, mite, presso la colonna. Gli legano le mani, che avevano dovuto slegare per farlo svestire, e passano il capo della fune nell’anello. Un soldato monta su uno sgabello per fare ciò. La fune è tirata in modo che Gesù sia appoggiato appena sulle punte dei piedi con le braccia alzate sul capo, ed è tanto alto che le mani quasi toccano l’anello. La corda viene assicurata e comincia la flagellazione.
   Un carnefice davanti ed uno di dietro – non sono soldati della coorte, ma due brutti ceffi di tipo orientale, certo assoldati dal Preside per fare da boia – alzano ed abbassano lo strumento di tortura fatto come uno staffile a più corde di cuoio, annodate e armate all’apice di una specie di martelletto di ferro o piombo. Alternativamente un colpo dato dal boia che sta davanti a Gesù, e che colpisce il petto e il fianco sinistro, e un colpo dato dal boia che sta dietro a Gesù, e che colpisce il dorso e il fianco destro. È una ruota di colpi. Le cinghie fischiano per aria, i flagelli suonano sul corpo del Redentore, la pelle si solleva in vesciche bluastre e, siccome i colpi proseguono a cadere dove già sono caduti, esse si aprono e spiccia sangue.
   Se Gesù non fosse sospeso cadrebbe certo, ma non può cadere perché è tenuto dalla fune. Però pende come semisvenuto, col capo in avanti, di modo che qualche colpo lo percuote anche sulla testa. Non sul volto: sulla testa.
   Quando sono stanchi si fermano. Il corpo di Gesù è tutto zebrato di lividi e rigato di sangue. Molti lividi, aperti, sono piaghe che scoprono la carne viva.
   Quando lo slegano si accascia al suolo come morto. Lo lasciano là qualche tempo dandogli di tanto in tanto[134] dei colpi col piede calzato dei sandali militari (calighe). Poi, vedendo che non si muove, un soldato lo tira su, seduto contro la colonna, e gli butta addosso un secchio d’acqua gelata, presa alla fontana che sta sotto al portico.
   Gesù sospira profondamente e fa per alzarsi. Ma non ci riesce. Allora per… ristoro un soldato, con l’asta della lancia, gli dà una bastonata sul viso e lo colpisce fra lo zigomo destro e il naso. Gesù gira gli occhi, lo guarda e, puntando le mani al suolo, si alza.
   Gli ordinano di rivestirsi. Ma mentre Egli curva il suo corpo straziato per raccogliere le vesti – e lo fa a fatica, barcollando e piegandosi malamente – un soldato dà un calcio alle vesti e le butta più là. Gesù va dove sono andate e si ricurva. Altro calcio d’altro soldato. E così via, facendolo girare più e più volte per il cortile fra lazzi osceni. Ogni volta che il Salvatore si piega, altre vesciche sanguigne si aprono, o si riaprono le già aperte, e nuovo sangue cola.
   Finalmente lo lasciano rivestire. E Gesù indossa la tunica, la veste e la veste bianca di Erode sopra questa, come per nascondere meglio le macchie lasciate dal sudore sanguigno o per ripararsi dal freddo, perché ha dei brividi che lo scuotono tutto. Gli legano di nuovo le mani.
   Ma Pilato mangia e i soldati non sanno cosa fare. Nell’attesa, dato che uno di essi dice che la folla insulta il falso re dei Giudei, “Quel re lì!…”, pensano di incoronarlo. Qualche soldato esce verso un cortile più interno e torna con un fascio di rami spinosi. Mi sembrano di biancospino selvatico. Levano con la daga tutte le foglie e i ciuffetti di fiori, piegano a serto i rami e li calcano sulla testa del Redentore.
   La prima volta è troppo larga la corona e cade sul collo; la sfilano, e così rigano le guance e arrischiano di accecarlo. La seconda è troppo stretta e, per quanto pigino, non sta sul capo. Via una seconda volta, strappando insieme molti capelli che si erano aggrovigliati alle spine. Finalmente va bene. Bene la misura, si intende, perché per il mio Gesù non deve andare per nulla bene. Una spina penetra proprio sulla tempia sinistra e tre riunite forano la fronte sopra il naso, ma verso i capelli.
   Poi i soldati prendono un pezzo di stoffa rossa, vecchia, brandello del mantello di qualche centurione, e glielo mettono sulle spalle, e rotta una canna, dopo averlo percosso sulla testa con la stessa come per una investitura da burla, gliela mettono fra le mani legate, e lo fanno sedere su uno sgabello contro la colonna e lo sbeffeggiano in mille modi.
   Mi sono dimenticata di dire che, quando Gesù si curvava per riprendere le vesti, m’è parso vedergli alla vita una cinghia di cuoio o di crine, come un cilicio. Non sono sicura, perché sporgeva appena, nel curvarsi, dalle brache.
   Gesù non parla mai. Tace e lascia fare. Guarda soltanto, e con uno sguardo che non posso sopportare senza piangere, i suoi torturatori.
   Viene un graduato e ordina che Gesù sia condotto al cospetto di Pilato.
   Questo si trova in una sala aperta sul davanti come un portico. È sopraelevata sulla via. Al centro vi è la sedia curule.
   Nella via, piena di un sole afoso che viene giù a perpendicolo da un cielo corso da nubi all’orizzonte, la folla tumultua. In prima fila i farisei e gli scribi.
   Pilato presenta Gesù alla folla: “Ecco l’Uomo. Il vostro re. Non basta ancora?”.
   “Barabba, Barabba. Libera Barabba. Uccidi costui. Non abbiamo altro re che Cesare”.
   Pilato alza le spalle mormorando fra i denti: “Ipocriti!”, poi si volge a Gesù: “Lo senti? Che ti devo fare?”.
   “Quello che ti dice la coscienza”.
   Pilato pensa, tentenna. Vorrebbe liberare Gesù. Ma i sacerdoti gli fanno giungere il loro grido: “Se liberi costui non sei amico di Cesare”.
   La paura del domani vince Pilato. Si lava le mani dicendo: “Io sono netto del sangue di questo giusto. Voi lo volete sparso”.
   “Ricada su noi e sui nostri figli, ma sia crocifisso”.
   Pilato chiama il centurione e uno schiavo. Da questi si fa portare una tavola su cui appoggia un cartello e vi fa scrivere dallo schiavo: “Gesù Nazareno, Re dei Giudei”. Al centurione dà ordine di prendere parte della coorte e di andare al Calvario con Gesù e due ladroni, già condannati alla crocifissione. Poi Pilato se ne va.
   Il corteo si forma. Prima un gruppo di soldati a cavallo col centurione davanti. Poi Gesù, e dietro i due ladri.
   Non so capire come fanno a dire che la croce fu composta sul Calvario. Come avrebbero potuto fare a renderla solida là, se non fosse già ben fabbricata? È una pesante croce, molto più alta di Gesù, e ben connessa nei suoi bracci.
   Slegano a Gesù le mani e gli dicono di prenderla. Prima gli passano al collo – e la fune urta la corona e aumenta il tormento – il cartello con la scritta. Poi gli fanno prendere la croce. Questa sobbalza nello scendere gli scalini del Pretorio, sobbalza sulle pietre e le buche della via; ed ogni sobbalzo è una tortura per la spalla di Gesù, per la sua testa, perché la croce ondeggia e urta la corona. Non mancano le sassate e anche qualche bastonata, nonostante i soldati a piedi cerchino di proteggere Gesù.
   Gesù suda sotto il sole cocente della giornata temporalesca, la polvere si appiccica al volto già maculato di sangue, tumefatto, stravolto. Oh! non è più il mio Gesù! È un agonizzante dalla maschera tragica. È irriconoscibile! Procede curvo sotto il peso, barcollante, ansante. Sento l’ansito del suo petto contuso.
   Si ripassa un torrentello su un altro ponte, ed il greto serve a rifornire di sassi i crudeli. Si giunge a quella porta che ho visto nella visione della disputa[135] e si inizia la salita del monticiattolo nudo che ho visto allora. È il Calvario.
   Qui, sulle pietre ancor più sconnesse, la fatica di Gesù aumenta, anche per la salita. Cade una prima volta inciampando in una pietra sporgente. Cade col ginocchio destro e si sorregge con la mano sinistra. Si rialza. Anche il cartello è ostacolo nel vedere dove mette i piedi col suo ballonzolare avanti.
   Procede. Sempre più curvo e ansante. Ricade. Questa volta inciampa anche nella veste e si inginocchia con tutti e due i ginocchi. Anche la croce gli sfugge di mano e la deve rialzare e mettersela sulla spalla. La veste a destra, dove la croce appoggia, è tutta bagnata di sangue e sudore. Sotto deve essere tutta una piaga.
   Si riprende il cammino, con sempre maggiore fatica. Gesù va lentamente nonostante le piattonate dei soldati per farlo andare più rapido. Il centurione si volta e, mosso a pietà, ordina una sosta di qualche momento. Ma la plebe inveisce.
   Si torna ad andare. Dopo un dieci metri circa, Gesù stramazza, non per avere inciampato – perché nella sosta si è rialzata la tunica – ma per sincope, e cade per quanto è lungo, battendo il suo santo volto sulle pietre, e resta nella polvere con la croce addosso.
   La strada ormai si fa tanto ripida che non so come potrà salire ancora Gesù. Anche i soldati parlano fra di loro e vanno a riferire al centurione.
   La visione mi si cristallizza qui. Per ora non ho visto il cireneo, le pie donne, la Madre. Nulla più di quanto ho scritto e compreso. Ma questo non lo dico per due motivi. Il primo è che ne parlerà Gesù. Il secondo è che sono… anche io come Lui, con un cuore che fa paura. Mi sento morire (sono le 3 del 12-2).

   Ore 15 del 12

   E infatti ho sfiorato la morte poco dopo. Ora sono più di là che di qua. Ma quello che è il maggior dolore è il ricordo delle sofferenze di Gesù. Mi schiantano il cuore moralmente e fisicamente.

[132] visione che comprende scene della Passione di Gesù, per le quali si può rinviare a Matteo 26, 36-75; 27, 1-31; Marco 14, 32-72; 15, 1-20; Luca 22, 39-71; 23, 1-25; Giovanni 18; 19, 1-22. La stessa “visione” si ripresenterà, sommariamente ma accentuando alcuni dettagli, in data 11 agosto. L’una e l’altra stesura, come quelle di altre scene, che pure riportiamo, sulla Passione e Resurrezione di Gesù e sull’Assunzione di Maria, non appartengono alla grande opera “L’Evangelo come mi è stato rivelato”, nella quale entreranno stesure successive, ancora più particolareggiate.
[133] visto al Battesimo, episodio scritto il 3 febbraio e inserito nell’opera maggiore.
[134] di tanto in tanto è nostra correzione da dentro per dentro, espressione ricorrente nella scrittrice e che correggeremo ancora senza più annotarla.
[135] visione della disputa, del 28 gennaio, inserita nell’opera maggiore.