MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MINORE

A A A

QUADERNI DEL 1944 CAPITOLO 259


18 febbraio 1944

   Mi ritrovo sulla via del Calvario, là dove Gesù è caduto. Al punto dove è finita l’altra contemplazione di venerdì 11[144]. Sono
   le 11 di oggi. Credo perciò d’essere nell’ora giusta del cammino di Gesù verso la vetta del Golgota.
   Gesù è ancora steso sotto la sua croce col volto nella polvere. I soldati parlano col Centurione. Questo decide di fare svoltare il corteo per una via più stretta, non selciata, che sembra girare il monte dall’altro lato, forse per rendere meno aspra la salita. È una strada formata dal piede dell’uomo più che dalla mano dell’uomo. Sale a elissi. È più lunga, ma meno ripida di questa che è rettilinea e che assale la cima con rapido dislivello.
   Rialzano Gesù e lentamente il corteo si mette in moto sempre seguito dalla plebe vociferante. Altra ne sale e si accoda da altri sentieri che partono dalla base del Calvario, provenienti da Gerusalemme o dalle campagne vicine.
   Ad un certo punto, pochi metri dopo che Gesù ha ripreso il cammino, vi è fermo un numeroso gruppo di pie donne. Una ha in mano un’anfora. L’altra, e la riconosco per questo, ha presso una piccola servente con uno scrignetto sulle braccia e ne trae un morbido lino candidissimo di un metro quadro circa. Comprendo dalle vesti che sono ricche matrone di Gerusalemme, certo seguaci del Nazareno di cui hanno tanta pietà.
   La Veronica si accosta piangendo e offre il suo lino. Aiuta anzi il Redentore a stenderselo sul volto polveroso, sudato e sanguigno, cosa che con una mano sola, perché l’altra trattiene la croce, Egli potrebbe fare malamente.
   Le guardie romane vorrebbero respingere quel gruppo, ma poi lo lasciano passare attraverso il quadrato armato e giungere presso Gesù.
   Egli trova la forza di sorridere ancora. Si preme con la mano sinistra, libera, il lino sul volto e lo rende a Veronica; poi, con pause di affanno e voce afona, dice: “Non piangete su Me, figlie di Gerusalemme, ma sui peccati vostri e su quelli della vostra città. Piangete sui figli vostri, perché quest’ora non passerà senza castigo e rimpiangerete d’aver concepito e allattato, e piangeranno le madri di quel tempo, perché in verità vi dico che sarà fortunato allora chi cadrà sotto le macerie per primo”.
   Il corteo fa ancora qualche metro. Con sempre maggiore difficoltà, nonostante la salita sia da questo lato più dolce.
   Il sole scottante del quasi mezzogiorno, e di un mezzogiorno temporalesco, deve fare soffrire molto Gesù battendogli sul capo scoperto e febbrile, esasperando le piaghe sotto la tunica di lana, aumentando la sua sete. Ma Egli tace. Barcolla come ubriaco e pare sempre prossimo a stramazzare, tanto che i soldati, per fare più presto e impedirgli di cadere, lo legano alla vita e per i due capi della corda lo tengono su, tirandolo a destra e a manca. Ma con poco utile e meno sollievo che mai, perché Gesù continua a barcollare e la fune gli sega la vita dove sono tante piaghe e urta nella croce, la quale per rimbalzo si sposta continuamente sulla spalla piagata e picchia nella corona spostandola continuamente e aumentando sgraffi a sgraffi e punture a punture. La fronte di Gesù ha un vero tatuaggio di ferite gementi sangue. Pare un lavoro di filigrana sparsa di scaglie di rubini. I capelli, là dove sono cinti dalla corona, sono appiccicati di sangue, crostosi; in essi si impiglia la corona e strappa. Tutto un tormento.
   Più oltre ecco Maria. È ferma contro il monte, addossata al terriccio della costa appena velata di erba corta e rada. Ma sta in piedi. Ha un volto di agonizzante, ma non manca di fortezza. Giovanni la sorregge per un braccio. Due o tre passi indietro è il gruppo delle Marie e di altre donne che non conosco.
   Maria va verso Gesù. I soldati la vorrebbero respingere per fare più in fretta a giungere alla cima. Ma in quel mentre il Centurione dall’alto del suo cavallo vede salire verso di lui, da una traversa, un uomo con un carretto tirato da un ciuco, carico di ortaggi. Sul carretto sono sdraiati due monelli. Si ferma e ordina che gli sia condotto, e quando l’ha vicino gli ordina di caricarsi della croce del Condannato e si volge per indicarglielo. Vede perciò Maria respinta dai soldati e ne ha pietà. Ordina sia lasciata avvicinare.
   Il Cireneo nicchia ma ha anche paura delle guardie romane e si rassegna a malincuore. Giunge presso Gesù proprio nel momento che Egli, curvo sotto il peso della croce, si volge vedendo la Madre e grida: “Mamma!”. È la prima parola che gli odo e che esprime invocazione, lamento, confessione di dolore. Vi è tutto in quel “Mamma!”.
   Maria vacilla, quasi quel grido l’avesse colpita al cuore come una pugnalata. Risponde con voce straziata: “Figlio!”. Niente altro. Ma quel lamento fende l’aria e i cuori meno crudeli. Vorrebbe anche – ne ha l’impulso ma si frena come temesse un più vivo scherno della folla che già insulta e deride – vorrebbe anche abbracciare il Figlio. Ma dopo aver teso le braccia le lascia ricadere e lo guarda soltanto.
   Ed Egli, torcendo il capo sotto il giogo della croce che lo schiaccia, guarda Lei. Due torture che si intrecciano, due amori che si parlano, due pietà che si compatiscono attraverso gli occhi lavati di pianto dell’Una e velati di spasimo dell’Altro.
   Il Cireneo sente qualcosa che si muove nel suo cuore di padre, e senza più esitare solleva con delicatezza la pesante croce e se la mette sulla spalla. E il corteo si rimette in moto.
   Maria con le pie donne non lo segue. Attende che passi e, sorretta da Giovanni, prende una scorciatoia per giungere alla cima prima che giunga il corteo.
   La contemplazione mi cessa qui.

   Sera di venerdì 18-2

   Fra generali e fortissime sofferenze termino di descrivere la contemplazione che è stata ed è la mia tortura di oggi.
   Quando il corteo dei soldati e dei condannati giunge sulla cima del Calvario, essa è già invasa dalla folla che vi si è riversata dalle scorciatoie per avere un buon posto per l’ultimo atto della tragedia. Ma i soldati respingono la folla usando di piatto le daghe e rendono libera la vetta.
   Questa ha la forma di un trapezio molto irregolare ed è lievemente in salita, di modo che il lato più alto e stretto strapiomba poi per la pendice. Non riesco a capire il punto cardinale perché il sole cade a perpendicolo, dato che è mezzogiorno, e non mi oriento.
   La piccola piazza che è destinata ai supplizi è fatta dunque così:


   

   Il lato A è il più alto ed è verso questo che ci sono i buchi delle croci. Questi non sono scavati al momento, ma sono come costruiti: buchi fondi un buon metro e tappezzati di mattoni, se non erro, o di ardesie per renderli più resistenti. Vicino ad ognuno vi sono pietre e terra, non so per che uso. Vi sono altri buchi, ma in questi sono ancora pietre nel buco; forse servono per quando i condannati sono molti.
   Le due strade che conducono alla cima sono dove ho fatto la freccia: f, e la linea quadrettata: e. La linea quadrettata e è la strada lastricata e più ripida che hanno dovuto abbandonare per la debolezza di Gesù, e si capisce che è quella solitamente usata per condurre i suppliziandi al posto dell’esecuzione. La strada f è invece quella ad uso della folla che va ad assistere alle esecuzioni. Ma questa volta è stato invertito l’ordine solito.
   Lungo il lato D del trapezio, e più basso di questo di circa due metri, vi è come un largo bastione naturale: una seconda piazzuola più bassa e digradante dolcemente, molto comoda agli spettatori macabri. Vi si accede tanto dalla strada e come dalla strada f. Anche ai lati C e B vi è una specie di largo marciapiede, di modo che il trapezio della cima è come un palcoscenico visibile da tre lati. Solo sul lato A scende ripido senza gradini.
   È su questa piazzuola che i soldati respingono la folla che ha invaso la cima. Sono i soldati a piedi quelli che fanno questo servizio. Quelli a cavallo circondano i condannati e aspettano che la cima sia liberata.
   Sullo spiazzo più basso, presso il punto che segno con la lettera h, sono in gruppo Maria, Giovanni e le Marie. Vicine, ma un poco più là, il gruppo delle donne di Gerusalemme ridotto a 5 donne. Non c’è più la Veronica con la sua ancella.
   I giudei che sono sulla cima scoprono il gruppo dei galilei e si dànno ad insolentire: “Galilei! Galilei! A morte i galilei! Morte al Nazareno bestemmiatore!”. Non hanno pietà neppure della Madre. Giovanni la sostiene circondandola di un braccio come per difenderla e lancia qua e là, egli, il mite Giovanni, degli sguardi in cui al dolore si mescola la minaccia verso i vili insultatori. Poi arrivano i soldati e respingono tutti giù dalla cima.
   Il Centurione smonta da cavallo e smontano gli altri. Un soldato prende le briglie dei cavalli, le annoda e porta il gruppo delle bestie dietro il costolone del monte, lato B, all’ombra del medesimo. Gli altri si avviano verso la piazzuola superiore. Mentre il Centurione sta per passare, le donne di Gerusalemme si avvicinano e la più influente gli dà l’anfora che ha seco e, mi pare, anche una borsa con del denaro, forse perché sia mite verso il Morente. Non so.
   Gesù passa ancora una volta sotto lo sguardo angosciato della Madre e sale sulla piazzuola più alta, che i soldati circondano subito di un quadrato di milizia messo lungo l’orlo della stessa. Al centro sono i tre condannati e il Cireneo con la croce di Gesù. Il Centurione dà ordine allo stesso di deporre la croce e di andarsene. I due ladroni hanno già scaraventato al suolo le loro.
   Non so da dove sbucati, appaiono quattro nerboruti ceffi vestiti di corte tuniche, armati di funi e di chiodi che me li significano per essere i boia destinati alla bisogna.
   Il Centurione offre a Gesù l’anfora perché beva prima d’essere crocifisso. Ma Gesù scuote il capo. Non ne vuole. Bevono invece i due ladroni.
   Viene dato l’ordine ai condannati di levarsi le vesti. I due ladroni lo fanno liberamente, imprecando. I boia dànno ad ognuno un sudicio straccio perché se lo leghino all’inguine.
   Lo offrono anche a Gesù che si spoglia con mosse lente, per lo spasimo delle ferite e del suo pudore offeso. Ma la Madre ha già prevenuto il gesto dei carnefici e, levatosi il velo bianco, sfilandoselo da sotto il manto senza levare questo dal capo, lo fa dare da Giovanni al Centurione perché lo passi a Gesù. Cosa che Longino fa senza recalcitrare.
   Gesù, dopo essersi slacciato i sandali e sfilato le vesti, quando giunge a doversi denudare del tutto si volge verso il lato A del trapezio, dove sono unicamente i soldati, per non mostrarsi nudo alla folla. Appare così la schiena tutta rigata di lividi e vesciche bluastre e di piaghe aperte o dalle croste sanguinose. Quella sulla spalla destra è larga quanto una mano ed è tutta viva di sangue. Ma nel chinarsi per mettere le vesti al suolo, anche altre piaghe dalla crosta appena saldata si riaprono e, caduto il coagulo che le copriva, sangue fresco ne sgorga di nuovo.
   Il Centurione offre il velo di Maria a Gesù. Ed Egli, che lo riconosce, se lo avvolge, questo lungo e sottile velo di Maria, a più riprese intorno al bacino assicurandolo bene perché non possa cascare. Poi si volge verso la folla e si dirige alla croce.
   Ora si vede che anche il petto, le braccia, le gambe, sono segnati dai colpi dei flagelli. Le ginocchia sono sanguinanti per le cadute. È tutto una ferita. E mancano ancora le più crudeli.
   Egli è l’ultimo ad essere messo sulla croce. Prima vengono legati alle rispettive i due ladri, fra bestemmie e ribellioni oscene. Poi è la volta di Gesù. Egli si stende mite sul suo legno. Mette il capo dove gli dicono di metterlo, apre le braccia come gli dicono di farlo, stende le gambe come gli ordinano. Ora è una lunghezza bianca sul marrone chiaro della croce e sul giallastro del suolo.
   I carnefici vengono a Lui. Due gli premono sul petto per impedirgli di reagire. Uno gli prende il braccio destro: una mano sul principio dell’avambraccio e una che tiene le dita. Osservano se corrisponde il carpo al buco fatto nella croce. Va bene. L’altro appoggia il lungo chiodo, lungo e molto grosso, dalla punta acuminata e dalla testa larga come un soldone dei tempi passati, sull’inizio del palmo, alza il pesante martello e dà il primo colpo. La punta del chiodo penetra nella carne viva, perfora l’osso, lede i nervi.
   Gesù ha un grido e una contrazione. Non si aspettava quel colpo così immediato, o non ha saputo frenare lo spasimo. Risponde un gemito di creatura torturata. È Maria, che si porta le mani al viso e si curva come piegata da un peso inumano. Gesù non grida più. Si sentono solo i colpi del ferro contro il ferro. La mano destra è inchiodata.
   Passano alla sinistra. Non corrisponde col suo carpo al foro. Allora dànno di piglio alle funi, legano il polso e tirano fino a strappare i tendini e i muscoli ed a slogare le giunture. Ma non arriva ancora. Si rassegnano ad inchiodare dove possono. Il chiodo entra nel metacarpo con più facilità ma con maggiore spasimo perché recide i nervi. Pure Gesù non grida più. Per non torturare col suo grido la Madre. Ha soltanto un lamento soffocato dalla bocca fortemente serrata.
   Ora è la volta dei piedi. Alla croce è stato fissato da prima un piccolo cuneo che è destinato ad essere di puntello ai piedi e di maggior presa al chiodo, che è ancora più lungo di quello delle mani e più grosso. Gesù, che non grida ma è tutto una contrazione di spasimo, ha il moto istintivo di ritirare le gambe quando comprende che stanno per essere inchiodate. Ma poi si abbandona ai carnefici. Sotto il piede sinistro e sopra il destro. Uno dei boia preme sui malleoli per tenerli fermi e preme verso le dita per tenere appoggiati i piedi, bene aderenti al cuneo. E il chiodo entra faticosamente nell’uno e l’altro piede dove ha inizio il tarso.
   Gesù vibra di spasimo. Maria ad ogni colpo del martello ha un soffocato gemere di colomba torturata e sta tutta curva, come fosse fra doglie di morte. Ne ha ragione, perché la crocifissione è tremenda. Ogni colpo sembra che entri col suo chiodo nel cuore.
   Ora è terminata. Viene per prima issata la croce di Gesù. Nelle scosse impresse per alzarla Egli deve soffrire atrocemente, perché esse smuovono gli arti perforati intorno al ferro del chiodo; le ferite devono bruciare come fuoco vivo. Anche la corona ha urti e si sposta e preme in nuovi posti.
   Ma quando poi la croce viene alzata, trascinata sino al buco e lasciata cadere in esso, la sofferenza di Gesù cresce in atrocità. Tutto il peso del corpo gravita ora in avanti e verso terra e quando vi è l’urto del legno contro il fondo del buco le mani si squarciano, specie la sinistra, e si allarga anche il foro dei piedi e sangue cola da tutti i lati, mentre tutto il corpo riceve una forte scossa che lo rintrona.
   Con la terra e le pietre messe al fianco del foro i carnefici assicurano la croce, la rincalzano per bene, premono il suolo. Poi issano i ladroni. E l’agonia finale comincia.
   La folla urla e impreca, non tanto ai ladri quanto a Gesù. Mostra i pugni, lo maledice, lo schernisce. In basso, i soldati si dividono le spoglie dei condannati e per ingannare il tempo giuocano a dadi la tunica. Poi continuano a giocare come niente fosse.
   Longino no. Guarda. Nel guardare intorno vede Maria nel suo cantuccio del balzo sottostante e dà ordine che sia fatta salire, se lo desidera, “col figlio che l’accompagna” – dice così Longino – presso la Croce. Crede che Giovanni sia un secondo figlio e fa il profeta senza saperlo. E Maria valica con Giovanni il cordone dei soldati. Lei sola e Giovanni. Maria Maddalena, Maria di Cleofa, Maria di Zebedeo e le altre restano dove sono.
   La Mamma, sorretta da Giovanni, va alla sua gloriosa berlina. Il popolo non la risparmia, e non la risparmia il ladro cattivo. Disma no. La Grazia comincia ad operare in lui. Non impreca più. Dalla sua croce guarda, osserva Gesù, riflette.
   Le croci sono messe così:
   

page7image1531688224

   Maria è fra la croce del Figlio e quella di Disma, volta verso Gesù di cui nota ogni fremito e ne muore.
   Gesù parla ben poco. Anela. Il suo corpo cerca trovare una posizione di sollievo, alleggerendo il peso che grava sui piedi sospendendosi alle mani e facendo forza di braccia. Ma dopo pochi minuti le ferite alle mani ed il peso del corpo lo obbligano a riabbandonarsi sui piedi.
   Vedo le gambe scosse da quel tremito che prende i muscoli quando sono tenuti in una posizione scomoda, sforzata, ed obbligati ad una fatica superiore alle loro possibilità. Le dita dei piedi si arcuano alternativamente verso il dorso e la pianta, si divaricano, si riuniscono, parlano, con le loro mosse, del loro spasimo.
   Le mani e le braccia pure hanno dei tremiti, specie la destra. La sinistra è ripiegata su se stessa, come [se] tutti i nervi delle dita fossero spezzati. Ogni volta che Gesù si lascia ricadere sui piedi, la lacerazione del metacarpo sinistro si allarga verso il pollice.
   Ma quello che è straziante a vedersi è il moto del torace, del tronco. Le coste, molto alte per conformazione e per la posizione assunta sulla croce, si disegnano sotto la pelle maculata dai flagelli e tesa nello sforzo della posizione e nell’ansito affannoso. Ma non si dilatano ancora abbastanza per dare sollievo alla pletora di sangue dei polmoni e del cuore. E anche l’addome stirato, incavato, di quel povero corpo snello e piuttosto magro, va su e giù come un velo che sbatte.
   Il diaframma ha fremiti che si ripercuotono a tutto il tronco e sono visibili sotto l’arco costale, fortemente più alto della linea diaframmatica. Si vede l’urto della punta del cuore propagarsi da sotto la mammella sinistra sin verso la milza e la linea mediana del petto.
   Le reni sono fortemente incavate nello sforzo della posizione e la schiena aderisce perciò fortemente colle ossa del bacino e con le scapole.
   Il collo dal giugulo sprofondato ha per compenso le carotidi gonfie e bluastre, e rossore di congestione monta al capo su cui il sole picchia liberamente, inietta gli occhi di sangue, fa le labbra tumide e fin violacee tanto sono accese sotto le loro sanguinanti screpolature. Il labbro superiore ha la crosta della ferita, avuta appena catturato, e dallo zigomo destro al naso è una grande lividura ed enfiagione che fa parere fin deviato il naso e semichiuso l’occhio.
   La corona di spine deve essere torturante. Ogni tanto Gesù si appoggia col capo al legno, specie quando cerca di far forza sui piedi per sollevare lo spasimo delle mani. E allora le spine penetrano nella nuca.
   Oh! non si può vedere tutto ciò!…
   La sete deve essere fortissima. Il Salvatore, che per l’ansito respira con la bocca socchiusa, ogni tanto tenta umettarsi le labbra arse con la lingua. Ma è asciutta anche questa.
   Pure trova il modo di pregare il Padre che perdoni a tutti: “Padre, perdona loro”.
   Questa preghiera, detta fra tanto martirio per chi lo martirizza, scuote Disma. È il colpo finale della Grazia. Egli non può più neppure sentire le bestemmie dell’altro ladro e lo rimprovera, e si raccomanda a Gesù che riconosce Signore. E Gesù, volgendo a fatica il capo stanco, trova ancora un sorriso per confortarlo e promettergli il Cielo: “Oggi sarai meco in Paradiso”.
   Il cielo si incupisce sempre più. Ora nel caldo afoso vengono ventate fredde che passano rapide, ad intervalli, portandosi dietro un codazzo di nubi livide. Gesù appare ancora più livido nella luce verdognola che precede il temporale. La testa gli si china sul petto, le forze vanno mancando rapidamente.
   Vede sua Madre ai piedi della Croce con Giovanni. “Donna, ecco tuo figlio. Figlio, ecco tua Madre”.
   Maria raccoglie questa eredità del suo Gesù con un volto di martire. Ma si sforza di non piangere, di resistere, per dare coraggio al suo Gesù e non straziarlo col suo pianto.
   Le sofferenze crescono di minuto in minuto. La soffocazione si fa più intensa e più vivo l’affanno cardiaco. Il tetano comincia la sua opera paralizzante e spasmodica. Gesù muove la bocca con maggior fatica; le mascelle si induriscono. La schiena si curva più ancora. Il moto respiratorio è sempre più inceppato e il torace resta dilatato senza riuscire a ridursi nell’espirazione.
   La luce decresce rapidamente dando difficoltà di seguire gli spasimi del Morente. Solo chi è presso la Croce, come Maria, Giovanni e il Centurione, li vedono bene.
   A gran fatica, puntandosi ancora una volta sui piedi, tendendosi quasi per offrirsi, per muovere a compassione il Padre con l’esposizione di tutte le sue piaghe e della sua angoscia, lottando contro le mascelle contratte, le fauci arse, la lingua enfiata, le labbra indurite dalla secchezza, Egli grida: “Dio mio, Dio mio (Eloi, Eloi), perché mi hai Tu abbandonato?”.
   Ma nessuna luce viene dal Cielo. È l’agonia senza conforto soprannaturale. L’agonia della vittima, della Grande Vittima.
   Ora c’è un’oscurità come di prima notte. Gerusalemme scompare avvolta in nubi di polvere sollevata dal vento e nelle tenebre di una notte precoce. Il sole non c’è più. Pare morto. Mi sembra d’essere nella luce vista[145] nella contemplazione della risurrezione finale: una luce di astri spenti, una non luce.
   Gesù geme: “Ho sete”. Anche il vento lo tortura asciugandogli più ancora la bocca e impedendogli il respiro col suo violento soffio che gonfia i polmoni incapaci di reagire.
   Un soldato va ad un vaso, una specie di mortaio, dove è l’aceto col fiele, inzuppa una spugna e la alza su una canna sino al Morente, il quale apre avidamente la bocca, per quanto può, si tende in avanti, sporge la lingua, per avere un refrigerio. Trova il mordente dell’aceto per la bocca ferita e l’amaro del fiele per ultimo disgusto. Si ritrae ripugnato, accasciato. Si abbandona.
   Ora tutto il peso del corpo gravita sui piedi e in avanti. Solo le anche aderiscono alla croce. Dal bacino in su è tutto staccato dal legno. La testa pende in avanti e anela, anela con ansiti sempre più profondi, ma sempre più staccati. L’addome è già fermo. Solo il torace ha ancora dei sollevamenti. La paralisi polmonare si estende.
   Egli sente la morte e dice: “Tutto è compiuto!”. Lo dice con infinita rassegnazione.
   Un attimo di silenzio e poi, mormorata come intima preghiera: “Padre, nelle tue mani raccomando lo spirito mio”. Ancora un silenzio.
   Poi, alla luce crepuscolare, si vede l’ultimo spasimo di Gesù. Una convulsione che sale per tre volte dai piedi e corre per tutti i poveri nervi torturati, che alza per tre volte l’addome, poi lo lascia, ed esso si affloscia come svuotato, contrae e gonfia per tre volte, smisuratamente, il torace, scuote le braccia, fa rovesciare indietro il capo che percuote un’ultima volta contro il legno la nuca coronata, contrae i muscoli del volto, fa dilatare le palpebre sotto la loro crosta di polvere e sangue.
   Resta per un buon minuto così: teso, tremante, arcuato; poi, con un grido che lacera l’aria, un grande grido, in cui è l’inizio di una parola: “Mamma”, Egli muore. La testa ricade sul petto, il corpo in avanti, il fremito cessa e cessa il respiro. È spirato.
   La terra risponde al grido dell’Ucciso col suo boato mentre il vento fischia, i fulmini rigano il cielo, il terremoto scuote il suolo. Pare che sia la fine del mondo. La gente urla di terrore e si abbranca l’una all’altra.
   Maria, finito il suo compito santo, cede Essa pure, e Giovanni la adagia ai piedi della Croce.
   I soldati si interrogano. Possibile sia già morto? Non si muore così presto, di solito.
   Mentre la folla fugge presa da terrore, rimanendo sul monte solo i soldati, Maria, Giovanni e le Marie, Longino dà la lanciata a Gesù, da sotto in su, da destra verso sinistra. Ma Egli è ben spirato. Non si muove. Geme solo siero e sangue. Geme. Non sgorga a fiotti, a nappo, come avrebbe dovuto accadere se si fosse ferito un cuore vivo. Manca il respiro e il battito per dare impulso al sangue ed esso, già separato, scola lentamente dalle carni che si raffreddano rapidamente.
   Sta col capo profondamente piegato sul petto, ed i capelli piovono in avanti velandolo. Lividore di carni su cui ondeggia il velo di Maria, alzato contro un cielo di pece sull’altare del Golgota a cui fanno da candelieri le croci dei due ladri ancora vivi. È una visione uguale a quella[146] che per più mesi mi fu presente nella primavera del 1942.
   Vengono due giudei a parlamentare col Centurione. Gli chiedono il corpo. Longino chiama un soldato e lo manda a cavallo da Pilato per essere ben sicuro che il permesso è stato dato dal Pretore ai due giudei. Il soldato torna rapidamente. È vero.
   I carnefici fanno per salire sulle scale a schiodare il Cadavere. Ma Giuseppe e Nicodemo non permettono. Si levano i mantelli e salgono loro sulle scale con tenaglie e leve.
   Schiodano prima il palmo sinistro. Il braccio cade lungo il Corpo che pende ora semi-staccato. Chiamano Giovanni perché aiuti.
   I soldati sono andati via. I due ladroni, con le gambe spezzate, moriranno da loro. Non c’è più nulla da fare per le milizie. Esse si rimettono in drappello e si allontanano mentre i discepoli depongono Gesù dal suo patibolo.
   Dopo il braccio sinistro, mentre Giovanni montato su una scala sorregge il Corpo abbandonato di cui ha passato il braccio schiodato intorno al suo collo – e perciò vedo benissimo l’orrenda lacerazione della mano sinistra che sembra colpita da una pallottola esplosiva tanto è lacerata irregolarmente – e lo tiene così puntellato fra la croce e la sua spalla, e Gesù ha la testa curva sul capo del Prediletto come gli parlasse ancora fra i capelli, Giuseppe e Nicodemo schiodano i piedi.
   Maria è circondata dalle donne fedeli e, seduta al suolo, appoggia se stessa alla Croce.
   Schiodati i piedi, passano al braccio destro. È molto faticoso perché il Corpo[147] semi-staccato, nonostante gli sforzi di Giovanni, gravita in avanti, e la testa del chiodo quasi scompare fra i margini della ferita che si è enfiata, in quelle tre ore, facendo orlo. Finalmente ci riescono e con cura, Giovanni abbracciando fortemente Gesù verso le ascelle, e Giuseppe e Nicodemo sorreggendolo per le cosce, calano il Corpo.
   Giunti a terra, cercano dove adagiarlo. Ma la Madre lo vuole. Il suo grembo è pronto a riceverlo. Ha aperto il manto e sta con le ginocchia piuttosto aperte perché siano sedile più ampio al Figlio suo. La testa di Gesù spenzola mentre i discepoli si muovono e le braccia pendono verso terra.
   Eccolo dato alla Madre. Maria se lo appoggia contro la spalla, tenendolo col braccio destro contro il petto e col sinistro sorreggendolo alle anche. La testa di Gesù ora appoggia come se Egli fosse dormente sulla spalla della Madre, fra la spalla e il collo. Pare un bambino che si sia rifugiato in collo alla Madre. E Lei lo chiama, lo chiama… Poi lo stacca dalla sua spalla e, sorreggendolo sempre con il braccio destro, lo carezza con la sinistra, ne raccoglie le mani, gliele stende in grembo, le prende, le bacia e geme sulle ferite. Carezza le guance, lo bacia sui poveri occhi, sulla bocca socchiusa e enfiata, sulla fronte, e incontra le spine.
   I discepoli e le discepole vorrebbero aiutarla. Ma Lei non vuole. Geme: “No, no. Io, io!…” e si punge nel districare le spine dai capelli e singhiozza sentendo quelle spine che da almeno sette ore martirizzano il capo di Gesù. La corona è levata finalmente.
   La mano di Maria, che trema come presa da febbre, ravvia le ciocche sanguinose. Il pianto cade sul Volto, sul Corpo del mio Signore. E Maria, con un lembo del suo velo, che è ancora ai lombi di Gesù, lo deterge e asciuga levando così la polvere e le macchie che deturpano quel Viso e quel Corpo adorabile.
   Ma nel fare quella pietosa bisogna, la mano di Maria incontra lo squarcio del costato. Le sue dita entrano insieme al lino sottile in quella ferita. Maria, nella semiluce che appena sta tornando, si china a guardare e vede… Vede il petto aperto e il cuore del suo Figlio attraverso il taglio crudele. E urla ora la Madre. Un urlo di creatura sgozzata. È l’Agnella anche Lei e la spada le ha dato il colpo finale. Si abbatte sul corpo del Figlio e sembra morta Lei pure.
   Poi le levano il Morto divino e lo avvolgono in un telo prendendolo per le spalle e per i piedi e, mentre le donne sorreggono Maria – portando anche la corona, i chiodi, la spugna e la canna, tutto quanto hanno potuto prendere seco – Giovanni, Nicodemo e Giuseppe scendono trasportando Gesù verso il suo sepolcro.
   Sul monte restano le tre croci, di cui una è ormai nuda.
   La visione mi cessa qui.

[144] l’altra contemplazione di venerdì 11, riportata sotto la data dell’11-12 febbraio e che finisce con le parole: “La visione mi si cristallizza qui…”. Ora prosegue con altre scene della Passione (Matteo 27, 31-60; Marco 15, 20-47; Luca 23, 26-54; Giovanni 19, 17-40) che nel 1945 avranno una nuova stesura molto più particolareggiata, tanto da formare più di un capitolo dell’opera maggiore.
[145] vista il 29 gennaio.
[146] uguale a quella… come la scrittrice ha già riferito in data 13 maggio 1943.
[147] il Corpo potrebbe leggersi anche il Capo