MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MINORE

A A A

QUADERNI DEL 1944 CAPITOLO 260


19 febbraio 1944

   [Precedono i brani 1-4 e 15 del capitolo 610 dell’opera L’EVANGELO]

   Giuseppe[148] spegne una delle torce che aveva acceso per vedere meglio nel sepolcro, dove già è molto scuro, e si avvia alla porta, all’apertura, tenendo accesa una sola torcia, con la quale si fa lume mentre insieme a Nicodemo fa scorrere la pesante pietra del sepolcro al suo posto.
   Maria, sorretta da Giovanni, singhiozza più forte. Ora Gesù è solo nel suo sepolcro, in mezzo all’ortaglia silenziosa e già un poco scura.
   Il gruppo si riunisce. E per poca via giunge alla casa da cui solo ieri sera erano partiti gli apostoli con Gesù vivo e bello. En­trano Maria, Giovanni e le donne. Mi ricordo ora di aver sempre dimenticato di dire che una delle donne del gruppo pietoso era la padrona di casa. Giuseppe e Nicodemo si ritirano.
   Maria entra nella stanza dove ventiquattr’ore prima era con Gesù. E piange. Le donne la confortano e Giovanni anche. Ma non c’è nulla che la conforti. Ha nelle mani il suo velo bruttato di sangue, e di quel Sangue, e lo bacia. Ha di fronte, su un tavolo, la corona di spine ed i chiodi e pochi altri oggetti appartenuti alla Passione, fra cui i batuffoli con cui furono strofinate le membra nel sepolcro e il lenzuolo su cui fu portato al sepolcro. È tutto quanto le resta del Figlio.
   Le donne la lasciano sola, e così Giovanni, poiché Ella lo chiede.
   Maria, in ginocchio, piange e prega col capo appoggiato contro quei pochi oggetti. Ogni tanto la tortura del dolore, del ricordo, della solitudine, deve farsi più acuta, perché Ella chiama il suo Gesù e gli parla come fosse presente, rievoca i tempi passati quando Egli era il suo Bambino, il suo conforto, la sua compagnia. È tutta la vita familiare di Gesù che scorre fra i frammenti rievocati dalla Madre.
   Ella lo sa bene che risorgerà, lo crede poiché Egli l’ha detto ed Ella lo ha compreso. Ma intanto Egli è morto, Egli non c’è. Ella è sola col suo ricordo di strazio.
   “L’avessero lasciata nel sepolcro con Lui, si sarebbe sentita meno desolata. Avrebbe atteso di vederlo risorgere vegliandolo come quando era bambino. Più pesante questo sonno di morte e diverso il letto. Ma per Lei sarebbe stato ripetere un gesto fatto tante volte presso la cuna e l’avrebbe ninnato, non con la dolce ninna-nanna di allora, ma colle sue preghiere perché il Sacrificio fosse fruttuoso a tutti gli uomini, e colle sue parole d’amore e col suo perdono per gli uccisori. L’avessero lasciata! Si sarebbe seduta là, vicina a Lui, e le sarebbe sembrato di vederlo ancora nelle fasce, come allora”.
   E lo strazio, dopo una pausa di ricordo velata di sorriso, ritorna più forte “perché si ricorda in che fasce è stretto il Figlio suo, perché si ricorda di che ferite esse son velo”.
   E torna a rievocare “quando era piccino e cadeva, quando cominciò a lavorare e si feriva, che Lei tremava nel vedere il suo sangue, le sue piccole lividure, le sue lievi lacerazioni, e le medicava col suo bacio e non si quietava che quando capiva che il piccolo dolore era passato. Ed ora, ed ora… Ora lo hanno ferito così, percosso così, trafitto, pestato, punto, scorticato così. E nessuno ha avuto pietà, e nessuno l’ha medicato, e nessuno gli era vicino a carezzare là dove altri colpiva! Oh! se ci fosse stata Lei, Lei almeno sempre vicina! Lei che, anche prima di saperlo da Giovanni, aveva già saputo della cattura, delle prime percosse, delle sassate, degli urti, degli sputi, dei ceffoni, delle funi, Lei che, nonostante il pietoso velo gettato da Giovanni sulla verità dei tormenti, sapeva, sapeva cosa succedeva al Pretorio. Non aveva il cuore rigato, punto, percosso dai flagelli, dalle spine, dai calci, dai pugni dei crudeli che avevano flagellato, coronato, colpito il suo Gesù? Ma sì che lo aveva! E se il cuore della sua Creatura si era spezzato per la sofferenza patita dalle carni, le sue carni erano spezzate dalla sofferenza patita dal suo cuore materno”.
   Tutto ha condiviso la Madre: la sete, la febbre, i flagelli, le spine. E le accuse e le offese, e le bestemmie. E poi, e poi… “sul Calvario… non poterlo aiutare, non potergli dare una goccia d’acqua, Lei che gli aveva dato tanto latte, non poterlo sorreggere nell’estreme ore, Ella che l’aveva sorretto ai suoi primi giorni, non potergli tenere il capo perché non urtasse contro quel legno, ma trovasse il cuore della Mamma per guanciale, per spirarvi sopra meno atrocemente”.
   È un’agonia spirituale non meno penosa di quella fisica del Cristo. Io ne sono spezzata. Come farà a vivere anche poche ore senza di Lui? Maria lo chiede a se stessa, alle cose che hanno toccato il suo Gesù, che son bagnate del suo sangue e del suo sudore di morte, lo chiede a Dio…
   “Come ha potuto permettere tante sevizie lasciandolo solo, solo, solo sulla sua croce? Lui, il Padre, così santo e buono, come ha potuto resistere al grido di quel cuore, che moriva anche del dolore di non sentirsi più aiutato dal Padre? Il ricordo del cuore la riporta alla ferita del costato. Ne cerca il segno sul suo velo. Ecco l’impronta delle sue dita, penetrate col lino nello squarcio tremendo. Eccole qui. Lei ha toccato senza volere il Cuore della sua Creatura! Il Cuore del suo Dio! Ma quel Cuore era morto! Morto! Morto!”.
   Maria grida quella parola in un parossismo di dolore. E chiama Dio: “Padre, Padre, pietà! Io ti amo! Noi ti abbiamo amato e Tu ci hai tanto amato. Come hai permesso fosse ferito il cuore del nostro Figlio?”.
   Ma si sovviene che ormai Egli era morto e che perciò non ha sofferto di quella ferita. E allora benedice la bontà di Dio che l’ha risparmiata al suo Gesù. “Questa, questa almeno non l’hai sentita, Figlio mio. Io sola l’ho sentita, nel mio, quando ho visto il tuo cuore aperto. Ora è nel mio la tua lancia e fruga e strazia. Ma meglio così! Tu non la senti. Ma Gesù, pietà! Un segno di Te, una carezza, una parola per la tua Mamma dal cuore straziato! Un segno, un segno, Gesù, se vuoi trovarmi viva al tuo ritorno!”.
   Un picchio alla porta di casa empie il silenzio della casa dove solo grida il dolore di Maria. E un altro picchio più tenue all’uscio della stanza.
   Entra Giovanni. Parla a Maria, sottovoce. Ella annuisce. Si ricompone. Si volge verso la porta.
   Entra Veronica con la sua ancella. Si inginocchia di fronte a Maria che è seduta, ora. Nel vano della porta si affollano le donne fedeli. Giovanni è in piedi dietro il sedile di Maria e le tiene una mano sulla spalla, passandole il braccio sinistro dietro la schiena, come per sorreggerla. Veronica, dal cofanetto che l’ancella, pure inginocchiata, tiene fra le mani, estrae il lino e lo spiega.
   Il Volto vivente del Cristo è sulla tela. Un volto doloroso, ma ancora vivo nell’espressione, negli occhi aperti, nella bocca lievemente sorridente con dolore. Maria stende le braccia con un grido a cui fanno eco quelli delle donne.
   Veronica dà alla Madre il sudario. È giusto sia della Madre. E, delicata, si ritira con la sua ancella.
   Il segno è venuto. Un nulla nel mare di dolore che la sommerge, ma quel tanto che basti a non farla morire.
   La contemplazione mi lascia così, col volto di Maria appoggiato sul Volto del Cristo impresso nel sudario.

[148] Giuseppe è Giuseppe d’Arimatea. La scena che inizia qui sarà completata dal “dettato” del 3 giugno. L’una e l’altro saranno di nuovo trattati il 28 marzo 1945 in una più ampia “visione”, che formerà il capitolo 611 dell’opera maggiore.