MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MINORE

A A A

QUADERNI DEL 1944 CAPITOLO 262


21 febbraio 1943

   Per tutto il giorno ho la vista di Gesù crocifisso e di Maria e Giovanni ai piedi della croce.
   Questa mattina, quando facevo la S. Comunione, mi pareva d’essere da­vanti ad un vivo altare perché Essi erano lì e mi guardavano col loro sguardo di soprannaturale amore. Cosa sia una Comunione fatta così è cosa indescrivibile.
   Verso sera, poi, ho cominciato a sentire in me questa frase: “Non era questa l’unzione che speravo doverti preparare”. Detta da una voce di donna. Una voce piena, calda, dai toni di contralto, una voce appassionata. Non è la dolce voce di Maria, giovanile, pura, verginale nei suoi toni bianchi di soprano.
   Comprendo che è un nuovo essere che parla, ma non gli so dare un nome e un volto sinché non mi si presenta la visione.
   Vedo ancora la stanza dove Maria piange nella casa ospitale. Ella è ancora là, sul suo sedile, accasciata, sfinita, sfigurata dal gran piangere.
   Anche le donne sono là. E alla luce di lucerne ad olio preparano degli aromi, mescolandoli, dopo averli presi da diverse anfore, in un mortaio e poi rimettendoli in vasi dalla bocca ampia, facile ad essere frugata dalle dita per estrarne i balsami.
   Le donne lavorano piangendo. E Maria Maddalena, che ha il viso segnato dal pianto come da una bruciatura, dice quelle parole che fanno piangere più forte tutte le donne.
   Poi, quando hanno finito di preparare tutto, si avvolgono negli scialli o nei manti. Anche Maria si alza. Ma esse le si affollano d’intorno persuadendola a non venire. Sarebbe troppo crudele farle rivedere il Figlio che certo, all’alba del terzo giorno di morte, è già tutto nero di putrefazione, contuso come era. E poi Ella è troppo sfinita per poter camminare. Non ha fatto che piangere e pregare. Mai cibo, mai riposo. Che resti quieta e si affidi a loro. Esse faranno con amore di discepole la parte della Madre dando a quel Corpo santo tutte le cure che si richiedono per una definitiva composizione per la sepoltura.
   Maria si arrende. La Maddalena, inginocchiata ai suoi piedi, ma rilassata sui calcagni, nella sua posa abituale, le abbraccia le ginocchia e la guarda col suo volto bruciato dal pianto e le pro­mette che dirà a Gesù tutto l’amore della Madre mentre lo imbalsamerà ancora. Ella sa cosa è amore. È passata dal vile amore all’amore santo per la Misericordia vivente che gli uomini hanno ucciso, e sa amare. Gesù glielo ha detto sin dalla sera che fu il mattino della sua nuova vita, che ella sa molto amare. Si fidi di lei, la Madre. Ella, la redenta che ha saputo accarezzare allora i piedi di Gesù così dolcemente, saprà ora accarezzarne le ferite e imbalsamarle, più con l’amore che coll’unguento, perché la Morte non possa intaccare quelle Carni che tanto amore hanno dato e che tanto ne ricevono.
   La voce della Maddalena è piena di passione. Pare un velluto che avvolga un organo, tanto ha voce d’organo ammorbidita da tonalità calde e passionali. Vi si sente un’anima che freme. Che ha saputo fremere. Che doveva fremere e amare. E che, ora che Gesù l’ha salvata, sa fremere e amare per l’Amore divino. Non dimenticherò questa voce di donna che è una confessione della psiche di questa donna. Non la dimenticherò più.
   Le donne escono portando una lucerna. La casa è tutta buia e anche la via è buia. Vi è appena un accenno di luce, là, in fondo, ad oriente. La luce freddina e pura di un’alba d’aprile. La via è silenziosa e deserta. Le donne, tutte avvolte nei loro manti, vanno senza parlare verso il Sepolcro di Gesù.
   Io non vado con loro. Torno da Maria. Gesù mi fa tornare da Lei.
   Ella, ora che è sola, si è rimessa a pregare, in ginocchio contro il velo della Veronica che è steso lungo il lato di una scansia, tenuto fermo dal lenzuolo funebre e dai chiodi. Ella prega e parla al suo Figlio. È sempre e ancora lo stesso affanno. Mescolato ad una speranza che la fa ansiosa.

   [Seguono i brani 12-16 del capitolo 616 e gli interi capitoli 618 e 620 dell’opera L’EVANGELO]

   Come lei può capire, mentre Gesù faceva il commento alla visione dell’incontro con la Madre dopo la Risurrezione, mi dava nel contempo la vista della sua Risurrezione nel sepolcro e dell’incontro con la Maddalena. Ne sono tutta beata. Immersa nella luce del Cristo risorto, gioiosa, pacifica luce!
   Potrei darle il quaderno, perché a vista umana “tutto è compiuto”. Ma il Maestro mi dice che vi è ancora una cosa da unire. E aspetto.
   Poco più tardi dico a Gesù: “Che gioia, Signore, non vederti più soffrire in quel modo e vedere sorridere la Mamma!”.
   Ed Egli:
   «Ma non ti abbandonare a questa dolcezza. Non è questo pane che devi mangiare. Ma quello del dolore del tuo Dio e delle lacrime di Maria. Ho dovuto anticipare questa vista per fare il regalo promesso. Ma è tempo di dolore e devi contemplare il Dolore. Il Padre M. ha desiderato avere tutto questo per Pasqua. Ma Io voglio sia preparazione alla Pasqua per lui e per molti. Perciò digli che quando lo avrò completato con l’ultimo punto, questo mio dono, egli deve lasciare in tronco qualunque altra cosa che abbia per le mani e dedicarsi a questo. Perché sia distribuito in tempo. Così Io voglio

   Dunque: Mi pareva d’essere portata dalla volontà di Dio nella fresca ortaglia dove sorge il Sepolcro. Davanti ad esso, la cui pesante pietra era stata murata e sulla calcina apposti i sigilli – parevano larghi rosoni impressi nell’intonaco e non avrebbero potuto esser rimossi senza che apparisse l’effrazione – stavano le guardie del Tempio, semi-addormentate, parte sedute, parte in piedi appoggiate al masso del Sepolcro.
   Il cielo comincia appena a schiarire, di modo che ci si vede in una luce verdolina e incerta che pare rabbrividire al venticello fresco dell’alba. Tutto è silenzioso. Gli uccelli non si sono ancora svegliati.
   Dal cielo, dove ancora è il ricordo di qualche stella – un cielo che pare di seta azzurra, più chiara a oriente, più cupa a occidente – parte come un razzo di fuoco simile a saetta terminante in un globo rutilante luce. Scende velocissimo tagliando l’aria e guizzando per gli spazi sereni.
   La fulgida meteora suscita, nel piombare, un boato come di terremoto, ma non è un boato discorde, ma simile a quello che le canne maggiori di un gigantesco organo possono suscitare sotto le volte di una cattedrale ad un “Gloria” solenne. È potente e armonico ed empie della sua voce l’aria mattutina.
   Le guardie sorgono spaventate e si guardano intorno. Ma il fulmine di splendore è già su loro e si abbatte sulla pesante pietra, rinforzata nel suo serrame dal contrafforte di calcina con cui è stata assicurata, e questo pietrone, come fosse fragile schermo di carta velina, si abbatte ribaltato al suolo, in un fragore e in uno scuotìo di terremoto che rovescia le guardie, chi prone e chi supine al suolo, dove giacciono poi come svenute. Assenti. Esse non tornano in sé. Stanno là come un fascio di burattini ai quali siano stati spezzati i fili che li tenevano ritti. Sono ridicole.
   Il razzo di fuoco, molto più rapido di quanto io non sia nel descriverlo – perché dalla sua apparizione nel cielo al suo giungere al Sepolcro ha messo pochi attimi, non minuti primi, ma frazione di minuto: attimo – penetra nel buio sepolcro e lo illumina di una luce fantasmagorica che pare decorare di tutte le gemme la pietra delle pareti, della volta, del suolo. E mentre il suo fulgore permane, sospeso nell’aria come essenza di quella luce, essa luce penetra nel Corpo steso sotto le sue bende funebri.
   La forma immobile ha un lungo sospiro. Vedo alzarsi i lini sul petto e poi riabbassarsi. Un minuto di sosta e poi con moto repentino Cristo risorge. Disserra, deve disserrare sotto i suoi lini le mani incrociate sul basso ventre, aprire le braccia, scattare seduto, poi in piedi, perché sudario e pannilini e sindone si scompongono violentemente, e i primi cadono al suolo e la sindone scivola sulla pietra dell’unzione e resta là semi pendente, come guscio afflosciato e vuoto.
   Gesù è già rivestito della sua splendente veste di candore, senza più sangue né ferite, la divina Testa tutta ravviata e sfolgorante, senz’altro segno della sua tremenda Passione che i raggi che escono dalle Ferite e che, come cinque fuochi, riflettono la loro luce sulla divina Persona e la aureolano di una raggera di raggi incrociati che salgono, scendono dalle Mani e dai Piedi e raggiano a cerchio dal centro del Petto. La Ferita al Costato non si vede. La veste la copre. Ma una luminosità più viva di tutte è, come sole nascosto dietro una seta, sul Petto suo.
   Meno luminosi, ma tanto belli, due esseri angelici, certo penetrati con la luce nel Sepolcro e che io, presa nella contemplazione di Gesù, non ho visto prima, stanno ai due lati dell’apertura schiantata, in ginocchio, e adorano. Sono esseri incorporei, dalla forma umana ma fatta di luce, di quella “luce” beatissima che ho visto[149] essere, nella contemplazione del Paradiso, proprietà dei suoi spirituali abitanti.
   Gesù, dopo l’adorazione degli angeli, esce dal Sepolcro, passa fra le guardie accecate dallo svenimento, passa per l’ortaglia. Al suo inoltrarsi per essa, emanando sulle cose il suo divino fulgore, le erbe rugiadose splendono accese da un Sole più bello del sole testé apparso in cielo e, sotto il bacio di un venticello tepido e profumato, si inchinano e si rialzano dolcemente come per venerare il Salvatore che passa sorridendo e benedicendo; i meli, che pochi fiori spruzzavano di candore, aprono le loro miriadi di corolle, e sul capo di Gesù si forma una nuvola lieve, profumata, spumosa, di migliaia e migliaia di fiori sbocciati, d’un bianco appena rosato, ai quali fa riscontro nel cielo azzurro una piccola nube che pare di velo roseo, e gli uccelli risvegliati da tanta luce cantano con tutti i loro trilli nel giardino in fiore.
   Gesù si ferma a parlarmi sotto un melo che è tutto una palla di fiori dei quali qualche petalo scende, più innamorato degli altri, a carezzare le gote del suo Signore e si posa ai suoi piedi, fiore fra i fiori del suolo.
   Io non vedo la Maddalena altro che quando Gesù me la indica. Come, assorta in Lui, non vedo più ciò che succede delle guardie, né m’accorgo quando se la sgattaiolano. Non vedo più neppure gli angeli, ma comprendo che sono nel Sepolcro perché il suo buiore è fatto bianco dall’angelica luce.
   La Maddalena piange sconsolata. Non so come faccia a non riconoscere Gesù. Forse Egli le offusca la vista per poterla chiamare per primo. Ma quando la chiama ella lo “vede” per quello che è, e come è: trionfante, e getta il suo grido di sconfinato, adorante amore, che empie tutto il giardino fiorito, e si prostra col viso nell’erba rugiadosa ai piedi di Gesù.
   La visione mi cessa qui.

[149] ho visto il 10 gennaio.