MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MINORE

A A A

QUADERNI DEL 1944 CAPITOLO 267


29 febbraio 1944

   Vedo un buio stanzone. Lo dico stanzone tanto per dire ambiente vasto e in muratura. Ma è un sotterraneo nel quale la luce entra a malapena da due feritoie a livello del suolo che servono anche per l’areazione. Molto insufficiente, d’altronde, rispetto alla quantità di gente che è nell’ambiente e all’umidità dello stesso che trasuda dalle muraglie fatte di blocchi quasi quadrati di pietra connessa con calcina, ma senza alcun intonaco, e dal suolo di terreno battuto.
   So che è il carcere Tullianum. Me lo dice il mio indicatore. So anche, per la stessa fonte, che quella folla accatastata in così poco spazio è data da cristiani imprigionati per la loro fede e in attesa d’esser martirizzati. È tempo di persecuzione, e precisamente una delle prime persecuzioni, perché sento parlare di Pietro e Paolo e so che questi sono stati uccisi sotto Nerone.
   Non può credere con che vivezza di particolari io “veda” questo carcere e chi vi è accolto. Potrei di ogni singolo descrivere età, fisionomia e vestito. Ma allora non la finirei più. Mi limito perciò a dire le cose, i punti e i personaggi che più mi colpiscono.
   Vi sono persone di tutte le età e condizione sociale. Dai vecchi, che sarebbe pietoso lasciar spegnere dalla morte, ai bambini di pochi anni che sarebbe giusto lasciar liberi e giocondi ai loro giuochi innocenti e che invece languono, poveri fiori che non vedranno mai più i fiori della terra, nella penombra malsana di questa carcere.
   Vi sono i ricchi dalle vesti curate ed i poveri dalle povere vesti. E anche il linguaggio ha variazioni di pronuncia e di stile a seconda che esce da labbra istruite di signori o da bocche di popolani. Si sentono anche, mescolate al latino di Roma, parole e pronunce straniere di greci, di iberi, di traci, ecc. ecc. Ma se diversi sono gli abiti e gli eloqui, uguale è lo spirito guidato da carità. Essi si amano senza distinzione di razza e di censo. Si amano e cercano d’esser l’un l’altro di aiuto.
   I più forti cedono i posti più asciutti e più comodi – se comodo si può chiamare qualche pietrone sparso qua e là a far da sedile e guanciale – ai più deboli. E riparano questi con le loro vesti, rimanendo senza altra cosa che una tunica per la pudicizia, usando toghe e mantelli a far da materasso e guanciale e da coperta ai malati che tremano di febbre o ai feriti da già subìte torture. I più sani sovvengono i più malati dando loro da bere con amore: un poco d’acqua mesciuta da un orcio in un rustico recipiente, intridendo, nella stessa, strisce di tela strappate alle loro vesti per fare da bende sulle membra slogate o lacerate e alle fronti arse da febbre.
   E cantano di tanto in tanto. Un canto soave che è certo un salmo o più salmi, perché si alternano. Non sento il bel canto che accompagnò la sepoltura di Agnese[163]. Questi sono salmi. Li riconosco.
   Uno di essi incomincia così: “Amo, perché il Signore ascolta la voce della mia preghiera”.
   Un altro dice: “O Dio, Dio mio, per Te veglio dalla prima luce. Ha sete di Te l’anima mia e molto più la mia carne. In una terra deserta, impraticabile e senz’acqua…”.
   Un bambino geme nella semi oscurità. Il canto sospende.
   “Chi piange?” si chiede.
   “È Castulo” si risponde. “La febbre e la bruciatura non gli dànno tregua. Ha sete e non può bere perché l’acqua brucia sulle sue labbra arse dal fuoco”.
   “Qui vi è una madre che non può più dare il latte al suo piccino” dice una imponente matrona dall’aspetto signorile. “Mi si porti Castulo. Il latte brucia meno dell’acqua”.
   “Castulo a Plautina” si ordina.
   Si avanza uno che dalla veste giudicherei o un servo di famiglia cristiana, che condivide la sorte dei padroni, o un lavoratore del popolo. È tarchiato, bruno, robusto, coi capelli quasi rasati e una corta veste scura stretta alla vita da una cinghia. Porta con cura sulle braccia, come su una barellina, un povero bambino di sì e no otto anni. Le sue vesti, per quanto ormai sporche di terra e di macchie, sono ricche, di lana bianca e fina, e ornate al collo, alle maniche e al fondo, da una ricca greca ricamata. Anche i sandali sono ricchi e belli.
   Plautina si siede su un sasso che un vecchio le cede. Plautina pure è tutta vestita di lana bianca. Non ricordo il nome delle vesti romane con esattezza, ma mi pare che questa lunga veste si chiami clamide e il manto palla. Però non garantisco della mia memoria. So che questa di Plautina è molto bella e ampia e l’avvolge con grazia facendo di lei una bellissima statua viva.
   Ella si siede sul masso addossato alla muraglia. Vedo distintamente i pietroni che la sovrastano, sui quali ella spicca col suo volto lievemente olivastro, dagli occhi grandi e neri e dalle trecce corvine, e con la sua candida veste.
   “Dàmmi, Restituto, e che Dio ti compensi” ella dice al pietoso portatore del piccolo martire. E divarica un poco le ginocchia per accogliere, come su un letto, il bambino.
   Quando Restituto lo posa, vedo uno scempio che mi fa raccapricciare. Il viso del povero bambino è tutto una bruciatura. Sarà stato bello forse. Ora è mostruoso. Non più che pochi capelli sul dietro del capo; davanti la cute è nuda e mangiata dal fuoco. Non più fronte né guance né naso come noi li pensiamo, ma una tumefazione rosso-viva, rósa dalla vampa come da un acido. Al posto degli occhi, due piaghe da cui colano rare lacrime che devono essere tormento alle sue carni bruciate. Al posto delle labbra, un’altra piaga orrenda a vedersi. Si direbbe che lo hanno tenuto curvo sulla fiamma col solo viso, perché l’arsione cessa sotto il mento.
   Plautina si apre la tunica e, parlando con amore di vera madre, spreme la sua tonda mammella piena di latte e ne fa stillare le gocce fra le labbra del bambino, che non può sorridere, ma che le carezza la mano per mostrarle il suo sollievo. E poi, dopo averlo dissetato, fa cadere altro latte sul povero viso per medicarlo con questo balsamo, che è un sangue di madre divenuto nutrimento e che è amore di una senza più figli per uno senza più mamma.
   Il bambino non geme più. Dissetato, calmato nel suo spasimo, ninnato dalla matrona, si assopisce respirando affannosamente.
   Plautina sembra una madre dei dolori per la posa e per l’espressione. Guarda il poverino e certo vede in lui la sua creatura o le sue creature, e delle lacrime rotolano sulle sue guance, e lei getta indietro il capo per impedire che cadano sulle piaghe del piccolo.
   Il canto riprende[164]: “Ho aspettato ansiosamente il Signore ed Egli a me si è rivolto ed ha ascoltato il mio grido”.
   “Il Signore è il mio Pastore, non mi mancherà nulla. Egli mi ha posto in luogo di abbondanti pascoli, m’ha condotto ad acqua ristoratrice”.
   “Fabio è spirato” dice una voce nel fondo del sotterraneo. “Preghiamo”, e tutti dicono il Pater ed un’altra preghiera che si inizia così: “Sia lode all’Altissimo che ha pietà dei suoi servi e schiude il suo Regno all’indegnità nostra senza chiedere alla nostra debolezza altro che pazienza e buona volontà. Sia lode al Cristo che ha patito la tortura per coloro che la sua misericordia poteva conoscere troppo deboli per subirla, e non ha loro richiesto che amore e fede. Sia lode allo Spirito che ha dato i suoi fuochi per martirio ai non chiamati alla consumazione del martirio e li fa santi della sua Santità. Così sia” (Maran ata)[165] (non so se scrivo giusto).
   “Fabio felice!” esclama un vegliardo. “Egli già vede Cristo!”.
   “Noi pure lo vedremo, Felice, e andremo a Lui con la doppia corona della fede e del martirio. Saremo come rinati, senza ombra di macchia, poiché i peccati della nostra passata vita saranno lavati nel sangue nostro prima d’esser lavati nel Sangue dell’Agnello. Molto peccammo, noi che fummo per lunghi anni pagani, ed è grande grazia che a noi venga il giubileo del martirio a farci nuovi, degni del Regno”.
   “Pace a voi, miei fratelli” tuona una voce che mi par subito di avere già udito.
   “Paolo! Paolo! Benedici!”.
   Molto movimento avviene fra la folla. Solo Plautina resta immobile col suo pietoso peso sul grembo.
   “Pace a voi” ripete l’apostolo. E si inoltra sin nel centro dell’androne. “Eccomi a voi con Diomede e Valente per portarvi la Vita”.
   “E il Pontefice?” chiedono in molti.
   “Egli vi manda il suo saluto e la sua benedizione. È vivo, per ora, e in salvo nelle catacombe. Fanno buona guardia i fossores. Egli verrebbe, ma Alessandro e Caio Giulio ci hanno avvisati che egli è troppo conosciuto dai custodi. Non sempre sono di guardia Rufo e gli altri cristiani. Vengo io, meno noto e cittadino romano. Fratelli, che nuove mi date?”.
   “Fabio è morto”.
   “Castulo ha subìto il primo martirio”
   “Sista è stata condotta ora alla tortura”.
   “Lino lo hanno trasportato con Urbano e i figli di questo al Mamertino o al Circo, non sappiamo”.
   “Preghiamo per loro: vivi e morti. Che il Cristo dia a tutti la sua Pace”.
   E Paolo, con le braccia aperte a croce, prega – basso, bruttino anziché no, ma un tipo che colpisce – in mezzo al sotterraneo. È vestito, come fosse un servo lui pure, di una veste corta e scura, ed ha un piccolo mantelletto con cappuccio che per pregare si è buttato indietro. Alle sue spalle sono i due che ha nominato, vestiti come lui, ma molto più giovani.
   Finita la preghiera, Paolo chiede: “Dove è Castulo?”.
   “In grembo a Plautina, là in fondo”.
   Paolo fende la folla e si accosta al gruppo. Si curva e osserva. Benedice. Benedice il bambino e la matrona. Si direbbe che il bambino si sia risvegliato ai gridi salutanti l’apostolo, perché alza una manina cercando toccare Paolo, il quale gli prende allora la mano fra le sue e parla: “Castulo, mi senti?”.
   “Sì” dice il piccino muovendo a fatica le labbra.
   “Sii forte, Castulo. Gesù è con te”.
   “Oh! perché non me l’avete dato? Ora non posso più!”. E una lacrima scende a invelenire le piaghe.
   “Non piangere, Castulo. Puoi inghiottire una briciola sola? Sì? Ebbene, ti darò il Corpo del Signore. Poi andrò dalla tua mamma a dirle che Castulo è un fiore del Cielo. Che devo dire alla tua mamma?”.
   “Che io son felice. Che ho trovato una mamma. Che mi dà il suo latte. Che gli occhi non fanno più male. (Non è bugia dirlo, non è vero? per consolare la mamma?). E che io ‘vedo’ il Paradiso ed il posto mio e suo meglio che se avessi questi occhi ancora vivi. Dille che il fuoco non fa male quando gli angeli sono con noi, e che non tema. Né per lei, né per me. Il Salvatore ci darà forza”.
   “Bravo Castulo! Dirò alla mamma le tue parole. Dio aiuta sempre, o fratelli. E lo vedete. Questo è un bambino. Ha l’età in cui non si sa sopportare il dolore di un piccolo male. E voi lo vedete e l’udite. Egli è in pace. Egli è pronto a tutto subire, dopo aver già tanto subito, pur di andare da Colui che egli ama e che lo ama perché è uno di quelli che Egli amava: un fanciullo, ed è un eroe della Fede. Prendete coraggio da questi piccoli, o fratelli. Torno dall’aver portato al cimitero Lucina, figlia di Fausto e Cecilia. Non aveva che quattordici anni, e voi lo sapete se era amata dai suoi e debole di salute. Eppure fu una gigante di fronte ai tiranni. Voi lo sapete che io mi faccio passare, con questi, per fossor[166], per potere raccogliere quanti più corpi posso e deporli in suolo santo. Vivo perciò presso i tribunali e vedo, come vivo presso i circhi e osservo. E m’è conforto pensare che io pure nella mia ora – faccia Iddio sollecita – sarò da Lui sorretto come i santi che ci hanno preceduto. Lucina fu torturata con mille torture. Battuta, sospesa, stirata, attenagliata. E sempre guariva per opera di Dio. E sempre resisteva a tutte le minacce. L’ultima delle torture, avanti il supplizio, fu volta al suo spirito. Il tiranno, vedendola presa di amore per il Cristo, vergine che aveva legata se stessa al Signore Iddio nostro, volle ferirla in questo suo amore. E la condannò ad esser di un uomo. Ma uno, due, dieci che si accostarono e dieci che perirono, percossi da folgore celeste. Allora, non potendo in nessun modo spezzare e distruggere il suo giglio, il tiranno ordinò fosse legata e sospesa in modo da rimanere come seduta e poi calata precipitosamente su un cuneo pontuto che le squarciò le viscere. Credette così il barbaro di averle levato la verginità tanto amata. Ma mai tanto, come sotto quel bagno di sangue, il suo giglio fiorì più bello e dalle viscere squarciate si espanse per esser colto dall’Angelo di Dio. Ora ella è in pace. Coraggio, fratelli. Ieri l’avevo nutrita del Pane celeste e col sapore di quel Pane ella andò all’ultimo martirio. Ora darò anche a voi quel Pane perché domani è giorno di festa sovrumana per voi. Il Circo vi attende. E non temete. Nelle fiere e nei serpenti voi vedrete aspetti celesti poiché Dio compierà per voi questo miracolo, e le fauci e le spire vi parranno abbracci d’amore, i ruggiti e i sibili voci celesti, e come Castulo vedrete il Paradiso che già scende per accogliervi nella sua beatitudine”.
   I cristiani, meno Plautina, sono tutti in ginocchio e cantano[167]: “Come il cervo anela al rivo così l’anima mia anela a Te. L’anima mia ha sete di Dio. Del Dio forte e vivente. Quando potrò venire a Te, Signore? Perché sei triste, anima mia? Spera in Dio e ti sarà dato di lodarlo. Nel giorno Dio manda la sua grazia e nella notte ha il cantico di ringraziamento. La preghiera a Dio è la mia vita. Dirò a Lui: ‘Tu sei la mia difesa’. Venite, cantiamo giulivi al Signore; alziamo gridi di gioia al Dio nostro Salvatore. Presentiamoci a Lui con gridi di giubilo. Perché il Signore è il gran Dio. Venite, prostriamoci ed adoriamo Colui che ci ha creati. Perché Egli è il Signore Dio nostro e noi il popolo da Lui nutrito, il gregge da Lui guidato”.
   Mentre essi cantano sono entrati anche dei soldati romani e dei carcerieri, i quali montano anche la guardia perché non entrino persone nemiche.
   Paolo si appresta al rito. “Tu sarai il nostro altare” dice a Castulo. “Puoi tenere il calice sul tuo petto?”.
   “Sì”.
   Viene steso un lino sul corpicino del bimbo e sul lino sono appoggiati il calice e il pane.
   E assisto alla Messa dei martiri che viene celebrata da Paolo e servita dai due preti che l’accompagnano. Però non è la Messa come è ora. Mi pare che abbia parti che ora non ha e non abbia parti che ora ha. Non ha epistola, per esempio, e dopo la benedizione: “Vi benedica il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo” (dice così) non ha altro. Però dal Vangelo alla Consacrazione sono uguali a ora. Il Vangelo letto è quello[168] delle Beatitudini.
   Vedo il lino palpitare sul petto di Castulo il quale, per ordine di Paolo, tiene fra le dita la base del calice perché non cada. Vedo anche che quando Paolo dice: “Questa consacrazione del Corpo…” un fremito di sorriso scorre sul volto piagato del piccolino e poi la testolina si abbatte subito con una pesantezza di morte che sempre cresce.
   Plautina ha come un sussulto ma si domina. Paolo procede come non notasse nulla. Ma quando, franta l’Ostia, sta per curvarsi sul piccolo martire per comunicarlo per primo con un minuscolo frammento, Plautina dice: “È morto”, e Paolo sosta un attimo, dando poi alla matrona il frammento destinato al bambino, che è rimasto con le ditine serrate sul piede del calice nell’ultima contrazione, e gliele devono sciogliere per poter prendere il calice e darlo agli altri.
   Poi, distribuita la Comunione, la Messa ha termine. Paolo si spoglia delle vesti e ripone queste e il lino e il calice e la teca delle ostie in una sacca che porta sotto il mantello. Poi dice: “Pace al martire di Cristo. Pace a Castulo santo”.
   E tutti rispondono: “Pace!”.
   “Ora lo porterò altrove. Datemi un manto, ché ve lo avvolga. Lo porterò senza attendere la sera. Questa sera verremo per Fabio. Ma questo… lo porterò come un bambino addormentato. Addormentato nel Signore”.
   Uno dei soldati dà il suo mantello rosso; e vi depongono il piccolo martire e ve lo avvolgono, e Paolo se lo prende in braccio (a sinistra) come fosse un padre che trasporta altrove il figlioletto dormiente, col capo curvo sulla spalla paterna.
   “Fratelli, la pace sia con voi, e ricordatevi di me quando sarete nel Regno”. Ed esce benedicendo.
   Dice Gesù:
   «Non è Vangelo, ma voglio che sia considerato uno dei “vangeli della fede”[169] per voi che temete.
   Anche delle persecuzioni temete. Non avete più la tempra antica. È vero. Ma Io sono sempre Io, figli. Non dovete pensare che Io non possa darvi un cuore intrepido nell’ora della prova. Senza il mio aiuto nessuno, anche allora, avrebbe potuto rimanere fermo davanti a tanto supplizio. Eppure vecchi e bambini, giovinette e madri, coniugi e genitori seppero morire, incuorando a morire, come andassero a festa. E festa era. Eterna festa!
   Morivano, e il loro morire era breccia nella diga del paganesimo. Come acqua che scava e scava e scava e rompe lentamente ma inesorabilmente le più forti opere dell’uomo, il loro sangue, sgorgando da migliaia di ferite, ha sgretolato la muraglia pagana e come tanti rivoli si è sparso nelle milizie di Cesare, nella reggia di Cesare, nei circhi e nelle terme, fra i gladiatori e i bestiari, fra gli addetti ai pubblici bagni, fra i colti e i popolani, dovunque, incessabile e invincibile.
   Il suolo di Roma è imbibito di questo sangue e la città sorge, potrei dire che è cementata col sangue e la polvere dei miei martiri. Le poche centinaia di martiri che voi conoscete sono un nulla rispetto ai mille e mille ancora sepolti nelle viscere di Roma e agli altri mille e mille che bruciati sui pali nei circhi divennero cenere sparsa dal vento, o sbranati e inghiottiti da fiere e da rettili divennero escremento che fu spazzato e gettato come concime.
   Ma se voi non li conoscete, questi miei eroici sconosciuti, Io li conosco tutti, e il loro annichilimento totale, sin dello scheletro, è stato quello che ha fecondato più di qualunque concime il suolo selvaggio del mondo pagano e lo ha fatto divenire capace di portare il Grano celeste.
   Ora questo suolo del mondo cristiano sta ritornando pagano e germina tossico e non pane. È perciò che voi temete. Troppo vi siete staccati da Dio per avere in voi la fortezza antica.
   Le virtù teologali sono morenti là dove già non sono morte. E quelle cardinali neppure le ricordate. Non avendo la carità, è logico non possiate amare Dio sino all’eroismo. Non amandolo, non sperate in Lui, non avete in Lui fede. Non avendo fede, speranza e carità, non siete forti, prudenti, giusti. Non essendo forti, non siete temperanti. E non essendo temperanti, amate la carne più dell’anima e tremate per la vostra carne.
   Ma Io so ancora fare il miracolo. Credete pure che in ogni persecuzione i martiri sanno esser tali per aiuto mio. I martiri: ossia coloro che mi amano ancora. Io, poi, porto il loro amore alla perfezione e ne faccio degli atleti della fede. Io soccorro chi spera e crede in Me. Sempre. In qualunque evenienza.
   Il piccolo martire che resta con le manine strette al calice, anche oltre la morte, vi insegna dove è la forza. Nell’Eucarestia. Quando uno si nutre di Me, secondo il detto di Paolo[170], non vive più per sé ma vive in lui Gesù. E Gesù ha saputo sopportare tutti i tormenti, senza flettere. Perciò chi vive di Me sarà come Me. Forte.
   Abbiate fede.»

[163] la sepoltura di Agnese, descritta due volte il 20 gennaio. Questi sono salmi, per l’esattezza sono il Salmo 116 e il Salmo 63 della neo-volgata. Rinviando alla volgata, in uso ai suoi tempi, la scrittrice aggiunge a matita S. 94 (sbagliando nel leggere sulla sua Bibbia il numero romano, che è 114, non 94) e S. 62.
[164] riprende con il Salmo 40 e il Salmo 23. Al secondo la scrittrice aggiunge a matita S. 22 secondo la volgata.
[165] Maran ata, press’a poco come in 1 Corinzi 16, 22.
[166] fossor (singolare) è nostra correzione da fossores (plurale).
[167] cantano versetti del Salmo 42 e del Salmo 95. Accanto ad essi la scrittrice aggiunge a matita S. 41 e S. 94 in riferimento alla numerazione della volgata.
[168] quello, non ancora codificato ma già tramandato, di Matteo 5, 1-12; Luca 6, 20-23. Il precedente riferimento alla Messa come è ora (cioè ai tempi della scrittrice) non tiene conto, ovviamente, della riforma liturgica introdotta dopo il Concilio Vaticano II.
[169] vangeli della fede, secondo la direttiva del 28 febbraio.
[170] il detto di Paolo in Galati 2, 20.