MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MINORE

A A A

QUADERNI DEL 1944 CAPITOLO 271


4 marzo 1944

   Ore 9

   Mi dice Gesù:
   «Molto lavoro oggi per riprendere il tempo, non perduto ma usato altrimenti secondo il mio volere.
   Sai dalla prima ora di questo giorno (ore 1 ant.ne) su cosa terrò fissa la tua mente, perché il primo e unico punto che ti s’è illuminato ti ha già detto su che poserai gli occhi dello spirito. E quel nome femminile e sconosciuto che t’è rimbombato dentro come campana che chiami e non si placa che quando s’è risposto, ti ha detto che conoscerai anche questo. Ma fra la mia vergine e il Maestro devi scegliere il Maestro e far precedere il mio punto a quello.
   Te ne farò conoscere molte di creature celesti. Hanno tutte il loro ammaestramento, utile per voi divenuti consci di tutto, lettori di tutto, ma non di quello che è scienza per conquistare il Cielo.
   Scrivi.»
   Scrivo, anzi descrivo.
   Questa notte, mentre fra dolori da impazzire mi chiedevo come ha fatto Gesù a sopportare quel gran male al capo – e glielo chiedevo perché a me era tormento tale da farmi stringere i denti per non urlare al minimo rumore o tentennamento al letto, e mi pareva di avere tanti cuori che battessero veloci e dolenti per quanti denti avevo, per la lingua, le labbra, il naso, le orecchie, gli occhi, e in mezzo alla fronte mi pareva avere un groviglio di chiodi che mi penetrassero nel cranio, e dalla nuca saliva e si irraggiava una fascia di fuoco e di dolore stringente come una morsa, e nel parietale destro mi pareva che ogni tanto urtasse contro un colpo di oggetto pesante a conficcarmi vieppiù quella fascia nella testa e a rimbombarmi tutta – e nel mio spasimo lo contemplavo dall’Orto al Calvario, ecco che, proprio dopo la terza caduta, ho avuto una sosta di sollievo fisico e spirituale, perché mi apparve bello, sano, sorridente sulle acque irate del Mar di Galilea.
   Poi il tormento è ricominciato, finché verso le due, cessata la contemplazione della Passione del Signore e calmato un pochino (poco, sa?) il tremendo dolore al capo, m’è suonato dentro un nome: S.ta Fenicola.
   Chi è? Sconosciuta. Ci è proprio stata? Mah! Chi l’ha mai sentita! E cercavo dormire. Macché! Santa Fenicola. Santa Fenicola. Santa Fenicola.
   Qui non si dorme, mi sono detta, se prima non so chi è. E in grazia del diminuito dolore, che mi permetteva ora di muovermi mentre dalle 15 alla mezzanotte e oltre mi aveva abbattuta e resa inerte, corpo che soffriva spasmodicamente ma non poteva neppur aprire gli occhi – Paola glielo può dire – ho preso un indice dei santi e ho trovato che porta, insieme a S. Petronilla v., porta S. Felicola v.m. Io ho sentito dire: Fenicola, ma forse ho capito male.
   Contemporaneamente a questa scoperta ho visto una giovane donna nuda, legata ad una colonna in maniera atroce. Poi nient’altro.[176] E ora per ubbidienza scrivo ciò che il Maestro mi mostra, senza rimandare, per quanto ho la testa che gira come una trottola.

   [Segue il capitolo 274 dell’opera L’EVANGELO]

   Il martirio di S. Fenicola.
   Vedo due giovani donne in preghiera. Una preghiera ardentissima che deve proprio penetrare nei Cieli. Una è più matura. Pare quasi sui trent’anni; l’altra deve da poco aver passato i venti. Sembrano in perfetta salute tutte e due. Poi si alzano e preparano un piccolo altare su cui dispongono lini preziosi e fiori.
   Entra un uomo vestito come i romani dell’epoca, che le due giovani salutano con la massima venerazione. Egli si leva dal petto una borsa dalla quale trae tutto quanto occorre per celebrare una Messa. Poi si riveste delle vesti sacerdotali e inizia il Sacrificio.
   Non comprendo benissimo il Vangelo, ma mi pare sia quello di Marco[177]: “E gli presentarono dei bambini… chi non riceverà il regno di Dio come un fanciullo non c’entrerà”. Le due giovani, inginocchiate presso l’altare, pregano sempre più fervorosamente.
   Il Sacerdote consacra le Specie e poi si volge a comunicare le due fedeli, cominciando dalla più anziana, il cui volto è serafico di ardore. Poi comunica l’altra. Esse, ricevute le Specie, si prostrano al suolo in profonda preghiera e sembra restino così per pura devozione.
   Ma quando il Sacerdote si volge a benedire e scende dall’altare collocato su una pedana di legno – dopo la celebrazione del rito, che è uguale a quella di Paolo nel Tullianum. Solo qui il celebrante parla più piano, date le due sole fedeli; ecco perché capisco meno il Vangelo – una soltanto delle giovani si muove. L’altra rimane prostrata come prima. La compagna la chiama e la scuote. Si china anche il Sacerdote. La sollevano. Già il pallore della morte è su quel viso, l’occhio semispento naufraga sotto le palpebre, la bocca respira a fatica. Ma che beatitudine in quel viso!
   La adagiano su una specie di lungo sedile che è presso una finestra aperta su un cortile, in cui canta una fontana. E cercano soccorrerla. Ma, radunando le forze, ella alza una mano e accen­na al cielo, e non dice che due parole: “Grazia… Gesù”, e senza spasimi spira.
   Tutto ciò non mi spiega che c’entra la giovane legata alla colonna che ho visto questa notte e che, per quanto molto più pallida e smagrita, spettinata, torturata, mi pare assomigli tanto alla superstite che ora piange presso la morta. E resto così, nella mia incertezza, per qualche ora.
   Soltanto ora che è sera ritrovo la giovane piangente prima, ora ritta presso la fontana del severo cortile nel quale sono coltivate solo delle piccole aiuole di gigli e sui muri salgono dei rosai tutti in fiore.
   La giovane parla con un giovane romano: “È inutile che tu insista, o Flacco. Io ti sono grata del tuo rispetto e del ricordo che hai per la mia amica morta. Ma non posso consolare il tuo cuore. Se Petronilla è morta, segno era che non doveva essere tua sposa. Ma io neppure. Tante sono le fanciulle di Roma che sarebbero felici di diventare le signore della tua casa. Non io. Non per te. Ma perché ho deciso di non contrarre nozze”.
   “Tu pure sei presa dalla frenesia stolta di tante seguaci di un pugno d’ebrei?”.
   “Io ho deciso, e credo non esser folle, di non contrarre nozze”.
   “E se io ti volessi?”.
   “Non credo che tu, se è vero che mi ami e rispetti, vorrai forzare la mia libertà di cittadina romana. Ma mi lascerai seguire il mio desiderio avendo per me la buona amicizia che io ho per te”.
   “Ah, no! Già una m’è sfuggita. Tu non mi sfuggirai”.
   “Ella è morta, Flacco. La morte è forza a noi superiore, non è fuga di uno ad un destino. Ella non s’è uccisa. È morta…”.
   “Per i vostri sortilegi. Lo so che siete cristiane e avrei dovuto denunciarvi al Tribunale di Roma. Ma ho preferito pensare a voi come a mie spose. Ora per l’ultima volta ti dico: vuoi esser moglie del nobile Flacco? Io te lo giuro che è meglio per te entrare signora nella mia casa e lasciare il culto demoniaco del tuo povero dio, anziché conoscere il rigore di Roma che non permette siano insultati i suoi dèi. Sii la sposa mia e sarai felice. Altrimenti…”.
   “Non posso esser tua sposa. A Dio sono consacrata. Al mio Dio. Non posso adorare gli idoli, io che adoro il vero Dio. Fa’ di me quello che vuoi. Tutto puoi fare del corpo mio. Ma la mia anima è di Dio, ed io non la vendo per le gioie della tua casa”.
   “È la tua ultima parola?”.
   “L’ultima”.
   “Sai che il mio amore può mutarsi in odio?”.
   “Dio te ne perdoni. Per mio conto ti amerò sempre come fratello e pregherò per il tuo bene”.
   “Ed io farò il tuo male. Ti denuncerò. Sarai torturata. Allora mi invocherai. Allora comprenderai che è meglio la casa di Flacco alle dottrine stolte di cui ti nutri”.
   “Comprenderò che il mondo, per non avere più dei Flacchi, ha bisogno di queste dottrine. E farò il tuo bene pregando per te dal Regno del mio Dio”.
   “Maledetta cristiana! Alle carceri! Alla fame! Ti sazi il tuo Cristo se lo può”.
   Ho l’impressione che le carceri siano abbastanza prossime alla casa della vergine perché la strada è poca, e che il nobile Flacco sia né più né meno che un segugio del Questore di Roma perché, quando la visione, mutando aspetto, mi riporta la sala già vista con la giovane legata alla colonna, vedo che è un tribunale come quello[178] in cui fu giudicata Agnese. Ben poche sono le differenze e che, anche qui, vi è un brutto ceffo che giudica e condanna, e che Flacco gli fa da aiutante e aizzatore.
   Fenicola, estratta dalla muda dove era, viene portata in mezzo alla sala. Appare sfinita di forze, ma ancor tanto dignitosa. Per quanto la luce l’abbacini, debole come è e abituata ormai al buio carcere, si tiene eretta e sorride.
   Le solite domande e le solite offerte, seguite dalle solite risposte: “Sono cristiana. Non sacrifico ad altro Dio che non sia il mio Signore Gesù Cristo”.
   Viene condannata alla colonna.
   Le strappano le vesti e, nuda, alla presenza del popolo, la legano con le mani e i piedi dietro ad una delle colonne del Tribunale. Per fare ciò le slogano le anche e le slogano le braccia. La tortura deve essere atroce. E non basta, ma torcono le funi ai polsi e alle caviglie, la percuotono sul petto e sul ventre nudo con verghe e flagelli, le torcono le carni con tenaglie e altri così atroci supplizi che non sto a ridire.
   Ogni tanto le chiedono se vuol sacrificare agli dèi. Fenicola, con voce sempre più debole, risponde: “No. Al Cristo. A Lui solo. Or che lo comincio a vedere, ed ogni tortura me lo rende più vicino, volete che io lo perda? Compite la vostra opera. Che io abbia il mio amore compiuto. Dolci nozze di cui Cristo è sposo ed io sposa sua! Sogno di tutta la mia vita!”.
   Quando la slegano dalla colonna, ella cade come morta per terra. Le membra slogate, forse anche spezzate, non la reggono più, non rispondono a nessun comando della mente. Le povere mani, segate ai polsi dalla fune che ha fatto due braccialetti di sangue vivo, pendono come morte. I piedi, pure lacerati ai malleoli sino a mostrare i nervi e i tendini, appaiono chiaramente spezzati dal modo come stanno ripiegati in modo innaturale. Ma il volto è pieno di una felicità d’angelo. Scendono le lacrime sulle gote esangui, ma l’occhio ride assorto in una visione che l’estasia.
   I carcerieri, meglio i boia, la colpiscono di calci e a calci la spingono, come fosse un sacco tanto immondo da non poter esser toccato, verso la predella del Questore.
   “Ancor viva sei?”.
   “Sì, per volontà del mio Signore”.
   “Ancora insisti? Vuoi proprio la morte?”.
   “Voglio la Vita. Oh! mio Gesù, aprimi il Cielo! Vieni, Amore eterno!”.
   “Gettatela nel Tevere! L’acqua calmerà i suoi ardori”.
   I boia la sollevano con mal garbo. La tortura delle membra spezzate deve essere atroce. Ma ella sorride. La avvolgono nelle sue vesti, non per pudicizia ma per impedirle di reggersi in acqua. Inutile cura! Con degli arti in quello stato non si nuota. Solo la testa emerge dal viluppo delle vesti. Il suo povero corpo, gettato sulle spalle di un carnefice, pende come fosse già morta. Ma ella sorride alla luce delle fiaccole, perché ormai è sera.
   Giunti al Tevere, come fosse un animale da sopprimersi, la prendono e dall’alto del ponte la precipitano nelle acque scure, sulle quali ella riaffiora due volte e poi si inabissa senza un grido.
   Dice Gesù:
   «Ti ho voluto far conoscere la mia martire Fenicola per dare a te ed a tutti qualche insegnamento.
   Tu hai visto il potere della preghiera nella morte di Petronilla, compagna e maestra di Fenicola di cui era molto più anziana, e il frutto di una santa amicizia.
   Petronilla, figlia spirituale di Pietro, aveva assorbito dalla viva parola del mio Apostolo lo spirito di Fede. Petronilla. La gioia, la perla romana di Pietro. Sua prima conquista romana. Quella che, per la sua rispettosa e amorosa devozione all’Apostolo, lo consolò di tutti i dolori della sua evangelizzazione romana.
   Pietro per amore mio aveva lasciato casa e famiglia. Ma Colui che non mente gli aveva fatto trovare in questa fanciulla – e in maniera sovrabbondante, colma, premuta, secondo le mie promesse[179] – conforto, cure, dolcezze femminili. Come Io a Betania, egli in casa di Petronilla trovava aiuti, ospitalità e soprattutto amore. La donna è uguale, nel suo bene e nel suo male, sotto tutti i cieli e in tutte le epoche. Petronilla fu la Maria[180] di Pietro, con in più la sua purezza di fanciulla che il Battesimo, ricevuto mentre ancora l’innocenza non aveva conosciuto oltraggio, aveva portato a perfezione angelica.
   Maria, ascolta. Petronilla, volendo amare il Maestro con tutta se stessa senza che la sua avvenenza e il mondo potessero turbare questo amore, aveva pregato il suo Dio di fare di lei una crocifissa. E Dio la esaudì. La paralisi crocifisse le sue angeliche membra. Nella lunga infermità, sul terreno bagnato dal dolore fiorirono più belle le virtù e specie l’amore per la Madre mia. Ascolta ancora, Maria. Quando fu necessario, la sua malattia conobbe una sosta. Per mostrare che Dio è padrone del miracolo. E poi, finito il momento, tornò a crocifiggerla.
   Non conosci nessun’altra, Maria, alla quale il suo Maestro, come Pietro a Petronilla, non dica, quando gli occorre: “Sorgi, scrivi, sii forte” e, cessato il bisogno del Maestro, non torni una povera inferma in perpetua agonia?
   Morto l’Apostolo e guarita Petronilla, ella trovò che la sua vita non era più sua. Ma del Cristo. Non era di quelle che, ottenuto il miracolo, se ne servono per offendere Dio. Ma la salute la usò per l’interesse di Dio.
   La vita vostra è sempre mia. Io ve la do. Ve lo dovreste ricordare. Ve la do come vita animale facendovi nascere e conservandovi vivi. Ve la do come vita spirituale con la Grazia e i Sacramenti. Dovreste ricordarvelo sempre e farne buon uso. Quando poi vi rendo la salute, vi faccio rinascere quasi dopo malattia mortale, dovreste ancor più ricordarvi che quella vita, rifiorita quando già la carne sapeva di tomba, è mia. E per riconoscenza usarla nel Bene.
   Petronilla lo seppe fare. Non si è assorbito per niente[181] la mia Dottrina. Essa è come sale che preserva dal male, dalla corruzione, è fiamma che scalda e illumina, è cibo che nutre e fortifica, è fede che fa sicuri. Viene la prova, l’assalto della tentazione, la minaccia del mondo. Petronilla prega. Chiama Dio. Vuol essere di Dio. Il mondo la vuole? Dio la difenda dal mondo.
   Il Cristo l’ha detto[182]: “Se avete tanta fede quanto un granello di senape, potrete dire ad un monte: ‘Levati e va’ più in là’”. Pietro gliel’ha detto tante volte. Ella non chiede al monte di muoversi. Chiede a Dio di levarla dal mondo prima che una prova superiore alle sue forze la schiacci. E Dio l’ascolta. La fa morire in un’estasi. In un’estasi, Maria, prima che la prova la schiacci. Ricordala questa cosa[183], piccola discepola mia.
   Fenicola era amica, più che amica figlia o sorella, data la poca differenza d’età di una diecina d’anni circa. Non si convive senza santificarsi con chi è santo. Come non ci si guasta[184] convivendo con chi è guasto. Se il mondo se la ricordasse questa verità! Ma il mondo invece trascura i santi o li sevizia, e segue i satana divenendo sempre più satana.
   La fermezza e la dolcezza di Fenicola l’hai vista. Che è la fame per chi ha Cristo a suo cibo? Che è la tortura per chi ama il Martire del Calvario? Che è la morte per chi sa che la morte apre la porta alla Vita?
   È sconosciuta dai cristiani d’ora la mia martire Fenicola. Ma essa è ben conosciuta dagli angeli di Dio, che la vedono ilare in Cielo dietro l’Agnello divino. Ho voluto renderla nota a te per poterti parlare anche della sua maestra di spirito e per incuorarti al patire.
   Ripeti con lei: “Ora sì che fra questi dolori comincio a vedere il mio sposo Gesù, nel quale ho posto tutto il mio amore”; e pensa che anche per te ho suscitato un Nicomede[185], per salvare dalle acque delle passioni il tuo io che volevo per Me e per raccogliere quanto di te merita d’esser conservato, ciò che è mio, ciò che può operare del bene all’anima dei fratelli.»

[176] nient’altro è nostra correzione da altro
[177] quello di Marco, che è in Marco 10, 13-16, oltre che in Matteo 19, 13-15; Luca 18, 15-17. È da ritenersi, però, che si trattasse non del Vangelo scritto come lo leggiamo oggi, ma di Vangelo tramandato, come nella celebrazione di Paolo nel Tullianum, “vista” il 29 febbraio e richiamata più sotto.
[178] come quello della “visione” del 13 gennaio.
[179] promesse, enunciate in Luca 6, 38.
[180] la Maria, cioè Maria di Betania o di Magdala, sorella di Lazzaro e di Marta, come in Giovanni 11, 5 e come, soprattutto, nell’opera “L’Evangelo come mi è stato rivelato”.
[181] per niente, cioè per non ottenere nulla, inutilmente.
[182] l’ha detto in Matteo 17, 20.
[183] Ricordala questa cosa, che potrebbe essere collegata con la predizione che incontreremo al termine del “dettato” del 12 settembre 1944 e con la promessa del 14 marzo 1947, riportata alla fine dello scritto del successivo giorno 16.
[184] non ci si guasta… Forse, in parallelo con la frase che precede, avrebbe dovuto scrivere: non si convive senza guastarsi con chi è guasto.
[185] Nicomede è il nome del presbitero che recuperò il corpo della martire Fenicola (o Felicola) e lo seppellì. Il Nicomede della scrittrice, suscitato per il suo recupero spirituale, è Padre Migliorini.