MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MINORE

A A A

QUADERNI DEL 1944 CAPITOLO 332


3 giugno 1944

   Primo sabato, ore 1,30 antimeridiane

   Dice Maria:
   «Sono la Mamma. Scrivi.
   Fai tutti i sabati l’ora della Desolata. Che tu passi così la notte fra il venerdì e il sabato, te ne benedico. Il primo punto e il terzo punto ti sono facili. Non fai che rileggere visioni e dettati che hai avuti. Ma il secondo ti è penoso perché lo devi fare da te. Nel tuo descrivere hai detto355: “Maria col gruppo… per poca via torna alla casa”. E se questo basta nella descrizione – né più potevi dare nella tua debolezza – non basta alla tua preghiera di ora. Scrivi dunque per tua guida quello che ho sofferto allora.
   Quando la pietra è scorsa nel suo alveo ed ha chiuso il Sepolcro, mi è parso che mi passasse sul cuore e me lo stritolasse, strappandomelo dal seno. Mi sono attaccata alla sua sporgenza con le unghie e con la bocca per respingerla, quella pietra che mi separava da Gesù, che me lo faceva morto una seconda volta, di una più profonda morte, di una separazione ancor più grande in cui neppur le membra di mio Figlio eran più mie… Ma, ahi! che nulla ottenni! Unghie e denti scorsero senza dare moto su quel pietrone. Sanguinarono le dita e le labbra, ma esso rimase chiuso, chiuso e inesorabile come la morte. Allora sul sangue scorse il pianto. E sangue e pianto della sua Mamma furono i primi che bagnarono quel luogo santo dove un Dio conobbe la morte per levare da morte l’uomo.
   Mi strapparono di là, ché là sarei rimasta se mi avessero lasciata. Là, ai piedi di quella porta di pietra, come una mendica in attesa di un obolo. Ero infatti la più misera delle donne e per vivere avevo bisogno di quest’obolo: rivedere il Figlio mio! Ero meno ancora di una mendica. Mi sarei accucciata là come una pecora che ha perduto il pastore, che è randagia, affamata, sola, e che torna al chiuso ovile, all’ovile senza più padrone, e si lascia morire di fame là, contro il muro serrato, poiché non ha più nessuno, e nel mondo pieno di lupi le pare d’esser ancora difesa se sta là, dove un tempo era chi l’amava… E non ero infatti un’agnella in mezzo a lupi feroci, e non m’era morto Colui che mi amava?
   Mi strapparono di là… Oh! che gli uomini nella loro pietà delle volte sono crudeli! Che sarebbero stati quei giorni per me, nell’ortaglia quieta, in attesa del risorgere del mio Gesù? Molto, molto meno strazianti di quelli che dovetti vivere altrove.
   Lì non vi era traccia di delitto. Le piante, buone e innocenti, continuavano a fiorire per dar lode a Dio. Gli uccelli, buoni e innocenti, a nidificare e cantare per ubbidire al Signore. Essi non odiavano, essi non avevano odiato, maledetto, ucciso. Avevano udito i clamori dell’odio e delle bestemmie e si erano rincantucciati nel folto spauriti mentre le piante rabbrividivano nel vento dell’ira. Avevano visto passare il loro Signore inseguito, percosso, ferito, morente, come uno di loro da uno sparviero o da una turba di perversi bambini, e ne avevano avuto pietà e paura pensando che era la fine di ogni creatura se era tratto a morte il Creatore che, così buono, aveva per loro avuto sempre parole d’amore e benedizioni e miche di pane.
   In quella pace avrei potuto sentire assopirsi il mio tormento e avrei pianto, senza sussulti di spasimo, sotto le stelle e nel sole d’oro, fino al momento che l’aurora domenicale m’avesse aperto le porte e reso il Figlio mio.
   Le guardie? Oh, che non avevo paura di esse! In un angolo mi sarei accucciata come una schiava in attesa del padrone e sarei parsa loro così spregevole che mi avrebbero dimenticata. E anche mi avessero dileggiata, che m’avrebbe fatto? Quanti dileggi non m’erano stati lanciati sulla cima del Golgota! Parole più atroci non avrei potuto udirne. Avevo bevuto tutta la feccia del turpiloquio umano e da allora nessuna atroce bestemmia a me, a me, mi stupisce. Le conosco tutte… Potevo dunque udire anche gli scherni di poche guardie assonnate.
   Ma mi hanno strappata di là… E ho dovuto tornare fra gli uomini. Gli uomini!… Gli uomini!… Le belve che mi avevano ucciso il Figlio. E fu il secondo Calvario della Madre…
   Ecco la strada!… È ancora sconvolta dalla fiumana di popolo che l’ha percorsa al mattino dietro al Condannato, e nel pomeriggio fuggendo dal monte. Per tornare a casa dovevo passare per un sentiero che era stato percorso dai crudeli.
   Ecco le tracce dei loro passi. Pedate in ogni senso e brandelli di stoffe, e oggetti perduti, come sempre dove una folla si riversa e nella calca si opprime a vicenda. Ognuno di quei segni, di quelle pedate, mi diceva: “Sono di un torturatore di tuo Figlio”.
   E poi ecco la via vera del Calvario, là al ponticello oltre la Porta… Qui le tracce si fanno più fitte, e più atroce il mio dolore… Qui vedo a terra pietre e randelli… e so a che uso sono serviti. Su essi certo è sangue della mia Creatura, perché me l’hanno percosso sulle membra già tanto straziate!… Oh! vorrei cercare su queste non colpevoli materie, che l’uomo fece colpevoli, il Sangue del mio Figlio. Ma non me lo lasciano fare. La notte scende. È il venerdì di Parasceve. Bisogna affrettarsi.
   Prima di volgere le spalle al Calvario per prendere la via che entra in città, mi volgo e nel crepuscolo della sera vedo tre ombre scure sul cielo già notturno: le tre croci. Su una è stato il Figlio mio! Il Figlio mio! Essa è stata il letto della sua agonia! La sua Mamma, che gli ha preparato tanta morbida cuna quando l’attendeva, e mai si era data pace che il primo sonno del suo Bambino avesse dovuto conoscere la durezza pungente di una lettiera di paglia, ha dovuto vederlo morire sul duro di un legno
   Oh! madri che piangete pensando alle agonie dei vostri figli estinti, pensate al mio dolore! Pensatelo voi tutte, donne dal cuore gentile, anche se madri non siete; pensatelo voi, uomini onesti e buoni, e anche voi, malvagi, se del tutto belve non siete o demoni maledetti, e abbiate pietà del mio dolore!
   Mi trascinano oltre la Porta che sta per esser chiusa. Ecco Gerusalemme… La matrigna che ha ucciso il Figlio del suo Sposo! L’assassina che si è avventata sull’inerme per sgozzarlo! La predona che lo ha atteso al varco per catturarlo e spogliarlo del suo unico tesoro: la vita.
   Non aveva che quello il mio Gesù, come uomo. Era povero, senza denaro, senza gioielli, senza possessi. Non aveva, da quando s’era fatto servo dell’uomo per guidare l’uomo cieco a Dio, più neanche la sua casetta materna, il letto fatto da chi gli fece da padre, il pane cotto dalla sua Mamma. Dormiva là dove un misericordioso l’accoglieva, e mangiava là dove un buono gli dava un pane. Altrimenti accoglievano il suo corpo stanco le erbe dei campi e vegliavano il suo sonno le stelle e provvedevano alla sua fame le spighe del grano maturo e le more selvatiche che sono cibo agli uccelli. Non aveva più di quanto ha il passero che cerca nel campo il suo cibo e nel fienile il suo riposo.
   Ma era giovane e sano. Aveva la vita… e gliel’hanno levata! Gerusalemme lo ha spogliato di questa sua vita. Come un vampiro ha succhiato tutto il suo sangue, come un avvoltoio lo ha ferito col rostro del suo livore, come una sadica ribelle lo ha torturato e confitto, godendo dei suoi spasimi, dei suoi tremiti, dei suoi singulti, delle sue convulsioni. Oh! che le vedo ancora tutte!…
   Poca gente nelle vie. Dopo il delitto i delinquenti si nascondono. Ma quei pochi, scantonanti furtivi nelle viuzze strette, scomparenti dentro le porticciuole subito serrate, come temessero irruzione di nemici, mi fanno sussultare di orrore. Forse quel vecchio è un suo accusatore… quel giovane l’ha forse bestemmiato e quell’uomo, membruto e tarchiato, malmenato e percosso… E ora fuggono, si nascondono, si rinserrano. Hanno paura. Di che? Di un morto. Per loro non è che un morto poiché hanno negato che è Dio. Di che hanno dunque paura? A chi chiudono le porte? Al rimorso. Alla punizione.
   Non giova. Il rimorso è in voi, e vi seguirà eterno. E la punizione non è umana. E contro essa non servono serrami e sbarre. Essa scende dal Cielo, da Dio vendicatore del suo Immolato, e penetra oltre mura e porte, e con la sua fiamma celeste vi marca per il castigo soprannaturale che vi attende. Il mondo verrà al Cristo, al Figlio di Dio e mio, verrà a Colui che voi avete trafitto, ma voi sarete gli in eterno segnati, i Caini di un Dio, l’obbrobrio della razza umana.
   E io che sono nata da voi, io che son Madre di tutti, devo dire che a me, vostra figlia, siete stati più che padrigni, e che nello sterminato numero dei miei figli voi siete quelli che più a me imponete fatica di accogliervi perché siete sozzi del delitto verso la mia Creatura, né ve ne pentite dicendo: “Eri il Messia. Ti riconosciamo e ti adoriamo”.
   Passa una ronda romana. I dominatori hanno paura della folla scatenata. Oh! non temete! Queste sono iene vili. Si avventano sull’agnello inerme, ma temono il leone armato di lance e di autorità. Non temete di questi striscianti sciacalli. Il vostro passo ferrato li pone in fuga e il brillare delle vostre lance li fa più miti di conigli.
   Ma quelle lance!… Una ha aperto il cuore del mio Figlio! Quale fra esse? Vederle mi è freccia nel cuore. E pure vorrei averle tutte fra queste mie mani che tremano, per vedere quale è quella che ancora ha tracce di sangue e dire: “È questa! Dàmmela, o soldato! Dàlla ad una Madre in ricordo della tua madre lontana. Ed io pregherò per lei e per te”. E nessun soldato me l’avrebbe negata, perché essi, gli uomini di guerra, furono i più buoni davanti alla agonia del Figlio e della Madre…
   Ecco la casa… Quante ore o quanti secoli sono passati da quando vi sono entrata ieri sera? Da quando ne sono uscita questa mattina? Sono proprio io, la Madre cinquantenne, o una vegliarda secolare, una donna dei primi tempi, ricca di secoli sulle spalle curvate e sulla testa canuta? Mi pare d’aver vissuto tutto il dolore del mondo e che esso sia tutto sulle mie spalle che piegano sotto il suo peso. Croce incorporea, ma così pesante! Di pietra. Pesante forse più di quella del mio Gesù. Perché io porto la sua e la mia col ricordo del suo strazio e con la realtà del mio strazio.
   Entriamo. Perché si deve entrare. Ma non è un conforto. È un aumento di dolore. Da questa porta è entrato il Figlio mio per l’ultimo suo pasto. Da questa porta ne è uscito per andare incontro alla morte. E ha dovuto mettere il suo piede là dove il suo traditore lo aveva messo uscendo per chiamare i catturatori dell’Innocente. Contro quell’uscio ho visto Giuda… Giuda ho visto!… E non l’ho maledetto, ma gli ho parlato da madre straziata, straziata per il Figlio buono e per il figlio malvagio… Ho visto Giuda!… Il demonio ho visto in lui! Io, che ho sempre tenuto Lucifero sotto il mio calcagno e guardando solo Dio non ho mai abbassato l’occhio su Satana, ho conosciuto il suo volto guardando il Traditore… Ho parlato al Demonio… ed esso è fuggito perché il Demonio non sopporta la mia voce…
   Oh! lasciatemi entrare in quella stanza dove il mio Gesù ha preso l’ultimo suo pasto! Dove la voce del mio Bambino ha detto le sue ultime parole in pace! Aprite! Aprite questa porta! Non potete chiuderla ad una madre! Ad una madre che cerca respirare nell’aria l’odore del fiato, del corpo del suo Bambino. Ma non sapete che quel fiato, che quel corpo gliel’ho dato io? Io, io che l’ho portato nove mesi, che l’ho partorito, allattato, allevato, curato? Quel fiato è mio! Quell’odore di carne è mio! È il mio, fatto più bello nel mio Gesù. Lasciatemelo sentire una volta ancora! Ho negli occhi la vista del suo Sangue e nel naso l’odore del suo Corpo piagato. Che io veda la tavola dove si appoggiò vivo e sano, che io senta il profumo del suo Corpo giovanile. Aprite! Non lo seppellite una terza volta! Già me lo avete celato sotto gli aromi e le bende. Poi me lo avete serrato oltre la pietra. Ora perché, perché negare ad una madre di ritrovare l’ultimo fastigio di Lui nell’alito che Egli ha lasciato oltre questa porta?
   Lasciatemi entrare. Cercherò per terra, sulla tavola, sul sedile, le tracce dei suoi piedi, delle sue mani, e le bacerò, le bacerò sino a consumarmi le labbra… Cercherò… cercherò… Forse troverò un capello del suo capo biondo. Un capello che non sia ingrommato di sangue. Ma lo sapete cosa è un capello del figlio morto per la sua mamma? Tu, Maria di Cleofa, e tu, Salome, siete madri, e non capite?
   Giovanni? Giovanni? Ascoltami. Io ti son Madre. Egli mi ha fatta tale356. Egli! Tu mi devi ubbidienza. Apri. Io ti amo, Giovanni. Ti ho sempre amato perché lo amavi. Ti amerò più ancora, ma apri. Apri, dico. Non vuoi? Non vuoi? Ah! non ho dunque più figli? Gesù non mi ricusava mai nulla perché m’era Figlio. Tu ricusi. Non sei tale. Non capisci il mio dolore!… Giovanni, perdona!… Apri… Non piangere… Apri…
   Gesù, Gesù! Ascoltami! Il tuo spirito operi un miracolo! Apri alla tua povera Mamma quest’uscio che nessuno le vuole aprire! Gesù, Gesù!… Io manco… Io muoio… Vengo con Te, Gesù… Vengo…»
   …e Maria, dopo aver percosso la porta coi suoi piccoli pugni tentando di aprirla, dopo essersi raccomandata, appoggiandosi alle donne, a Giovanni, si piega, più pallida di un giglio, e scivolerebbe a terra se non la prendessero di peso portandola nella stanza di fronte.
   Perché la visione che mi ha accompagnata durante il dettato finisce così.
   «Sai», dice poi Maria, «perché solo oggi ti ho dato queste parole? Perché non hai più il quaderno dove è detta la disperazione di Giuda357. Qui ne parlo. E anche questa è una prova che sono cose vere, perché uno che se le inventa da sé si confonde, non avendo modo di ricordare, e cade in bugia. E tu, stanca e debole come sei, non ricordi da un’ora all’altra. Fàllo notare al Padre che ti dirige, mio servo.»
   Infatti il quaderno se lo è portato via lei358 il 27 maggio.
   Gesù mi mostra una riunione di cristiani ai primissimi tempi dopo la Pentecoste. Dico “primissimi” perché i dodici – sono da capo dodici e perciò Mattia è già eletto359 – non si sono ancora divisi per andare ad evangelizzare la Terra. Perciò penso che sia da poco accaduta la Pentecoste. Però coi dodici sono, adesso, molti discepoli.
   Sono tutti nel Cenacolo, il quale ha subìto una modificazione necessaria alla sua nuova funzione e imposta dal numero dei fedeli. Il tavolone non è più contro la parete della scaletta, ma contro quella di faccia, di modo che anche coloro che non possono entrare nel Cenacolo, prima delle chiese di tutto il mondo – Gesù me lo fa riflettere – possono vedere ciò che avviene in esso, pigiandosi nel corridoio d’ingresso presso la porticina aperta completamente.
   Vi sono uomini e donne, di tutte le età. In un gruppo di donne, presso il tavolone ma in un angolo, è Maria circondata dalla Maddalena, Marta, Veronica, Maria di Cleofe, Salome, la padrona di casa. Le nomino come mi vengono, non per dare una speciale classificazione. Vi è anche un’altra che era anche sul Calvario. Ma non so come si chiama. Fra gli uomini riconosco Nicodemo, Lazzaro, Giuseppe d’Arimatea, e mi pare anche Longino, ma è… in licenza, dirò così, perché non è vestito da soldato, ma ha una veste lunga e bigiognola come fosse un cittadino. Forse se l’è messa per non dare nell’occhio. Non so. Altri non ne conosco.
   Pietro parla istruendo gli accolti. Racconta ancora dell’ultima Cena. Dico “ancora” perché è lui stesso che dice: «Vi dico ancora una volta di questa Cena in cui, prima d’essere immolato dagli uomini, Gesù Nazzareno, come era detto, Gesù Cristo, Figlio di Dio e Salvatore nostro, come va detto e creduto con tutto il cuore e la mente perché in questo credere è la salvezza nostra, si immolò di sua spontanea volontà e per eccesso di amore, dandosi in Cibo e Bevanda agli uomini dicendo: “Fate questo in memoria di Me”. E questo facciamo. Ma, o uomini, come noi, suoi testimoni, crediamo essere nel pane e nel vino, offerti e benedetti, come Egli fece, in sua memoria e per obbedienza al suo comando, il suo Ss. Corpo ed il suo Ss. Sangue – quel Corpo e quel Sangue che sono di un Dio, Figlio di Dio altissimo, e che sono stati crocifissi e sparsi per noi – così voi lo dovete credere. Credete e benedite il Signore che a noi, suoi crocifissori, lascia questo eterno segno di perdono. Credete e benedite il Signore, che a coloro che non lo conobbero quando era il Nazzareno permette lo conoscano ora che è il Verbo incarnato ricongiunto al Padre. Venite e prendete. Udite le parole che Egli vi dice. Venite e prendete. Egli l’ha detto: “Chi mangia la mia Carne e beve il mio Sangue avrà la vita eterna”. E noi allora non capimmo… (Pietro piange). Non capimmo perché eravamo tardi d’intelletto. Ma ora lo Spirito ha acceso la nostra intelligenza, fortificato la fede, infuso la carità, e noi comprendiamo. E nel Nome altissimo di Dio, del Dio di Abramo, di Giacobbe, di Mosè, nel Nome altissimo del Dio che parlò a Isaia, Geremia, Ezechiele, vi giuriamo che questa è verità e vi scongiuriamo di credere per avere vita eterna.»
   Pietro è pieno di maestà nel parlare. Non ha più nulla del pescatore alquanto rozzo di solo poco tempo prima. È montato su uno sgabello perché, bassotto come è, non sarebbe visto dai più lontani se stesse coi piedi al suolo, ed egli vuol dominare la folla. Parla misurato, con voce giusta e gesti da vero oratore. I suoi occhi, espressivi sempre, sono ora parlanti più che mai: amore, fede, imperio, contrizione, tutto traspare dallo sguardo e anticipa e rinforza le parole.
   Adesso scende dallo sgabello e passa dietro il tavolone fra il muro e questo, e attende.
   Giacomo e Giuda (Giacomo fratello di Giuda) stendono sulla tavola una tovaglia candida. Sollevano, per fare questo, il cofano largo e basso che è posto al centro del tavolo, e anche sul coperchio di quello stendono un lino finissimo.
   Giovanni va da Maria e le chiede qualche cosa. Ella si sfila dal collo una specie di chiavicina e la dà a Giovanni. Giovanni va al cofano e lo apre. Si apre ribaltando la parte davanti che viene appoggiata sulla tovaglia e ricoperta da un terzo lino.
   Nell’interno vi è una sezione orizzontale che divide in due piani il cofano. In basso è un calice e un piatto di metallo. In alto, al centro, il calice usato da Gesù, il pane spezzato da Lui su un piattello prezioso come il calice. Ai lati di questi, da un lato la corona di spine, i chiodi, la spugna. Dall’altra la sindone, il velo di Maria che fasciò i lombi di Gesù, e il velo della Veronica.
   Vi sono altre cose sul fondo, ma non capisco che sono né nessuno ne parla o le mostra. Mentre per queste che ho detto, meno il calice e il pane che restano dove sono, vengono presi e mostrati alla folla, che si inginocchia, da Giovanni e Giuda.
   Poi gli apostoli intonano delle preghiere, degli inni, direi, perché sono cantilenati. La folla risponde.
   Infine vengono portati dei pani e posti sul vassoio di metallo (non quello di Gesù) e delle piccole anfore.
   Pietro riceve da Giovanni, che sta inginocchiato al di qua del tavolo – mentre Pietro è sempre fra il tavolo e il muro, col volto verso la folla – il vassoio coi pani, e Pietro lo alza e offre. Poi lo benedice e lo posa sul cofano. Giuda porge, stando anche lui in ginocchio, il calice (non quello di Gesù) e due anfore dalle quali Pietro mesce nel calice e offre. Poi benedice e posa sul cofano.
   Pregano ancora, poi Pietro spezza i pani in molti bocconi, mentre la folla si prostra più ancora, e dice: «Questo è il mio Corpo. Fate questo in memoria di Me».
   E poi esce da dietro il tavolo portando seco il vassoio carico di bocconi di pane e per prima cosa va da Maria e le dà un boccone. Poi passa sul davanti del tavolo e distribuisce il pane. Ne restano pochi bocconi che vengono, sempre sul loro vassoio, deposti sul cofano. Poi prende il calice e lo gira, cominciando da Maria, fra i convenuti. Giovanni e Giuda lo seguono con le an­forette e mescono quando il calice è vuoto.
   Quando tutto è distribuito, gli apostoli consumano i bocconi rimasti e il vino. Indi cantano un altro inno e poi Pietro benedice e la folla se ne va poco a poco.
   Maria si alza – è sempre rimasta in ginocchio – e va al cofano. Si curva attraverso il tavolone e tocca con la fronte il piano del cofano deponendo un bacio sull’orlo del calice di Gesù. Un bacio che è per tutte le reliquie ivi raccolte. Poi Giovanni chiude e rende la chiave a Maria.
   Credo di avere visto, esattamente, come era all’inizio, la S. Messa. E, di questo ne sono certa, entro il tempo pentecostale Gesù, secondo la sua promessa, mi accontenta nella seconda cosa che volevo sapere (29-5). Perché le anime le vedevo di diverso colore, me lo spiega nel dettato del 31 maggio.
   E cosa c’era nel cofano così caro a Maria lo so ora. Esso era insieme reliquiario e primo tabernacolo. E molto mi piace pensare che era Maria colei che lo possedeva e ne aveva la chiave. Maria: la Tesoriera di tutto quanto è Gesù, la Sacerdotessa della più vera Chiesa.

   [Seguono, con date del 4, 5 e 6 giugno, i capitoli 27, 28 e 29 dell’opera L’EVANGELO]

[355] hai detto, nella “visione” descritta il 19 febbraio.
[356] mi ha fatta tale, come si legge in Giovanni 19, 26-27.
[357] la disperazione di Giuda, episodio scritto il 31 marzo, forma il capitolo 605 dell’opera maggiore.
[358] lei è, come sempre, Padre Migliorini (note al 1° gennaio, 4 e 22 febbraio, 4 e 16 marzo). Sulla riga bianca che segue, nel quaderno autografo, la scrittrice annota a matita: Penitenza speciale per Paola (nota su Paola Belfanti al 2 gennaio). Prima della “visione” seguente, la scrittrice ripete la data del 3-6-1944. La stessa “visione”, copiata dalla scrittrice su un altro quaderno con la stessa data e con l’aggiunta di alcuni particolari, formerà il capitolo 641 dell’opera maggiore.
[359] Mattia è già eletto. L’elezione di Mattia, riferita in Atti 1, 15-26, sarà scritta il 26 aprile 1947 ed è il capitolo 639 dell’opera maggiore. Della Pentecoste, o Discesa dello Spirito Santo, abbiamo trattato in nota al 28 maggio.