MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MINORE

A A A

QUADERNI DEL 1944 CAPITOLO 367


23 luglio 1944

   La bontà del Signore mi concede il proseguimento della visione.
   Vedo così il battesimo dei due fratelli, istruiti certo dal Pontefice Urbano e da Cecilia. Lo comprendo perché Valeriano dice nel salutare Urbano: “Or dunque tu, che mi hai dato la conoscenza di questa gloriosa Fede, mentre Cecilia mia me ne ha dato la dolcezza, aprimi le porte della Grazia. Che io sia di Cristo per esser simile all’angelo che Egli m’ha dato per sposa e che mi ha aperto vie celesti in cui procedo dimentico di tutto il passato. Non tardare oltre, o Pontefice. Io credo. E ardo di confessarlo per la gloria di Gesù Cristo, nostro Signore”.
   Questo lo dice alla presenza di molti cristiani, che appaiono molto commossi e festanti e che sorridono al nuovo cristiano e alla felice Cecilia che lo tiene per mano, stando fra sposo e cognato, e che sfavilla nella gioia di quest’ora.
   La chiesa catacombale è tutta ornata per la cerimonia. Riconosco drappi e coppe preziose che erano nella dimora di Valeriano. Certo sono stati donati per l’occasione e per inizio di una vita di carità dei nuovi cristiani.
   Valeriano e Tiburzio sono vestiti di bianco senza nessun ornamento. Anche Cecilia è tutta bianca e pare un bell’angelo.
   Non vi è fonte battesimale vero e proprio. Almeno in questa catacomba non c’è. Vi è un largo e ricchissimo bacile appoggiato su un basso tripode. Forse in origine era un brucia-profumi in qualche casa patrizia o un brucia-incensi. Ora fa da fonte battesimale. Le laminature d’oro, che rigano con greche e rosoni l’argento pesante del bacile, splendono alla luce delle numerose lampadette che i cristiani hanno in mano.
   Cecilia conduce i due presso il bacile e sta loro al fianco mentre il Pontefice Urbano, usando una delle coppe portate da Valeriano, attinge l’acqua lustrale e la sparge sulle teste chine sul bacile pronunciando la formula sacramentale. Cecilia piange di gioia e non saprei dire dove guardi di preciso, perché il suo sguardo, pur posandosi carezzoso sullo sposo redento, pare vedere oltre e sorridere a ciò che solo lei vede.
   Non vi è altra cerimonia. E questa termina con un inno e la benedizione del Pontefice. Valeriano, con ancora gocce di acqua fra i capelli morati e ricciuti, riceve il bacio fraterno dei cristiani e le loro felicitazioni per avere accolto la Verità.
   “Non ero capace di tanto, io, infelice pagano avvolto nell’errore. Ogni merito è di questa soave mia sposa. La sua bellezza e la sua grazia avevano sedotto me uomo. Ma la sua fede e la sua purezza hanno sedotto lo spirito mio. Non le ho voluto essere dissimile per poterla amare e comprendere più ancora. Di me, iracondo e sensuale, ella ha fatto ciò che vedete: un mite e un puro, e spero, con l’aiuto di lei, crescere sempre più in queste vie. Ora ti vedo, angelo del verginale candore, angelo della sposa mia, e ti sorrido poiché mi sorridi. Ora ti vedo, angelico splendore!… La gioia del contemplarti è ben superiore ad ogni asprezza di martirio. Cecilia, santa, preparami ad esso. Su questa stola io voglio scrivere col mio sangue il nome dell’Agnello”.
   L’assemblea si scioglie e i cristiani tornano alle loro dimore.
   Quella di Valeriano mostra molti mutamenti. Vi è ancora ricchezza di statue e suppellettili, ma già molto ridotta e soprattutto più casta. Mancano il larario e i bracieri degli incensi davanti agli dèi. Le statue più impudiche hanno fatto posto ad altri lavori scultorei che, per essere o rappresentazioni di bambini festanti o di animali, appagano l’occhio ma non offendono il pudore. È la casa cristiana.
   Nel giardino sono raccolti molti poveri e ad essi i neo-cristiani distribuiscono viveri e borse con oboli. Non vi sono più schiavi nella casa, ma servi affrancati e felici.
   Cecilia passa sorridente e benedetta, e la vedo poi sedersi fra sposo e cognato e leggere loro dei brani sacri e rispondere alle loro domande. E poi, ad istanza di Valeriano, ella canta degli inni che allo sposo devono piacere molto. Comprendo perché sia patrona della musica. La sua voce è duttile e armoniosa, e le sue mani scorrono veloci sulla cetra, o lira che sia, traendone accordi simili a perle ricadenti su un cristallo sottile e arpeggi degni della gola di un usignolo.
   E non vedo altro perché la visione mi cessa su questa armonia.
   Ritrovo Cecilia sola e comprendo già perseguitata dalla legge romana.
   La casa appare devastata, spoglia di quanto era ricchezza. Ma questo potrebbe esser opera anche degli sposi cristiani. Il disordine invece fa pensare che siano entrati con violenza e con ira i persecutori ed abbiano manomesso e frugato ogni cosa.
   Cecilia è in una vasta sala seminuda e prega fervorosamente. Piange, ma senza disperazione. Un pianto dato da un dolore cristiano in cui è fuso anche conforto soprannaturale.
   Entrano delle persone. “La pace a te, Cecilia” dice un uomo sulla cinquantina, pieno di dignità.
   “La pace a te, fratello. Lo sposo mio?…”.
   “Il suo corpo riposa in pace e la sua anima giubila in Dio. Il sangue del martire, anzi dei martiri, è salito come incenso al trono dell’Agnello unito a quello del persecutore convertito. Non abbiamo potuto portarti le reliquie per non farle cadere in mano dei profanatori”.
   “Non occorre. La mia corona già scende. Presto sarò dove è lo sposo mio. Pregate, fratelli, per l’anima mia. E andate. Questa casa non è più sicura. Fate di non cadere fra le unghie dei lupi perché il gregge di Cristo non sia senza pastori. Saprete quando sarà l’ora di venire, per me. La pace a voi, fratelli”.
   Intuisco da questo che Cecilia era già in stato d’arresto. Non so perché è lasciata in casa sua, ma è già, virtualmente, prigioniera.
   La vergine prega, avvolta in una luminosità vivissima e, mentre delle lacrime scendono dai suoi occhi, un sorriso celeste le schiude le labbra. È un contrasto bellissimo in cui si vede il dolore umano fuso col gaudio soprannaturale.
   Mi viene risparmiata la scena del martirio. Ritrovo Cecilia in una specie di torre, dico così perché l’ambiente è circolare come una torre. Un ambiente non vasto, piuttosto basso, almeno mi pare per la nebbia di vapore che lo empie e specie verso l’alto fa nube che vieta di vedere bene. È sola anche ora. Già abbattuta, ma non ancora nella posa che è stata eternata nella statua del Maderni (mi pare).
   È su un fianco come se dormisse. Le gambe lievemente flesse, le braccia raccolte a croce sul seno, gli occhi chiusi, un lieve ansare di respiro. Le labbra molto cianotiche si muovono lievemente. Certo prega. Il capo posa sulla massa dei capelli semisfatti come su un serico cuscino. Il sangue non si vede. È scolato via dai buchi del pavimento che è tutto traforato come un crivello. Solo verso la testa il marmo bianco mostra anelli rossastri ad ogni buco come li avessero, questi buchi, tinti all’interno con del minio.
   Cecilia non geme, non piange. Prega. Ho l’impressione che sia caduta così quando fu ferita e che così sia rimasta forse per impossibilità di alzare il capo, il collo in specie, dai nervi recisi. Pure la vita resiste. Quando ella sente che la vita sta per fuggire, fa uno sforzo sovrumano per muoversi e porsi in ginocchio. Ma non ottiene che di fare una semirotazione su se stessa e cadere nella posa che le vediamo490, sia del capo che delle braccia, sulle quali si è inutilmente puntellata, e che sono slittate sul marmo lucido senza sorreggere il busto. Là dove era prima il capo appare una chiazza rossa di sangue fresco, ed i capelli da quel lato della ferita491 sono simili ad una matassa di fili porpurei, imbevuti di sangue come sono.
   La santa muore senza sussulti in un ultimo atto di fede, compiuto dalle dita per la bocca che non può più parlare. Non vedo l’espressione del volto perché è contro il suolo. Ma certo ella è morta con un sorriso.
   Dice Gesù:
   «La fede è una forza che trascina e la purezza un canto che seduce. Ne avete visto il prodigio.
   Il matrimonio deve essere non scuola di corruzione ma di elevazione. Non siate inferiori ai bruti, i quali non corrompono con inutili lussurie l’azione del generare. Il matrimonio è un sacramento. Come tale è, e deve rimanere, santo per non divenire sacrilego. Ma anche non fosse sacramento, è sempre l’atto più solenne della vita umana i cui frutti vi equiparano quasi al Creatore delle vite, e come tale va almeno contenuto in una sana morale umana. Se così non è, diviene delitto e lussuria.
   Due che si amino santamente, dall’inizio, sono rari, perché troppo corrotta è la società. Ma il matrimonio è elevazione reciproca. Deve esser tale. Il coniuge migliore deve essere fonte di elevazione, né limitarsi ad esser buono, ma adoperarsi perché alla bontà giunga l’altro.
   Vi è una frase492 nel Cantico dei cantici che spiega il potere soave della virtù: “Attirami a te! Dietro a te correremo all’odore dei tuoi profumi”.
   Il profumo della virtù. Cecilia non ha usato altro. Non è andata con minacce e sussieghi verso Valeriano. Vi è andata intrisa, come sposa da presentarsi al re, nei suoi meriti come in tanti odoriferi oli. E con quelli ha trascinato al bene Valeriano.
   “Attirami a Te” mi ha detto per tutta la vita, e specie nel­l’ora in cui andava alle nozze. Sperduta in Me, non era più che una parte di Cristo. E come in un frammento di particola vi è tutto Cristo, così in questa vergine vi ero, operante e santificante come fossi stato di nuovo per le vie del mondo.
   “Attirami a Te, perché Valeriano ti senta attraverso di me e noi (ecco l’amore vero della sposa) e noi correremo dietro di Te”. Non si limita a dire: “e io correrò dietro di Te perché non posso più vivere senza sentirti”. Ma vuole che il consorte corra a Dio insieme a lei perché lui pure santamente nostalgico dell’odore di Cristo.
   E vi riesce. Come capitano su nave investita dai marosi – il mondo – ella salva i suoi più cari e per ultima lascia la nave, solo quando per essi è già aperto il porto di pace. Allora il compito è finito. Non resta che testimoniare ancora, oltre la vita, la propria fede.
   Non vi è più bisogno di pianto. Esso era di amoroso affanno per i due che andavano al martirio e che, perché uomini, potevano esser tentati all’abiura. Ora che sono santi in Dio, non più pianto. Pace, preghiera e grido, muto grido di fede: “Io credo nel Dio uno e trino”.
   Quando si vive di fede, si muore con uno splendore di fede in cuore e sul labbro. Quando si vive di purezza, si converte senza molte parole. L’odore delle virtù fa volgere il mondo. Non tutto si converte. Ma lo fanno i migliori fra esso. E ciò basta.
   Quando saranno cognite le azioni degli uomini, si vedrà che più delle altisonanti prediche sono valse a santificare le virtù dei santi sparsi sulla Terra. Dei santi: gli amorosi di Dio.»

[490] nella posa che le vediamo nella statua del Maderno (non Maderni, come erroneamente scrive sedici righe più sopra) che si può ammirare nella Basilica di Santa Cecilia in Trastevere, a Roma. Commissionata dal cardinale Paolo Sfondrati allo scultore Stefano Maderno, la statua raffigura il corpo della santa martire nella posizione in cui venne rinvenuto nel 1599.
[491] ferita è lettura incerta, che potrebbe anche interpretarsi fronte.
[492] frase che è in Cantico dei cantici 1, 4, un po’ diversa da questa riportata qui e che è ripresa dall’antica volgata (1, 3).