MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MINORE

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QUADERNI DAL 1945 AL 1950 CAPITOLO 474


20 aprile 1945

   Vedo insistentemente un rudere di corpo umano carbonizzato. È una vista pietosa e paurosa. È tanto corroso dalle fiamme che sembra un'informe statua di ferro estratta da un fondo di mare. Ancora si comprende la testa nelle sue linee principali del naso, zigomi e mento, ma manca ad essa la rotondità delle guance, la parte carnosa del naso, le orecchie, le labbra. Tutto è rinsecchito o distrutto. E così le estremità, simili nelle braccia e nelle gambe a rami semicombusti, alle quali il calore ha cambiato aspetto come fossero di cera rivestente tendini che si sono rattratti per l'ardore e che hanno rattrappito e contorto piedi e mani. Naturalmente mancano capelli e sopracciglia. Né potrei dire se fu uomo o donna, giovane o adulto, biondo o bruno quel povero essere giacente riverso sui resti di un fuoco ormai spento. Il luogo pare essere alla periferia di una città, là dove incomincia la campagna, in una zona desolata, sassosa, lugubre.
   Contemplo e contemplo questo povero corpo abbandonato in questo luogo e mi viene fatto di chiedere: "Ma chi sei?".
   Non ho risposta per molte ore. Ma adesso io, pur ritrovandomi in quello stesso luogo, lo vedo animato di persone vestite all'antica che lavorano alla costruzione di un poderoso rogo di fascine mescolate a tronchetti robusti, solido, atto a bruciare molto bene. E poi ancora vedo venire dalla parte della città, che non so quale sia, ma certo è prossima al mare che scintilla là in fondo sotto il sole meridiano, un corteo di armati e di popolo.
   Una giovane, poco più che adolescente, è in mezzo ad esso. Viene condotta al rogo. Era per lei. Vi sale tranquilla, sicura, con quell'espressione di suprema e sognante pace che ho visto sempre sul volto dei martiri.
   Fino ai piedi della catasta la segue, e là la saluta, una donna velata e anziana, come la mostrano le forme piuttosto pingui e quel poco che di lei appare quando per baciare la giovinetta si alza il velo. Non le dice una parola. Ma solo baci e pianto. La vogliono respingere, e duramente le impongono di allontanarsi mentre già le prime fiamme lambiscono la catasta, appiccate alle eriche asciutte delle fascine. Ma con una dignità non priva di alterezza ella risponde — a quelli che le dicono: "Perché ti interessi di questa ribelle? Ne sei parente? Vattene. Non si può stare a dare conforto ai nemici di Cesare" —: "Sono Anastasia, dama romana, sorella a costei. È mio diritto restare presso di lei come presso le sorelle di ieri. Lasciatemi, o me ne appellerò all'imperatore".
   La lasciano stare ed ella guarda la giovinetta verso cui salgono lingue di fiamma e ondate di fumo che a intervalli la nascondono. La guarda così serena e sorridente al suo sogno spirituale, insensibile ai morsi delle fiamme che per prime le si apprendono ai capelli che ardono in una fumosa lingua di fuoco, poi alle vesti… finché, a sostituzione della bianca veste, arsa dalle fiamme, lo strumento stesso del martirio le fa una splendida veste di fuoco vivo, e dietro ad esso la cela agli sguardi della folla.
   "Addio, Irene. Ricordati di me quando sarai in pace" grida Anastasia. E da dietro al velo del fuoco risponde la giovane voce tranquilla: "Addio. Già parlo di te con…". Non si sente più che il ruggire delle vampe…
   I soldati e gli esecutori della sentenza si allontanano quando comprendono che la morte è sopravvenuta, lasciando che il rogo termini la sua distruzione da solo.
   Anastasia non si muove. Fissa fra l'ardore del fuoco e quello del sole, che è forte in questa arida zona, attende… Finché sopraggiungono le ombre crepuscolari nelle quali splende debolmente qualche superstite guizzo fra le legna del rogo. Sembrano scrivere parole misteriose, narrando alla sera le glorie della giovane martire.
   Allora Anastasia si muove. Non va verso il rogo. Ma va verso una casupola in rovina che è poco lontano, già spersa per la spoglia campagna. Vi entra, va sicura, al chiarore di un primo raggio di luna, in un incolto orticello, si china su un pozzo e chiama. La sua voce ha risonanza di bronzo nel cavo del pozzo. Più voci le rispondono. E delle ombre emergono l'una dopo l'altra dal pozzo che deve essere asciutto.
   "Venite. Non c'è più nessuno. Venite. Prima che le facciano spregio. È morta da angelo come visse. Non ho toccato le ceneri perché… tutto le ho dato come il Padre dell'anima mia mi ordinò. Ma… oh! è troppo orribile trovare ridotto a carbone un giovane giglio!".
   "Ritirati, domina. Noi faremo per te".
   "No. Mi devo abituare a questo supplizio. Egli me lo ha detto. Ma allora non sarò sola. Ella e le sorelle saranno con gli angeli al mio fianco. Ora siatevi voi, fratelli di Tessalonica".
   Vanno verso il rogo definitivamente spento: mucchio di ceneri sparse su cui è posato il corpo carbonizzato già prima visto. Anastasia piange piano mentre, con l'aiuto dei cristiani, involge in un drappo prezioso il corpo che la fiamma ha mummificato. Poi lo posano su una barella e il piccolo, pietoso corteo, costeggiando il limite della città, raggiunge una vasta casa di bella presenza dentro cui penetrano, deponendo in un cimitero scavato nel giardino la salma, mentre uno, certo sacerdote, la benedice fra lenti canti dei cristiani presenti.
 

   [Seguono, in data 21, 22 e 23 aprile 1945, i capitoli 142, 143 e 144 dell'opera L'EVANGELO]