MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MINORE

A A A

AUTOBIOGRAFIA CAPITOLO 16


Senza Titolo

 Offrirsi all'Amore è offrirsi a tutti i dolori
 (S. Teresa del B. Gesù)

   
   Santa Teresa di Avila ha scritto nel suo "Cammino di Perfe­zio­­ne": «Quale differenza deve trovare fra l'amore umano e l'amo­re divino colui che ha provato l'uno e l'altro!».
   È vero. L'alba di una nebbiosa giornata invernale paragonata all'alba tersa e pura di una radiosa mattinata estiva, il piccolo stagno dalle sponde limitate rispetto all'aperto mare che ha per confine l'orizzonte sconfinato, il focherello di pochi sterpi rispetto alla fornace di un forno fusorio, il tremolante guizzo di una povera lucerna rispetto al folgorante sole, sono meno distanti fra loro in somiglianza se si confronta la differenza che c'è fra l'amore umano, anche il più vertiginoso, coll'amore divino.
   Io avevo amato due volte. Una con l'ardore dei miei anni giovanili, e in questo avevo conosciuto anche le febbri della carne; l'altra avevo amato più con l'anima che con la carne e, appunto perché amore della parte più eletta, aveva dato a me estasi e elevazioni ben più nobili e durature del primo. L'amore puramente umano è destinato a breve vita, anche se fu ardentissimo nella sua ora fugace, mentre l'amore misto di anima e corpo, di attrazione di spiriti e di materia, l'amore-amicizia, è più tenace e neppure il disinganno lo uccide. In questo aveva avuto molto ragione il colonnello a profetizzarmi che avrei amato Mario come neppur lontanamente avevo amato Roberto.
   Ma ora, ora che amavo Gesù in una maniera più intensa di quella che non sia la comune alla grande massa dei credenti in Lui, ora capivo tutta la differenza di questo amore sovrannaturale dal mio, dai miei, anzi, amori umani.
   Io ormai vivevo tutta proiettata in questo amore. Le cose di fuori esistevano ancora e mi davano pensieri, gioie e pene. Soprattutto pene. Ma ormai queste cose io le vedevo già da altre plaghe, come attraverso un vetro, una lente che me le cambiava alquanto, rendendomi sopportabili i pensieri crucciosi, non indispensabili le gioie e amabili le pene. Vedevo ormai tutto attraverso a Dio. Egli era la lente che mi faceva vedere le cose sotto una luce diversa da quella che avrebbero avuto per me e per tutti, se questi tutti e se io le avessimo guardate con occhio e giudizio umani. Credevo ormai che tutto avvenisse per una legge di amore, amore geloso magari e prepotente, ma che colla sua gelosia e prepotenza mi confessava di essere un grande amore.
   Oh, sì! Gesù sa essere geloso e prepotente! Di una divina gelosia e di una divina prepotenza ma alla quale, se si è detto di sì una volta, con piena coscienza, non si sfugge più. Gesù mi aveva chiesto quel sì in Collegio e ora, dopo avermi persuasa che sulla terra tutto è tristezza, faceva valere i suoi diritti.
   Quanto dico potrebbe parere una contraddizione con quanto ho detto in principio di questa mia storia. Ma non lo è. Ho detto allora che Dio non si impone ma per agire vuole che l'anima sia disposta ad essere mossa. Solo allora la valanga si forma. E così e non vi è contraddizione alcuna.
   Nella adolescenza avevo detto: «Signore, io sono a tua disposizione». E la prima falda di neve si era formata ingrandendosi poi piano piano con i continui atti di desiderio che l'anima formava allora.
   Poi vi era stata una sosta. Qualcosa aveva trattenuto il formarsi e il precipitare più forte della valanga. Ed era stato il mio periodo umano, il periodo delle distrazioni, meglio delle deviazioni. E Gesù aveva atteso. Solo nel momento più tremendo di esse, per salvarmi dalla rovina, aveva fatto un gesto per richiamarmi. Era venuto col sogno a dirmi il suo dolce rimprovero, a farmi riflettere, a farmi fermare nella mia corsa verso il male.
   E poi aveva di nuovo atteso. Paziente, buono, mi aveva dato tutto il tempo di guarire moralmente e intanto, pur non parendo, lavorava a isolarmi. Oh! in questo fu molto attivo! Mi voleva… e mi levò tutto perché non mi restasse altro che Lui.
   Quando poi io ho gridato: «Voglio esser tua», allora Egli si è impossessato di me in maniera assoluta, ed io non ebbi più un palpito, un respiro, uno sguardo, una parola, un pensiero che non passasse attraverso il filtro divino del suo amore, come nulla dal di fuori veniva in me se non passando attraverso il medesimo filtro divino.
   Così dura da vent'anni ormai e l'immedesimazione è andata facendosi sempre più stretta e il filtro sempre più perfetto, di modo che il male che può venirmi dagli altri si attutisce contro quel divino riparo e il bene che io posso fare si espande sul prossimo sempre più puro, perché l'amore lo monda da tutte le imperfezioni umane. Soffro ancora molto perché è mio destino che io soffra, ma il dolore che mi viene dagli uomini è attutito dalla gioia che mi viene dal Cristo. Per cui mi dico, e sono persuasa di questo che dico, che sono giunta a capire che gli unici veri dolori di un cuore sono quelli che vengono da Dio per nostra prova o per nostra punizione.
   I dolori che vengono dagli uomini ci fanno piangere, è naturale. Ha pianto anche Gesù. Ma anche noi come Lui nel pianto sentiamo fondersi una dolcezza pensando che anche quel dolore che ci viene dal prossimo serve a redimere, ad espiare, ad ottenere per il prossimo. Quando invece Dio ci colpisce ritirandoci la sua invisibile presenza e lasciandoci apparentemente soli, allora si soffre molto, come non si può descrivere. Credo sia una figura ridotta di quello che devono soffrire i purganti nel Purgatorio, e non voglio neppure pensare ai dannati dell'Inferno.
   O mio dolore che mi vieni da Dio e che hai mille volti, che tu sia benedetto! Benedetto tu quale sei ora: dolore di malattia, dolore di povertà che avanza, dolore di incomprensione dei miei simili intorno al mio letto d'inferma, dolore dato da infinite cose attuali! E benedetto tu, quale fosti negli anni passati: dolore di esser derisa come malata immaginaria, dolore di non vedere mio padre nell'ora estrema, dolore di non essere capita nel mio fuoco d'apostolato, dolore di disamore materno sempre, sempre, sempre uguale! E benedetto tu, dolore, per quando, non comprendendoti nella tua veste regale, non t'amai: dolore dei miei vent'anni e del mio amore spezzato! Benedetto, benedetto, o Dolore, che mi hai levata al mondo e mi hai data a Dio! Benedetto per la scienza che da te m'è venuta! Benedetto per la carità che mi hai infusa! Benedetto per l'ala che hai resa al mio io onde ho potuto raccogliermi in cielo con tutti i miei desideri più santi! Benedetto, o Dolore, che mi hai unita a Gesù sulla medesima croce e in un'unica missione, che da venti secoli si perpetua, per portare le anime al Regno di Dio e il Regno di Dio nelle anime! Mai finirò di benedirti, o Dolore, o mia gioia, perché in te ho trovato la pace!
  

   Fu nella primavera del 1923 che io scrissi la mia prima offerta a Dio. Quella preghiera, che ho ripetuta per otto anni, deve essere ancora in qualche mio libro di devozione. In essa mi umiliavo al cospetto di Dio per le mancanze passate e gli chiedevo di essere perdonata in nome della sua divina misericordia.
   Ma siccome cominciavo a vedere sempre più chiaro la volontà di Dio quale era a mio riguardo, sentivo anche che chiedere perdono non bastava come non bastava l'amarlo. Il mio amore doveva essere un amore penitente… come quello della Maddalena la cui vita mi aveva così colpita durante quella predica degli Esercizi 1912.
   Tutto si ritrova di quanto si è chiesto a Dio, ho detto sul principio di questa storia, ma tutto si ritrova anche di quello che Dio ha seminato, purché l'anima si curvi su sé stessa cercando il seme divino. Io ricordavo ora che in quel lontano giorno del novembre 1912 Gesù mi aveva detto: «Tu non sarai simile ad Agnese1, la pura, l'innocente che non vide altro che Me. Tu sarai una che viene a Me per altre vie, dopo tante esperienze, e che mi ama attraverso il pentimento e il sacrificio continuo, lungo, nascosto».
   Perciò in quella mia prima offerta dicevo a Gesù di concedermi «la grazia di aver tempo di espiare il male commesso e, per riparare a tutte le mie ore di disperazione, di farmi vivere nel dolore tanti anni quanti ne avevo passati nell'errore e nella impazienza non santa di uscire dalla vita».
   Come vede, pregavo ancora egoisticamente. Per l'anima mia, è vero, per riparazione verso di Lui, è vero. Ma non è ancora preghiera perfetta. Più tardi ho pregato meglio… Ero in principio, allora, e quando si è… alle aste non si può pretendere di scrivere già una lettera. Le pare?
   Chiedevo anche in quell'offerta che Dio mi concedesse la gioia di portargli delle anime e specialmente quelle dei miei genitori e di Mario.
   Ma anche qui, se la richiesta era buona in sé, io sbagliavo nel mezzo. Non sapevo ancora che la preghiera è molto ma il sacrificio è tutto.La parola fa, ma il silenzio che copre un'immolazione fa mille volte tanto. Io allora, nel mio zelo di convertita, parlavo molto. Ma ero ancora contraria al soffrire molto. Mi pareva di fare già tanto a non lamentarmi del dolore che mi colpiva, subendolo con rassegnazione e ringraziandone Iddio. Più tardi andai molto più avanti…
   Eppure, come è buono Gesù! Alla sua Maria che aveva uno zelo ancora molto zoppicante, ancora molto intriso di umanità, Dio concesse la sua prima conquista.
   Fu una vecchietta di 72 anni. Per un complesso di cose penose si era staccata da un trent'anni da Dio, facendo colpa a Lui di tutte le sventure che le erano accadute. Era nelle mie medesime condizioni di un tempo, ma con la differenza a suo danno di esservi da tanto tempo e di non uscirne neppure quando l'età faceva presumere prossima la morte.
   Io non potevo vantarmi di essere stata più brava di lei. La bontà di Dio aveva accelerato con mille maniere la mia resurrezione, ma appunto per questo volli essere io un agente di bene per la mia vecchia amica, direi quasi il filo conduttore. Mi spiaceva che quella vecchina rimanesse con quel rancore, con quell'amaro tremendo della non fede fino alla fine. Alla sua vecchiezza volli dare il conforto di una giovinezza del cuore. Una seconda giovinezza ma più dolce e utile della prima. Vi riuscii. La mia cara vecchina si riaccostò a Dio ed è con Lui tuttora, poiché vive ancora, nonostante i suoi 92 anni…
   Ne fui orgogliosa di un santo orgoglio. Già due anime avevo portato a Gesù: la mia e quella della vecchina. Veramente la mia… se non era Lui a prendersela, si stava freschi!… Ma insomma, dopo il suo primo soccorso, io andavo avanti con buona volontà.
   Dopo questa mia prima conquista andai sempre meglio. Il mio desiderio di essere uno strumento di Dio aumentava e mi si delineava alla mente tutto un programma di vita penitente, resa ancora più difficile dal tenore di vita familiare.
   Perché mamma non condivide certe idee. Se le paiono soverchie anche le frequenti visite alla chiesa e le comunioni, si immagini che effetto le fanno le teorie di mortificazione!… Io ho sempre l'impressione di avere un bavaglio sulle labbra… Cerco di parlare il meno possibile, o meglio cercavo di parlare il meno possibile di cose spirituali anche quando la forza dell'amore era tale da darmi una vera ansia di parlarne. Ora ne parlo senza ritegno pensando che qualcosa penetrerà in quel cuore così chiuso al soprannaturale. Ma ho l'impressione di parlare turco o indiano… Lei non capisce, e buona grazia se sta zitta e se non mi applica un'etichetta di «pazza».
   Non importa. Io vado avanti lo stesso. Esser ritenuta pazza per amore di Cristo è cosa che mi colma di gioia. Tutti i veri innamorati di Gesù sono dei pazzi, dei divini pazzi: martiri, penitenti, claustrati, tutti coloro che rinunciano alla libertà, alla vita, alla riputazione umana, alla ricchezza, alla salute per amore di Dio, che altro non sono se non dei folli? Dei folli la cui follia è quella stessa che portò Gesù sulla croce, la «follia della Croce» di cui parla Paolo2, l'Apostolo dalla parola ardente e dall'audace cuore. Non mi bastava più la prima offerta che sentivo incompleta e inquinata da vene ancor troppo umane. Lo sguardo di Gesù era sempre più vivo in me e mi attirava sempre più in alto.
   Passò così tutto il 1923 e buona parte del 1924. In famiglia i soliti fatti di intransigenza e di dispotismo. Ma mi rifugiavo in Dio…
   Nel settembre 1924 dovemmo venire a Viareggio. A Firenze il proprietario di casa esigeva l'appartamento con il bugiardo pretesto di allogarvi il figlio che si sposava e colla vera intenzione di affittarlo a nuovi inquilini decuplicandone l'affitto. Storia vecchia e sempre nuova.
   Mio papà allora si decise a scrivere ai parenti di Calabria per vedere se ci trovavano là una casetta. Ma quello che sarebbe stato facile nel 1921 era ora difficile. La gente riaffluiva a Reggio che risorgeva dalle sue rovine con nuove case e belle vie, e casette vuote non ce n'erano mai. Anche all'albergo, dove prima ci avrebbero tenuti tanto volentieri, ormai si erano accomodati con altri parenti che li aiutavano nella sorveglianza del personale. Aggiunga anche un poco di risentimento per l'ostinatezza di pa­pà, durata quattro anni, e comprenda che tutto si risolse in un: «Non potete venire».
   Allora venimmo a Viareggio… Qui avevamo conoscenze che ci facilitarono l'acquisto della nostra casetta. Io ero ben contenta di venire al mare che amo tanto e di lasciare Firenze, satura per me di ricordi amari…
   Il 21 settembre la casa fu comperata e il 23 ottobre ne prendemmo possesso. Si iniziava così un nuovo e diverso periodo di vita in cui sempre più crebbi in Dio.

 
Per vivere in un atto di perfetto amore (S. Teresa del B. Gesù)  

 
    Ho incominciato questa quarta parte della mia storia con una frase del Piccolo Fiore3. Infatti, offrirsi all'Amore come vittima è chiedere a Gesù di innalzarci sulla sua Croce e soffrire tutti i dolori che prima e dopo la crocifissione Egli subì.
  Gesù nel dialogo che avviene fra l'anima e Lui chiede: «Ma potrai bere al mio calice?». E l'anima risponde: «Sì, lo potrò perché voglio essere come il mio Maestro, perché ho compreso che se il grano di frumento non muore non dà frutto, perché ho compreso che solo quando si è innalzati sulla croce si attirano le anime a Dio, perché ho soprattutto compreso la tua sete, la tua sete che nessuna bevanda ristora, ma solo il nostro amore».
   Offrirsi all'Amore vuol dunque dire offrirsi al Dolore. Ma è dolore il patire insieme a Cristo e il patire per il Cristo? No, esso è gioia, profondissima, inesausta gioia. Lo posso ben dire io che da tanti anni sono saturata di tutti i dolori!
   Le confesso, Padre, che mentre non ho troppo penato a vincere la riluttanza nel parlare del mio passato, ora che entro nella parte migliore devo fare uno sforzo sensibile. Temo di dire male quello che sento tanto bene. In secondo luogo vi sono pagine di luce nella vita delle anime che si vorrebbero lette solo da Dio che le ha scritte in loro.
   Va bene. Penserò che Lei è un ministro di Dio e che chi parla in nome di Dio è come fosse Dio. Perciò ubbidisco e vado avanti, mettendo sotto i piedi la mia tentazione di terminare qui la mia storia con una frase riassuntiva come questa: «Mi sono offerta a Dio e Dio mi ha accettata».
   Sono molto contenta di sapere che Lei è uno molto devoto della dolce santina di Lisieux. Così mi capirà meglio.
   Giunta a Viareggio, continuai la mia vita con la stessa regola di Firenze. In più qualche corsa al mare e in pineta alla mattina presto o sul mezzodì: nelle ore che mare e pineta hanno meno persone che li contemplano. Sono sempre stata una solitaria e la folla mi ha dato sempre noia. Il bello mi si sciupa se del chiacchiericcio vano è intorno a me. Perciò cerco, ossia cercavo di andare ad ammirare il bello del mare e della pineta quando erano senza frequentatori.
   Viareggio poi mi ha procurato un altro regalo: quello di uscire io tutti i giorni per la spesa quotidiana. A Firenze era mamma che usciva di solito. Qui ero io. E questo mi aiutava per fare delle visitine a Gesù Sacramentato senza attirare i fulmini materni.
   Nel dicembre 1924 sentii l'ispirazione vivissima di avere il volume completo dei 4 Vangeli e la Vita di Santa Teresa del Bambino Gesù. Devo riconoscere che dal momento che ero tornata a Dio ero sempre fedele alle ispirazioni che mi venivano. Una fedeltà pronta e ilare, anche se l'ispirazione mi spronava a cose difficili.
   Fra l'altro in quel tempo ero in un abisso di gratitudine per il buon Dio per una grazia che mi aveva fatta. Grazia materiale, ma che gli avevo chiesta con tanta fiducia. Quando mamma era venuta a cercare la casa io avevo pregato intensamente che Gesù le facesse trovare una casetta piccina, come a noi tre conveniva, sana, senza difetti, e con molto spazio sulle due facciate. Ora la nostra casa ha sul dietro dei vasti giardini e sul davanti aveva, allora, la Villa Rigutti col suo parco vastissimo. Si vedevano le Apuane e tutti i paeselli sparsi sulle colline più vicine. Mi sarebbe piaciuto vedere anche il mare, ma tutto non si può avere e perciò chiedevo solo una casa con molto spaziointorno per la mia vita sempre molto chiusa in casa. Fuorché per le spese e per andare in chiesa e le corse fugaci al mare, io non uscivo mai. La Passeggiata4 non mi vedeva andare su e giù come un pendolo…
   Se Lei nota, anche ora la mia casa è l'unica che ha di fronte uno sfondo verde. Tutte le altre case, sorte sul terreno della ex-Rigutti, sono a livello di strada.
   Piccola cosa, vero? Ma sempre più mi persuadevo che Gesù mi voleva così bene da concedermi anche queste piccolezze per fare contenta la sua Maria. Figurarsi cosa non dava all'anima mia!…
   Attingendo al mio sempre magro borsellino (mamma mi dava sì e no 5 lire al mese e dovevano bastarmi per tutti i miei particolari bisogni di elemosine, di compere di libri e di musiche ecc. ecc.) mi rivolsi ad una mia amica5, che è quasi una suora tanto è pia e che vive sempre fra sacerdoti e monache, e l'incaricai di comperarmi e spedirmi «La storia di un'anima» e i 4 Vangeli. Il 28 gennaio 1925 mi arrivò un grosso pacco coi libri richiesti e con un volume, aggiunto dalla mia cara ex-compagna di collegio, il quale era un libro di commenti evangelici ad uso delle giovani. Mi pare fosse di un sacerdote: Don Baudernom, se ricordo bene. Dico così perché quel libro piaceva tanto ad una creatura angelica — che divenne Mantellata e che morì dopo pochi anni di monacato — che glielo donai quando andò in noviziato.
   Lessi subito la «Storia di un'anima». Mi pareva di tornare in Collegio. Ma in Collegio le Suore si erano fermate, nella lettura, alla vita vera e propria e ai ricordi e consigli. Io, avendo l'opera completa, andai avanti.
   L'anima mi si liquefaceva di amore. Avevo trovato l'arpista capace di dare suono alle corde del mio spirito. Io le volevo far cantare a Dio ma non ci riuscivo ancora. S. Teresina, con la sua piccola mano, mi prese la mia e me la condusse sulle corde insegnandomi il cantico dell'amore e della donazione.
   Quando lessi l'atto d'offerta all'Amore misericordioso piansi di gioia… Avevo trovato quello che cercavo. Se per entrare nel Terz'Ordine Francescano avevo imposto un periodo di prova a me stessa, ora non attesi un attimo. Erano due anni che cercavo una maestra di spirito che mi facesse da madrina nel mio rito di sacrificio a Dio. L'avevo trovata, finalmente!…
   Decisi di fare una buonissima confessione, una fervorosa comunione, ancora migliori delle solite, e poi di pronunciare il mio atto d'offerta.
   Sono un'impulsiva in certi casi. Lo sono quando, da tempo cercando una cosa, la trovo finalmente. Allora non rifletto oltre, perché ho già riflettuto prima. Non bisogna dimenticare che io mi ero prefissa di imitare la Maddalena. Così mi aveva ispirato Gesù. E Maria di Magdala quando incontrò Gesù non stette tanto a pensare… si mise a seguirlo. Chissà da quanto tempo, nauseata della sua vita di vizio, non cercava chi le desse la forza di uscirne. Trovato il Maestro, la sua anima di passionale aveva sentito che Egli era il cercato e con l'impulsività di certi caratteri, estremi sia nel bene come nel male, lo aveva eletto a suo Re.
   Una vocetta maligna, che forse era di un diavoletto, mi insinuava: «Bada a quello che fai! Pensaci! E se poi muori?». Ma io la cacciai con una scrollata di spalle.
   Alla sera, nella stanza dove sono ora, con un grande batticuore d'amore, inginocchiata per terra, lessi il mio atto di offerta. E da allora lo rinnovo ogni giorno.
   I dolori sono venuti come una pioggia su me da quel giorno, ma se fosse concesso all'uomo di annullare il tempo trascorso e io tornassi al 28 gennaio 1925, nel quale giorno ricevetti quei libri, io rifarei quello che ho fatto e con ancora maggior gioia, perché in questi diciotto anni, fra il mare di pene in cui sono immersa, ho sempre gustato, con la mia parte migliore, una gioia spirituale che credo sia un anticipo di quella che godremo nella celeste Gerusalemme, «là ove il gioir s'insempra».
   Posso anche io ripetere col Piccolo Fiore: «Da quella sera è cominciato il nuovo periodo della mia vita, il più bello di tutti, il più ricolmo di grazie celesti. La Carità entrò nel mio cuore con un bisogno di dimenticarmi per darmi, e da allora fui felice».
   Oh! tante cose, dette dalla dolce Santina, le posso ripetere io pure! Anche io ho sofferto e soffro pensando al Sangue di Cristo che goccia per tanti inutilmente. Il grido di Gesù: «Ho sete!» echeggia sempre nell'anima mia, che vede la sete del suo Dio e la vuole ristorare. E vedo anche, con infinita pietà, le povere anime, alla loro volta assetate, che non sanno trovare la fonte d'acqua viva che sazia tutte le seti… E vivo morendo ogni minuto per portare anime a Dio e Dio alle anime.
   Quando, qualche volta, nei primi tempi dell'offerta, io titubavo a compiere un sacrificio, mi pareva vedere lo sguardo implorante di Gesù… Come resistere a quello sguardo che mi pregava, pregava me, povera creatura, di aver pietà del suo desiderio? Allora superavo ogni titubanza e, spezzando me stessa in tutto quanto è umano, compivo un nuovo sacrificio per far sorridere il mio Gesù. Il sorriso di Gesù mi ripagava di tutti i miei sacrifici, ma nel contempo aumentava sempre più la mia sete di sacrificio per desiderio del suo sorriso.
   Essere consumata dall'amore! Esser consumata per amore! Ma vi può essere una gioia più dolce e potente di questa? Non può la parola umana descriverla, perché essa è sempre impotente a descrivere l'infinito, e la gioia dell'esser vittime è gioia infinita!
   Procedevo dunque così, amando, essendo amata, avendo per unico scopo l'amore e per unica guida l'amore. «Non avevo né guida né luce fuorché quella che brillava nel mio cuore», dice S. Giovanni della Croce6. Io pure non avevo altra guida né altra luce che questa data dai divini occhi di Gesù che viveva ormai in me.
   Gli occhi di Gesù! Non mi dica che sono pazza. Mi comprenda. Io avevo ormai la sensazione di quello sguardo aperto nel mio cuore e vedente per me. Io sentivo che guardavo le cose e le persone con gli occhi di Cristo, perché la mia personalità era assorbita nella sua ed io vedevo, parlavo, agivo attraverso di Lui.
   Quante volte ho sentito che le parole mie, di povera creatura, si mutavano sulla soglia delle labbra in altre parole che per la carità che le informava non potevo più dire mie, ma sue: di Gesù! Quante volte i miei sguardi, che qualche contrarietà sentivo li stava facendo divenire piuttosto… da falchetto, smorzavano la loro istintiva aggressività in una luce d'amore che non era mia, ma sua: di Gesù! Quante volte un mio atto, non precisamente conforme alla legge della carità, non si trasformava misteriosamente in un atto di benignità la cui origine non si trovava certo in me, povera anima così meschina, ma in Lui: in Gesù che era in me!
   E il mezzo di provare questa vita di Gesù in me non mi mancava… In casa dovevo ad ogni minuto pregare il mio Re: «Agisci Tu. Frangimi come si frange un vetro per annullare la mia personalità, che si risente di tante ingiustizie, e riformami in Te, secondo come agiresti Tu in questo momento!».
   Il Piccolo Fiore mi aveva insegnato che Dio si ama con i petali di rose: coi piccoli sacrifici compiuti per amore. Io, per amore, pregavo Gesù di darmi la forza di compierli sempre per amarlo così… E Lui, vedendo che io come io non valevo un centesimo, si sostituiva a me.
   Oh! non mi posso gloriare del bene che ho fatto! È stato Gesù che lo ha fatto: io non vi ho messo di mio che la sommissione assoluta ad ogni sua operazione. Gesù mi diceva: «Fa' così», e facevo così. «Di' questo», e dicevo questo. «Compi quest'altro», e compivo quest'altro. Oh! se le anime capissero come è loro utile abbandonarsi alle operazioni divine!
   In quel tempo avrei voluto entrare nella Compagnia di S. Paolo7. Unicamente per poter dire alle folle che Gesù va amato con assoluta dedizione, per trovare la felicità celeste fin da questa terra. Poter parlare dei benefici di Dio, poter cantare il canto della riconoscenza e dell'amore per questo Dio pietoso che fa sua gioia il poterci condurre al cielo! Ma molti ostacoli si frapponevano a questo mio desiderio. Egoismo materno in prima linea, pietà di papà mio e salute mia sempre scossa.
   Il cardiopalmo non cedeva col passare degli anni. Era sempre uguale e penoso. I dolori spinali pure. Ma con tutto questo lavoravo fin troppo, come dissero poi i medici. Pur di fare contenta la mamma e nella speranza (vana) di conquistare la sua benevolenza, lavoravo, lavoravo come una macchina. Faccende di casa, spese, cucina, imbiancature di muri, allevamento di colombi, materassi da rifare, persone da servire perché nell'estate si avevano ospiti (paganti) ai quali fare pensione… tutto era sulle mie spalle. E poi lavori di casa, abiti, maglie, biancherie… facevo persino le giacche estive di papà…
   Ma era troppo. Il professore di Firenze aveva raccomandato a me e a mamma che io non mi mettessi nell'ozio assoluto, ma però evitassi assolutamente di raggiungere la stanchezza fisica, pena lo sfiancamento cardiaco. Ma chi ci pensava? Io, non paurosa di natura, superavo ridendo le sofferenze del cuore e delle vertebre lesionate. Dello strofanto e dei cerotti Bertelli erano i miei aiuti e tiravo avanti. E poi ora mi sorrideva l'idea dell'olocausto per amore. S. Teresina aveva ben lavorato, pur essendo all'estremo delle forze!…
   Mia mamma che mi vedeva colorita, anche grassottella, e sempre in moto, non pensava neppure per incidenza che ciò potesse nuocermi. E esigeva, esigeva, esigeva con lena crescente. Se qualche volta dicevo di avere un dolore al cuore o alla spina dorsale più intenso, lei tirava fuori un vero repertorio di malanni suoi (immaginari) ed io ero servita.
   Pensi che mi ha tormentata per tre anni col dirmi di avere delle emorragie per un tumore interno. Voleva sempre dei grandi impiastri di ortiche sul basso ventre, perché non so chi o non so dove aveva letto che erano il tocca e sana per i neoplasmi!… Magari lo fossero! Ci sarebbe da fare un poema alle ortiche! Andavo perciò ogni giorno a pungermi le mani e le braccia per cogliere ortiche e poi le preparavo — altre spinate come sopra — e alla sera, quando lei si decideva ad andare a letto, facevo quel poco profumato impiastro e glielo portavo di sopra. Morale: a mezzanotte ero ancora in piedi, stanca morta, e alle 6 di inverno, alle 5 d'estate, mi alzavo. Risultò poi che il preteso tumore altro non era che un noioso ma non pericoloso disturbo di cui almeno 3/4 dell'umanità soffre. E lei ne guarì veramente bene quando, lasciata da parte la cura (?) delle ortiche, si decise ad applicare una pomata atta a quei varici!… Ma quante lacrime per paura di perdere la mamma! E quante faticose corse per pinete e campi in cerca di ortiche!…
   E questo è un male. Ma a sentire lei li aveva tutti addosso, meno la lebbra e la tubercolosi. Come vede, nonostante tutti i suoi mali, ella vive ancora8 coi suoi 82 anni. Cammina male o mai… ma camminassi io come lei! Mi parrebbe d'essere una regina.
   Perciò può ben pensare che non ero certo risparmiata allora. Altro che non arrivare mai alla stanchezza! Raggiungevo e sorpassavo lasuperfatica! Di modo che verso sera camminavo persino curva e piegata verso destra. Spezzata!… Ma nessuno se ne preoccupava.
   Niente Compagnia di San Paolo, perciò. Altro sacrificio offerto a Gesù. Ma mi davo da fare lo stesso. Gli ospiti, gli amici, tutti coloro che per un puro caso mi si avvicinavano potevano supplire alle masse che non potevo istruire come «Paolina». Purché si voglia, si può sempre essere apostoli. E se non si ha la pompa di un apostolato grandioso, riconosciuto, che può però sempre trascinare con sé guarnizione di orgoglio e dissipazione umana, si può sempre avere la gloria di un apostolato umile, nascosto, solo noto a Dio, corroborato più dal nostro soffrire che dal nostro operare.
   Sì, riconosco che il buon Dio mi ha concesso di prendere molte anime nella rete che gettavo nascostamente, attendendo paziente che i pesciolini si accostassero alle mie briciole di apostolato e li potessi catturare. Briciole di apostolato, ho detto. Infatti dovevo sbriciolarlo in modo da non attirare l'attenzione materna, che avrebbe messo il suo «veto». È faticoso, sa, lavorare così!…
   Ma, se erano briciole di apostolato, erano in cambio vere grosse pagnotte di amore quelle che giornalmente distribuivo… Impedirmi di amare nessuno me lo poteva fare. Non le pare? Ed io davo, davo con mano prodiga il mio amore al prossimo per far cortesia a Gesù. Mi dicevo sempre: «Gli uomini, che sono sempre pronti a usare cortesia ai più potenti nella speranza di averne degli utili, non si curano di esser cortesi col buon Gesù. Lo sarò io per loro. Fare cortesia a Gesù deve essere il mio lavoro». E cortesia a Gesù si fa in mille modi, che vanno da una parola rattenuta ad un paziente incassare offese senza reagire, che vanno dalla preghiera al perdono, e dal prestarsi in aiuto al prossimo in ogni suo bisogno corporale e spirituale fino all'olocausto segreto in cui offriamo la stessa vita per amore. E io facevo tutto questo semplicemente, per amore.
   Avendo veduto naufragare il mio desiderio di essere una «Paolina», pensai all'Azione Cattolica.
   Quando si è colmi di amore fino all'orlo, e sempre nuovo amore scende in noi dal cielo e rampolla in noi dal cuore, si deve straripare per forza. Ogni diga si rompe quando la forza delle acque ha raggiunto il massimo. E la forza dell'amore cresciuto a dismisura è qualcosa di incontenibile. O trovare ad esso uno sfogo o morirne soffocati. Io mi arrabbattavo ad alleggerire la massa che urgeva contro le pareti del cuore, dandomi un vero martirio d'amore, ma non mi bastava quel poco che potevo fare.
   Ha ben ragione Ruysbroeck quando dice: «L'anima che è stata dinanzi al Cristo sente la dolcezza, e da tal dolcezza nasce un casto godere che è l'abbraccio dell'amore divino. Pigliate tutte le voluttà della terra e fatene una sola voluttà e precipitatela intera sopra un solo uomo: tutto ciò sarà nulla in confronto al godimento di cui parlo, poiché qui è Gesù che si versa in fondo a noi con tutta la sua purità, e la nostra anima non ne è solo piena ma traboccante. Tal godimento rende l'uomo non più padrone della sua gioia. Tal gioia produce l'ebbrezza spirituale. Io dico ebbrezza spirituale quando il godimento va oltre le possibilità che aveva intravisto il desiderio. Talvolta la sovrabbondanza della gioia sforza a cantare, talvolta a piangere. Talvolta per alleviare lo spasimo l'uomo chiede soccorso al moto, talvolta alle grida, talvolta al profondo silenzio delle delizie ardenti e mute».
   Ma nelle delizie ardenti e mute ci si resiste poco con la nostra umanità. L'ardore cresce nel silenzio e ci folgora. Lo so.
   Pensai allora all'Azione Cattolica. Nella mia Parrocchia9 non vi erano le Giovani Cattoliche. Chiesi di fondarle io. E fui respinta. Si diceva che, essendovi già il Gruppo Uomini e Donne cattoliche, non era necessario mettere altro. Insistetti inutilmente. Offersi la mia stessa casa per le prime adunanze. Niente. Pazienza.
   Mi doleva tenere inerti i doni di intelligenza e di coltura avuti da Dio. Mi era sofferenza non poter condurre a Dio tante giovanette che vedevo sviarsi dietro un paganesimo appena larvato di cattolicesimo. Offersi anche questo sacrificio a Dio. E ad ogni sacrificio compiuto sentivo crescere l'amore. Mi dicevo sempre: «Ho raggiunto il culmine. Più su non si può andare».
   Oh! come mi illudevo! Salire verso la Perfezione è un salire perpetuo. Io credo che se ci fosse lecito vivere mille anni, ascendendo sempre nella via dell'Amore infinito, troveremmo che alla fine non abbiamo fatto che poca via… Essa sale, sale, sale, e più si procede e più si vede che essa sale sempre più.
   Ma il buon Dio, alle anime generose che si sono affaticate nel salire, ogni tanto concede le ali per percorrere in breve tempo un lungo cammino ed abbreviare la distanza che le separa da Lui e poi, all'ora della morte, viene e prende l'anima generosa nel punto ove morte la fermò e la rapisce in alto, con Lui… Dolce l'ultimo volo così, sul cuore del Maestro che dice: «Vieni, benedetta, nel Regno mio!». Ali sono i sacrifici più grandi compiuti per amore.
  

   Nella primavera del 1927 Dio mi dette un paio d'ali ben grandi. Dovevano essere ali d'arcangelo! Quanto spazio coprii in un'ora quella mattina della Domenica delle Palme 1927!
   Nel gennaio, e precisamente il 5 gennaio, era venuto in licenza presso il padre, Generale di Divisione, e la madre un giovane ufficiale di marina. Nella notte fu colto da un male inspiegabile sul primo, rivelatosi poi per una setticemia all'ultimo stadio.
   Il Generale, nostro amico, corse da noi il 6 gennaio pregandomi di andare là perché loro avevano già perduto la testa. Erano a Viareggio da soli tre mesi. Vi andai e vi stetti fino al 9 aprile 1927. Ho sfidato il pericolo dell'infezione che tutti fuggivano. Molti andavano dai miei a dire: «Ritirino la signorina. Quel giovane è tisico!». Ma come potevano i miei negare a degli amici desolati quel favore? E perché io, che avevo curato tanti, dovevo rifiutare assistenza a quell'infermo? Perciò per tre mesi lo contesi alla morte, senza stanchezze e senza ripugnanze. Al suo fianco dalla mattina alle sette fino alla sera alle 22 e oltre e, nelle notti in cui era fra morte e vita, anche alla notte. Venivo a casa stanca e pure lavoravo ancora per non affaticare la mamma.
   Finalmente il giovane migliorò. I diversi medici dissero che oltre metà del merito era mio, che avevo non solo assistito a dovere ma dosato con criterio le medicine. Veramente di questo me ne ero fatto poi uno scrupolo. Ma non gliene posso parlare perché il suo confratello, Padre Antonino Silvestri, mi ha detto di non parlarne mai più. Ubbidisco alla sua volontà anche ora che egli è andato a Dio.
   Non può credere che gioia provai quel giorno che potei alzare per la prima volta il mio malato! I genitori giubilavano e dicevano: «Come faremo a dirle grazie?». Ma il mio grazie io lo avevo già avuto da Dio perché avevo assistito quella vita con l'intento di farla morire cristianamente, se doveva morire, o di farla riconoscente a Dio se Dio lo faceva guarire. E mi pareva d'esservi riuscita… Per premio non volevo nulla: facevo solo la corte a una corona del Rosario comperata dal giovane nel Convento dell'Orto degli Ulivi a Gerusalemme.
   Disgraziatamente il medico curante, la sera dell'8 aprile, uscì con questa ragione: «Ora faranno un bel regalo a questa signorina! Oltre al come ha curato, ha fatto loro risparmiare un bel gruz­zolo di denaro. Con delle infermiere pagate non sarebbero bastate 3000 lire». Il medico poteva anche fare a meno di dire questo, ma se lui lo ha detto io non ne ho colpa. Le pare? Basta. Io risposi: «Oh! per carità! Ho avuto la soddisfazione di salvare una vita. Mi basta. Al massimo il tenente mi procurerà una corona come quella della signora Adalgisa. Quella l'accetto volentieri».
   La mattina dopo mi recai come al solito alla casa del Generale per aiutare il mio malatino, ancora debolissimo, ad alzarsi. Ora andavo dalle 9 alle 12 e dalle 15 alle 19. Avevo comperato l'ulivo benedetto e lo portavo anche a loro che, dopo avere tanto ricevuto da Dio, non erano riconoscenti a Dio. Speravo, con quel ramo santo, di ricordare loro la Pasqua vicina…
   Entrai. Vidi la signora per prima. La salutai offrendole il mio ramo d'ulivo. Mi voltò le spalle senza rendermi il saluto. Siccome la sapevo molto stramba non ci feci gran che caso. Pensai avesse litigato col marito, cosa che avveniva molto di frequente.
   Entrai in camera del malato. Si era già alzato e stava seduto in una poltrona fra il padre e il fratello. Erano tutti e tre molto imbarazzati… «Già alzato? Bravo», dissi. Un sorrisetto fu tutta la risposta che ne ebbi.
   Andai verso la cucina per sentire se la signora aveva bisogno di qualche cosa. Avevo sempre in mano il mio ramo d'ulivo. Fui investita da una raffica di rimproveri. Il mio povero ulivo fu lanciato nella spazzatura e per poco io non andai a fargli compagnia. Venivo accusata di volermi imporre e di volermi insediare in una casa, di aver fatto fare insinuazioni dal medico per avanzare pretese che, se fossero state dette schiettamente in principio, sarebbero state respinte. Infine mi venne dichiarato che ero vecchia rispetto al giovanotto per poter pensare a conquistarlo (?).

 La forza che muove il cielo e la terra
 è il dolore, ma il dolore che ama
 D. G. M. Girard  

   Nulla di vero. Ero andata perché insistentemente richiesta, non pretendevo nulla e tanto meno conquistare quel ragazzo. Ormai ero di Dio, e per sempre.
   Mi venne una grande voglia di rispondere per le rime a quella ingrata e maleducata. Ma mi parve che Gesù mi chiedesse il sacrificio del mio amor proprio in quel giorno nel quale aveva inizio la sua Passione… Uscii dalla cucina senza parlare. Se avessi aperto bocca avrei detto troppo. Allora preferii tacere… Non è vigliaccheria tacere in certi casi, ma anzi è eroismo.
   Tornai nella camera del malato e come nulla fosse rifeci il letto e misi tutto a posto. Intanto i miei sentimenti si calmavano. Allora dissi al Generale che giudicavo esser bene astenermi ormai dal venire in casa loro. Egli balbettò — è la giusta definizione — qualche magra scusa che mi confermò nel mio giudizio in merito all'increscioso incidente, la cui causa vera era la paura di dovermi compensare in qualche modo.Come mi conoscevano male e come conoscevano male mio padre e mia madre!
   Tornò la signora che era uscita per la spesa. La salutai e, domando il mio io che si ribellava a tanto, chiesi scusa di quello che non avevo fatto. Le confesso che sudavo… Io che avevo sempre agito bene, fin da bimba, per non avere a chiedere scusa, ora mi umiliavo così, senza avere nulla commesso di male, ma anzi aver fatto del bene!
    Ma era la Domenica delle Palme… Quale migliore preparamento potevo fare alla Pasqua ormai incombente? Per Gesù che andava a morire, nella mistica commemorazione del suo sacrificio per liberare l'uomo dal peccato e specie dal peccato di superbia che aveva rovinato i progenitori e i discendenti di essi, non dovevo trovare questo atto di amore?
    Tornai a casa senza dire altro che ormai, essendo il malato in condizione di fare da sé, io non andavo più da lui. Non dissi altro per non scatenare le furie materne, che non avrebbero portato rispetto né al Generale né alla moglie di lui. Pensavo che se quei due si fossero pentiti del loro gretto modo di agire potevano ancora riparare, e perciò era meglio stare zitta. Solo dieci giorni dopo parlai, perché i miei si stupivano che quei signori non venissero a dire «grazie», inferiori in questo al cane che sa scodinzolare quando è stato beneficato. E la cosa finì così.
   Esteriormente finì così. Ma internamente no. Il mio Salvatore mi compensò divinamente per avere saputo essere mite ed umile a sua somiglianza e per amore suo. Io avevo offerto la mia umiliazione a Lui come un sudario per il suo Volto prossimo ai sudori mortali. Egli di quel sudario me ne fece vela per portarmi ben in là, nell'ampio mare della sua misericordia, incontro al Sole della sua divina Essenza. Fu un vero bagno di amore nel quale quel resto di umano che poteva ancora essere in me scomparve definitivamente. Da allora io sono vissuta tutta protesa nel soprannaturale avendo appoggiato sulla terra solo la punta del piede, come certe alate Vittorie che sono già tutte slanciate nel volo.
   Dopo questo sacrificio venni presa da una vera sete di immolazioni. Immolazioni di amor proprio, di sentimenti cari, di penitenze corporali, di piccoli e grandi sacrifici materiali. Tutto quanto era mezzo per immolarmi io lo cercavo e lo praticavo. E un vero fiume di pace mi sommergeva. Come era dolce esser portata da questo fiume! Ho detto: mi sommergeva. No. Mi portava sui suoi flutti di confidenza, di pace, d'amore. Ed io come una festuca sull'acqua mi abbandonavo alla Volontà che mi portava, suggerendomi d'ora in ora quanto dovevo fare. Era come se il Divino Maestro mi tenesse il suo calice contro le labbra pregandomi di berlo per amor suo. Ed io bevevo, nonostante il sapore fosse spesso ben amaro, sempre più amaro alle mie labbra, ma di un amaro che si mutava in dolcissimo miele nel cuore.
   Passò così il 1927 e buona parte del 1928.
   Nell'autunno 1928 giudicai che potevo chiedere di entrare nel Terz'Ordine Francescano. Ormai vedevo che tutto quanto mi aveva turbata in passato era vinto per sempre e che io ero un'altra, trasformata come ero dall'amore.
   Allora mi recai dai Francescani ed esposi il mio caso. Bisognava accettarmi così come potevo: ossia niente adunanze e niente inviti, per ora, per non urtare le suscettibilità materne. Mi risposero che si poteva fare, solo che questo avrebbe ritardato la mia vestizione. Pazienza! Mi sarei sempre più preparata a quella cerimonia che volevo realmente fosse un sigillo indelebile.
   Nella primavera del 1929 mi recai a Cremona per portare in un collegio un ragazzo, affidato a una madre senza testa che ne faceva un discolo. La mia cara ex-compagna di collegio, quella che mi aveva procurato i libri, mi aveva aiutata nel trovare un ricovero per questo disgraziato fanciullo. Rimasi per 15 giorni ospite di questa mia amica, in una famiglia che pare una copia della famiglia Martin nella quale crebbe la mia Santina prediletta.
   La mia compagna, che era anche Presidente Diocesana di A. C. Giovanile, mi disse: «Ma perché non entri anche tu nell'A.C.?».
   Già! Presto detto! Le spiegai le opposizioni trovate e come i miei sacerdoti non volessero le Giovani cattoliche in parrocchia.
   «Ma ci sono».
   «Non ci sono».
   «Come non ci sono? Hanno mandato anche l'obolo per l'Università Cattolica! Guarda qui: Circolo Nostra Signora di Lourdes. Parrocchia S. Paolino - Viareggio».
   Rimasi di sasso. Mi ero tanto raccomandata perché si fondasse il Circolo, e venivo a sapere che esisteva mentre ero lontana tanti chilometri… Non mi avevano voluto. Ecco tutto. Decisi che al ritorno avrei chiesto di entrarvi.
   Mentre compivo quell'opera di misericordia — perché era tale — in favore di quel povero ragazzo, ebbi i primi sintomi della miocardite.
   Nell'estate 1928 avevo avuto una grave angina che avevo superato in piedi, con febbri a 40 e oltre, perché avevamo ospiti. Un mese di sofferenze che mi avevano molto sciupata. Nel rigidissimo inverno 1928-29 ebbi una brutta influenza con tosse e febbri alte e, appena guarita, la frattura di una costa, spezzata dalla folla che mi premeva contro una sbarra di ferro all'Esattoria. Avevo fino dovuto sputare sangue. Forse la costa ledeva la pleura. Ma come al solito nessuno se ne era preoccupato. Io però sentivo che il cuore era più pesante, grosso, malato più seriamente. Nel viaggio di andata, quando fui al passo della Cisa, tra Pontremoli e Borgotaro, ebbi un lieve malore. Breve più che lieve perché furono attimi, ma credetti morire. Si risolse in una emorragia di naso.
   A Cremona, la stessa sera in cui avevo portato in collegio il ragazzo, mi sentii male. Feci uno sforzo perché la mia amica non se ne accorgesse. Ma credetti anche allora di morire. Al ritorno, nel treno, sempre tra Borgotaro e Pontremoli, ecco da capo quel breve ma penoso malore. Si capisce che il cuore cedeva, e sia l'aria eccessivamente fina di quel punto come l'emozione del distacco dal bimbo, che si era attaccato al mio collo chiamando la mamma, mi avevano fatto male.
   La mia amica anzi, vedendomi molto sciupata e sofferente, mi voleva trattenere ancora, molto più che una notte ero stata malissimo per il mio dolore vertebrale che mi dava persino vomiti e crampi addominali. Ma un perentorio telegramma di mia madre mi obbligò a partire anche così sofferente. La volpe perde il pelo ma il vizio mai, e mia mamma fa lo stesso. Rimane sempre uguale e nessuna cosa la muta. Avrebbe dovuto esser contenta che io mi riposassi un poco, presso care persone. Ma nossignori! Dovevo stare a catena, sempre.
   Quell'estate faticai moltissimo a occuparmi dei bagnanti. In autunno camminavo persino tutta piegata a destra.
   Il Parroco mi aveva respinta ancora dalle Giovani Cattoliche. Un altro sacerdote mi aveva detto: «Ma non si occupi di A.C.! Non merita!». E un terzo mi aveva messa nelle Donne Cattoliche, nelle quali ero una spostata. La mia missione era istruire le giovani. Ma mi veniva negata. Anni prima mi sarei inquietata. Ora pregavo e basta. La mia volontà era fare la Volontà di Dio e non mi alteravo se le cose andavano di traverso. D'altronde, essendo stata così poco bene, speravo che Dio avesse accettato la mia offerta di vittima e si apprestasse a consumarla.
   Come questo mi sorrideva e come mi consolava di tutto! Se i poveri uomini, che si arrovellano tanto delle cose del momento, potessero capire e gustare quanto è soave e pacificatore il distacco dalla vita e da tutte le sue attrazioni, come resterebbero meravigliati! Essi pensano che il sacrificio e il dolore, qualunque sia la forma da essi presa, siano penosi a compiersi per l'anima generosa come per le loro anime timorose di tutto, per non dire meschine. Ma sbagliano molto.
   Il sacrificio non è più sforzo e il dolore non è più tormento per l'anima generosa, la quale vive in un'atmosfera e in una luce speciale, che rivestono sacrificio e dolore di una veste diversa da quella che appare agli occhi dei pusilli. Tutto perde in valore umano per l'anima-vittima e tutto acquista in valore sopraumano. La salute o la malattia, la riuscita o la sconfitta di un dato lavoro, la gioia o la pena gli sono indifferenti dal punto di vista umano e solo gradite se da esse può ottenere un bene soprannaturale. Di una cosa sola, anzi, l'anima generosa si preoccupa, ed è della tema di non soffrire.
   In ciò sta il capovolgimento dei valori. Per l'uomo comune la tema di soffrire, anche la sola tema è fonte di terrore. Per l'anima generosa la tema di non soffrire abbastanza è causa di timore e di raddoppiamento di suppliche perché Dio le conceda la gioia di soffrire. Tutto il suo lavoro quaggiù si compendia nel desiderio di far cosa grata non a sé ma a Dio, e se per raggiungere questo è necessario soffrire sia benedetto il dolore!
   Donde l'incapacità dell'anima generosa di soffrire nel modo acerbo con cui soffrono i non generosi. Il dolore resta, perché è inevitabile, ma non come nemico: come amico che ci aiuta a salire sempre più in alto. Il solo pensiero che questo dolore, aborrito da tanti, ci rende simili al Cristo e continuatori dell'opera di Lui ci dà sete insaziabile di sempre nuove e più profonde sofferenze. E il riflettere che a noi, povere creature umane labili portate alla colpa, l'infinita Misericordia concede l'onore di divenire simili a Lui nell'opera redentrice, concede di mescolare nel calice il nostro sangue al suo Sangue divino, ci porta ad altezze vertiginose di amore e di riconoscenza.
   L'unica nostra paura è non già che il calice del dolore sia portato alle nostre labbra dalla mano di Dio, ma sia levato alle nostre labbra che non vogliono più conoscere altro sapore che non sia questo, gustato per la prima volta dal Redentore.
   L'anima generosa ha talmente annullato la sua volontà che da sé sola non si occupa di cercare né sofferenza né gioia. Si è donata, mani e piedi legati, in mano del dolce suo Immolatore e solo lo supplica di non risparmiarla. Ogni nuova ferita è ai suoi occhi una gemma senza pari, e se le lacrime scendono, perché il dolore stritola le nostre fibre e la carne geme, a quelle lacrime umane si uniscono altre stille di pianto. Di un pianto di gioia per la grazia di soffrire che Dio ci concede.
   Il primo supplizio dell'Immolatore è quello dell'Amore. Un amore così esclusivo, così possente che da sé solo basta a consumare la vita. Il secondo è il Dolore: un dolore così proteiforme che senza l'aiuto di Dio ucciderebbe qualunque creatura umana. Il terzo, supplizio dei supplizi, è di vederci levato il dolore, perché questo ci fa temere che Dio non ci trovi più degni di soffrire con Lui, per Lui e per le anime.
   Sono anni che io vivo così, avendo trovato in questa vita la mia pace.
   Essere anime vittime vuol dire essere anime penitenti come la Maddalena, pure come Agnese — perché la sofferenza purifica — fiduciose come Teresina; essere anime vittime vuol dire essere nelle mani di Gesù come uno strumento che non si lamenta di essere usato; essere anime vittime vuol dire aver capito dove è la via sicura per la vita eterna.
   Questa certezza mi addolciva ogni cosa. Anche quella di vedermi sempre respinta da tutti. Respinta in casa, respinta fuor di casa, respinta dai sacerdoti come dalle persone laiche. Pareva si fossero tutti dati la parola in questo senso. Ma mi restava Gesù, e perciò…
   Alla fine del dicembre 1929 vi furono i S. Esercizi per gli ascritti all'A. C. della mia Parrocchia. Erano tenuti da Monsignor Sanguinetti. Li frequentai con piacere dopo tanti anni che ne ero priva. Alla fine, in una lunga confessione, mi aprii col Monsignore. Ebbi la grazia d'essere capita da questo sacerdote. Rara grazia perché fino a quel momento mi era sempre stata negata e Gesù solo era stato il mio Direttore.
   Mons. Sanguinetti mi fece parlare a lungo e poi… mi impose come delegata di coltura delle Giovani Cattoliche. Allora dovettero bene accogliermi!
   Seppi farmi amare dalle circoline. Le dirigenti mi amarono meno per paura che io le avessi a soppiantare in quelle benedette cariche, così desiderate dal loro piccolo cuore che vedeva le cose da un punto di vista umano. Ma le circoline mi amarono molto e subito. Mi vedevano giusta. Esigevo ordine, studio, puntualità e ubbidienza al regolamento. Ma la prima ad osservare tale ordine, studio, puntualità e ubbidienza allo statuto, ero io, e perciò mi seguivano. Guai se gli inferiori ci vedono colpevoli delle colpe che rimproveriamo a loro! È finita!
   Quell'anno la gara era sul Sillabario del Cristianesimo. Fu un piccolo trionfo. Quelli della A. C. Diocesana, che l'anno avanti avevano esaminato delle creature impreparate affatto, strabiliarono. Io fui contenta per le ragazze. Non c'è come il successo che sproni, specie quando si è ancora delle piccole anime come erano le mie figlioline.
  Le premiai con dei libri, ossia premiai le meglio, quelle che avevano riportato buoni voti, sicura che l'anno dopo avrebbero fatto meglio ancora. Gli inferiori vanno tenuti con salda mano, ma che sia coperta di velluto. Devono credere di avere a che fare con una dolcezza, senza accorgersi che sotto quella dolcezza c'è una forza che in caso di bisogno si fa sentire.
   Ma già, quando veramente si ama coloro che ci sono affidati da Dio, si ottiene da loro quello che si vuole senza ricorrere alla forza, specie quando i nostri pupilli sono anime giovani e prive dell'invidia che è il serpe velenoso della società umana. Dove noi non arriviamo arriva Iddio, e maestri e allievi crescono in sapienza e grazia al suo cospetto.
 


   Agnese è la vergine martire del III secolo. Maddalena è Maria di Magdala, la convertita al seguito di Gesù (Luca 8, 2), presente alla sua crocifissione e sepoltura (Matteo 27, 56-61; Marco 15, 40-47; Giovanni 19, 25) e testimone della sua resurrezione (Matteo 28, 1-8; Marco 16, 1-11; Luca 24, 1-11; Giovanni 20, 1-18). Gli scritti valtortiani, conformandosi all'opinione di antichi esegeti, compreso san Gerolamo, identificano Maria di Magdala (la Maddalena) con Maria di Betania, sorella di Lazzaro (Luca 10, 38-42; Giovanni 11, 1-45; 12, 1-8), e con la peccatrice innominata di: Luca 7, 36-50.

   2 di cui parla Paolo in: 1 Corinzi 1, 18-25.

   3 Piccolo Fiore è uno degli appellativi dati a santa Teresa del Bambino Gesù.

   4 La Passeggiata è il nome che i viareggini dànno ai viali del lungomare della loro città.

   5 una mia amica: Gina Ferrari, ex-compagna di collegio. La ritroveremo come presidente diocesana dell'Azione Cattolica Giovanile.

   6 Giovanni della Croce (1542-1591), grande mistico e poeta spagnolo, primo carmelitano scalzo, formato da Teresa d'Avila (nota 29), santo e dottore della Chiesa.

   7 Compagnia di S. Paolo, istituto secolare sorto a Milano con decreto del card. Ferrari (nota 5) del 17 novembre 1920. Ha poi sviluppato in varie forme il suo piano di apostolato professionale, sociale e religioso.

   8 vive ancora, ma morirà in quello stesso anno, il 4 ottobre 1943.

   9 Nella mia Parrocchia di Viareggio, che è quella di San Paolino, affidata a sacerdoti del clero secolare e confinante con il territorio della parrocchia di Sant'Andrea, officiata dai Servi di Maria, al cui Ordine apparteneva Padre Migliorini.

Mv Samar

 

 

MV e il cane Humphry