MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MINORE

A A A

AUTOBIOGRAFIA CAPITOLO 10


In collegio.

   Breve. Mio padre dovette finire a cedere. Venni sacrificata io. Il 4 marzo 1909, alle 9 di mattina, lasciai la mia casa per il Collegio.
   Non mi ero mai assentata da casa mia fuorché per quel mese preparatorio alla Prima Comunione. Ma allora la distanza da Voghera a Casteggio era talmente minima che non mi pareva di abbandonare la casa. E poi allora sapevo di andare là per un mese, quasi per vacanza, per ricevere Gesù. Ora mi si schiacciava sotto il verdetto che venivo messa in collegio, lontano tre ore di treno da casa, per degli anni e per castigo.
   Ecco: questa crudeltà mi rese odioso il fatto e chi lo fece. Ero troppo intelligente per non capire la verità vera delle cose, e avrei preferito che, con sincerità, si fosse detto quella per spiegarmi il perché del mio sacrificio. Il sacrificio mio era ingiusto perché non io ma lo zio doveva esser messo fuori di casa. Ma mi ci sarei rassegnata di più. Ma questo no. Perché dirmi che ero meritevole di punizione, meritevole di esser strappata alla mia casa, a mio padre, mentre non era vero? Perché mia mamma non rifletté su quanto male poteva provocare con questa menzogna e questa ingiustizia?
   Fino allora avevo di mia mamma paura ma anche stima. Dopo non l'ebbi più perché la vidi ingiusta e insincera. E, devo dire il vero, anche la stima in mio papà ne uscì scossa perché egli non aveva saputo imporsi e difendermi. Ero molto umana e le reazioni umane erano fortissime in me.
   Per orgoglio partii senza piangere. Ho fin da piccina pensato che il pianto, essendo la cosa più intima e profonda che abbiamo, più ancora dell'amore, va elargito e mostrato solo a chi merita di vederci nel nostro profondo più profondo. Tutti gli altri, che non ci amano di un amore perfetto, non hanno diritto di vedere le nostre lacrime. Perciò io ho pianto solo con mio papà, con Dio e con pochi altri che stimo come papà e venero come Dio.
   Partii dunque senza piangere. Per orgoglio e per sprezzo. Sicuro: per sprezzo. Sentivo che non ero amata. Tanto è vero che mi si sacrificava a un poco di buono. Perciò il cuore mi si serrava di sprezzo. Non ho pianto. Dentro mi sentivo spezzare a vedermi respinta, io che ero la figlia, a vedermi posposta a un fratello indegno, ma ho indurito me stessa, ho conserto le braccia fino a farmele dolere per impedire di andarsi ad allacciare al collo di mia madre supplicandola di tenermi sul cuore… E naturalmente fui giudicata: insensibile!…
   Alle 11 arrivammo a Monza, alla porta del grande Collegio delle Suore di Carità di Maria Ss. Bambina. Le suore della Beata Capitanio1.
   Mi ricordo esattamente il mio soffrire di quell'ora… Ma non piansi. Detti solo un grande grido quando fui strappata a mia madre… E vedendo che il mio grido, che era realmente grido di cuore che si spezza, rimase senza eco… ho sentito spezzarsi un altro vincolo fra me e mia madre e abbassarsi ancora di più la porta aperta fra me e colei che mi ha generata e data alla vita senza avermi mai capita. Senza aver mai capito il cuore della sua creatura. Dopo quel grido, silenzio. Davanti al fatto compiuto io non ho mai avuto inutili querimonie. Mi indurisco e muoio in un silenzio più pernicioso, più uccidente di qualsiasi esplosione di dolore.
   Le Suore erano molte e molto buone. Il Collegio bello, vasto, luminoso, pieno di cortili pieni di sole e di fontanelle, di portici luminosi, e con un giardino vasto come la pineta2 fino al Marco Polo: bellissimo. Per distrarmi mi fecero girare tutta la casa.
   Intanto le mie compagne finivano il pasto di mezzogiorno e fui presentata a loro. Erano care e buone… ma io, timida come ero, soffrii moltissimo a vedermi osservata da tanta gente: 150 bimbe, 40 suore e 40 converse. Mi pareva d'essere S. Bartolomeo scorticato! Mi nascondevo dietro la mia Suora, rispondevo a monosillabi e spesso col capo come i ciuchini. Oh! le mie compagne furono molto buone a continuare ad accarezzarmi, così scontrosa come ero!
   Mi affidarono a tre alunne: Isabella Gilardi, una biondina ridente, figlia unica come me, la quale avrebbe dovuto occuparsi di me come una mammina, e lo fece con tanto amore, povera Isa morta così presto, così angosciata, uccisa dalle infedeltà del marito che le impose l'amante in casa, morta così presto e così disperata di lasciare i suoi teneri orfanelli! L'altra: Lina Cocini, un gran di pepe, nera, magra, tutta moto e tutta lingua, non taceva neanche a metterle un lucchetto sulla lingua, fu mia compagna di classe di studio. Povera Lina, morta lei pure a 23 anni, uccisa da una peritonite fulminante. Le fui sincera amica per virtù di contrasto: io quieta e lei un moto perpetuo, io silenziosa e lei chiacchierina come una passera, io riservata e lei esuberante nelle sue dimostrazioni. La terza tuttora vivente: Gina Ferrari, un angelo pio… e questa mi fu data per compagna di refettorio, di chiesa e di classe di lavoro. Cara Gina che non disubbidiva maiin nulla per fare «fioretti» a Gesù!
   Ma anche le altre 18 della classe erano buone: la prima superiore, divisa in prima tecnica e in prima interna, perché allora nel mio Collegio non vi erano le scuole magistrali ma solo le tecniche o quelle classi di educazione generale, detta interna, il cui programma era un misto di tecnica e di complementare, atte perciò a dare a signorine di buona società la cultura necessaria al loro stato ma senza licenze di sorta.
   Si era in tempo di esami trimestrali e il giorno dopo feci il mio esamino. Mi avevano fatto alzare alle nove, tre ore dopo le altre, perché quell'angelo della Superiora non amava spaurire nessuno con la disciplina esagerata e ci portava al «Regolamento» senza strappi rudi. Io veramente alle sette al massimo nell'inverno, alle sei e prima ancora d'estate, ero sempre in piedi, a casa mia. Ma chi lo poteva pensare che una figlia unica fosse trattata così alla militare?
   La Suora mi aveva aiutata a vestirmi, lasciandomi i miei abiti di casa, perfino il fiocco rosso nei capelli mi lasciò… Poi scendemmo nella Cappella.
   Ricordo che incontrai la vice-superiora degli studi. Una suorina piccina, piena di vita, armata di occhiali azzurri… Questo e il saperla superiora degli studi e professoressa di matematica, la mia materia paurosa, mi fecero tremare. Invece, povera suora!, fu tanto buona con me per quanto si rammaricasse sempre che proprio solo nella sua materia io non valessi nulla!… Mi fece una carezza e mi chiamòpasserotto. Questo mi rincuorò un poco.
   Entrammo in cappella. Che bella! Azzurra e oro come mi figuravo allora il cielo. La Madonna del Sacro Cuore di Gesù sulla pala d'altare. Ai fianchi S. Modestino e S. Tarcisio, i due patroni, i martiri bambini: bellissimi. Poi il mio S. Giuseppe e il Sacro Cuore. E fiori, fiori, fiori e sole e il giardino che si vedeva dai finestroni aperti e canti di uccelli…
   Suor Francesca mi fece pregare e poi mi chiese se volevo vedere il corpo di S. Modestino martire deposto sotto l'altare. Memore del mio Gesù morto che m'era rimasto impresso col suo verismo di piaghe, ricusai. Avevo paura di vedere altre piaghe. Quelle di Gesù sta bene, ma altre no davvero. Ma Suor Francesca mi rassicurò. Infatti vidi un bel giovinetto di cera, modellato alla perfezione, steso su un materassino porpureo, vestito da giovane romano, i sandali ai piedi, la veste-lunga orlata di una greca ricamata, la testa bellissima posata su un guanciale con posa di dolce abbandono, nelle mani la spiga e il grappolo in una e la palma nell'altra. Pareva dormire assorto in un sogno beato. Del martirio subìto, un piccolo segno nel collo di neve, là dove la spada aprì la vena, là dove uscì la vita ed entrò la gloria… Questo il mio incontro con Modestino, il giovinetto martire di Cristo.
   Portata in refettorio non mangiai nulla. Il latte non lo potevo bere per via del mio stomaco, e così per quella mattina rimasi senza nulla. Ma il solo fatto che nessuno mi rimproverava mi faceva contenta e sazia.
   Andammo nella classe. Condotta al mio banco feci come le altre il mio esame. Era francese scritto. Io ero già alla sintassi e le altre alle loro prime armi. Un trionfo dunque che mi rinfrancò e mi fece sorridere di gioia. Le compagne mi si serrarono intorno con ammirazione e la Suora di francese mi accarezzò per premio. Oh! fa pur bene un poco di gioia!
   Il giorno dopo era esame di italiano. Ricordo ancora il tema: «Bella è la neve che cade dal cielo, ma se si pensasse a chi soffre…».
   La Suora professoressa d'italiano era giovanissima. Ancora postulante. Di Venezia. Bella, con occhioni da spagnola, un trion­fo di trecce sul capo senza cuffia, una magnifica dentatura, e buona, ridente, intelligentissima. Poi scoprii che era un serafino in terra. Si chiamava Angela, divenuta poi Suor Immacolata dopo la vestizione. Due nomi che erano di predestinazione, perché angela fu sempre, angela della terra che spiccava continuamente il suo volo ai piedi di Dio, e pura come il suo nome, di una purezza che traspariva da tutto il suo essere. Quando parlava di Dio questo serafino si accendeva tutta come una neve sotto un tramonto di porpora… Pareva che le fiamme interne trasparissero alla superficie… Morì giovanissima, senza malattia vera e propria, ma con solo un subitaneo languore che la distrusse, lei sana e forte, in pochi giorni, non saputo definire dai medici, e morì proprio il giorno 8 settembre, festa dell'Ordine di Maria Bambina. L'amore la prese, l'amore la colse, l'amore la spense per portarla a fiorire in Cielo.
   Il mio tema fu giudicato un capolavoro. Sapevo di esser forte in italiano ma il voto massimo avuto, un 10, mi stupì molto. E più ancora mi stupì l'esser pubblicamente lodata. Non ero usa agli elogi. Vedevo per la prima volta che non è vero che «a chi fa il suo dovere non va fatto elogio», secondo il detto di mia madre. Qui avevo fatto il mio dovere e venivo premiata. Questo mi scaldava il cuore e mi dava di nuovo fiducia in me stessa.
   Descrivere era il mio forte; descrivere perciò la nevicata mi era stato facilissimo. Non ho mai amato la neve. È bianca ma è così gelida! Preferisco il sole. Bisogna ricordarsi che sono nata nei paesi del sole e dal sole ho tratto vita quando ero un povero cucciolo abbandonato nei solchi…
   Anche la parte di riflessione del tema, dove tutte le altre erano miseramente cadute, mi era stata facile. Osservatrice come ero, infinite volte avevo notato le sofferenze dei poveri, dei diseredati… Mesta per natura e divenuta ancor più mesta per tenore di vita familiare, comprendevo il dolore in tutte le sue manifestazioni. Quante volte, col nasetto schiacciato dietro i vetri della finestra, nei miei tristi pomeriggi di bimba sola, nelle mie domeniche sciupate dalle diatribe familiari, non avevo notato, fra il velo delle lacrime, altre miserie, diverse di forma ma uguali di pena, passare fra il turbinare dei fiocchi bianchi!…
   Fui così senza fatica e con poco merito, perché il lavoro m'era sembrato facilissimo, proclamata la prima della classe nelle lingue italiana e francese e nelle materie orali.
   Nella matematica… fui fedele alla mia asineria. Nel fabbricarmi si devono essere dimenticati fuori dalla testa la cellula delle matematiche. È un vuoto assoluto che né per sforzi miei, né per sforzi altrui si è mai colmato. Sono completamente deficiente in fatto di calcolo.
   Ma non me ne dolgo molto. Penso che anche Gesù è come me. Lui pure non è un calcolatore. Se lo fosse stato e se lo fosse non sarebbe quello che è. Ma Egli è poeta: il suo Vangelo lo mostra; Egli è abile diplomatico, anche questo lo svela il Vangelo; Egli è Medico, è Maestro, è Amico, è Salvatore, è tutto ma non è un calcolatore. E come tutti i non calcolatori è generoso oltre misura, misericordioso oltre misura, paziente oltre misura, buono oltre misura. E questo mi dà tanta speranza… Con un idealista c'è sempre bene a sperare. Con un matematico mai. E se Dio fosse un matematico sempre intento ai calcoli esatti, chi potrebbe sperare di salvarsi? Ma Gesù non è matematico. Non fa parlare la scienza ma il cuore, non ragiona con la scienza ma col cuore, anzi ragiona unicamente con la scienza del cuore e chi sa prenderlo da quel lato tutto ottiene da Lui.
   Io pure ragiono con la scienza del cuore, io pure, nella vita pratica e in quella dello spirito, sono un'idealista, una generosa, una prodiga che non tira mai le somme del dare e dell'avere. Do, do, do e non mi curo d'altro. Mi fido del Salvatore, del Fratello, dell'Amico, del Maestro, del mio Re e vado avanti, così, guardando Lui solo…
   Ma torniamo al Collegio.
   Dopo dieci giorni vennero a trovarmi papà e mamma. Era il mio compleanno e papà era voluto venire a trovarmi. Quando venni chiamata nel salone delle visite sentii un grande batticuore… Perché infine la ferita ora si sarebbe riaperta… e cominciava appena a rimarginarsi.
   La Superiora, una ottima educatrice materna, di carattere dolce, uguale, che faceva ubbidire con amore anche le più riottose, era parente di un amico nostro, ufficiale medico. Uno dei medici che avevano decretato la pericolosità del mio zio (?!). Un bell'asino, via! Ma in parte gli devo esser grata perché nel collegio fui felice. Non grata per avermi levata a papà nell'ultimo periodo della sua integrità mentale. Ma dirò in avanti!… Dunque la Superiora, che aveva già capito il mio acciaio, mi chiamò in disparte e mi chiese «la parola d'onore che non avrei pianto». La parola d'onore di una bimba! Certuni rideranno sentendo parlare di ciò. Ma la Superiora aveva capito chi ero io, di che tempra fosse fatto il mio io, e mi trattò come una persona adulta.
   Prima di dare la mia parola riflettei qualche minuto… e poi la detti semplicemente e fermamente e fui fedele ad essa. Nella vita ho sempre fatto così. Ho riflettuto prima di iniziare o di promettere una cosa. Ma quando la mia coscienza mi diceva: «Puoi promettere, puoi principiare», ho dato la mia parola, a me stessa o ad altri a seconda dei casi, e l'ho sempre rispettata fino a cosa compiuta. Con virilità, con onestà, con santità. Poiché è santità anche l'essere fedeli alle promesse che ci facciamo, o facciamo al prossimo, o facciamo a Dio.
   Andai dunque in sala, parlai coi miei e, per quanto dentro piangessi con tutte le mie lacrime di figlia, mi mostrai serena. Li accompagnai alla porta con un sorriso come la più veterana delle collegiali.
   Dopo… eh! dopo andai a piangere nell'unico posto dove noi collegiali si sia realmente sole, posto non poetico ma segreto come nessun altro. Ho sempre pianto là dentro io, perché neppure in chiesa mi sentivo così sola come in quell'angolino straumano… In chiesa c'era sempre qualche suora, qualche conversa, qualche compagna, e io ho sempre avuto un grande pudore del mio soffrire.
   Non mi è mai neppure piaciuto essere compianta perché soffrivo. Penso che il mendicare conforti, l'andare piagnucolando presso Tizio, presso Caio, sia senza dignità, sia prova di infantilismo morale ed è anche sempre prova di non eccessivo dolore. Perché il vero dolore, il dolore sovrano è dignitoso nelle sue manifestazioni. Esso sa benissimo che nessuna parola umana è atta a levarci la sua freccia dal cuore… Solo Dio, versando dal Cielo i suoi conforti sulla povera creatura che si torce sotto la pugnalata di un dolore vero, può mettere un calmante sovrumano nell'ardore della ferita. L'uomo no. La maggioranza degli uomini, anzi, ottiene proprio l'opposto del desiderato e del prefisso. Con le loro parole difficilmente suggerite da una vera luce interiore di comprensione e d'amore, con le stesse loro dimostrazioni d'affetto, spesso e volentieri intempestive ed esagerate, urtano ed eccitano invece di medicare e di placare.
   Qualcuno possiede, per grazia speciale data da Dio, il segreto di consolare. Ma la schiera di questi «qualcuno», che sono i veri consolatori dei fratelli, è così esigua, così esigua!… Si ritrova essa fra i veri santi in terra e fra coloro che hanno molto pianto e molto sofferto, senza divenire acidi sotto l'azione del dolore, cosa che talora, nei meno buoni, avviene. Sì, perché il dolore, maestro della vita, migliora i migliori che riconoscono il suo volto e comprendono quale crisma regale sia la sofferenza e quale sia la sorgente che stilla questo crisma, ma rende più aspri, più ribelli, più egoisti i meno buoni.
   Vi sono molti aforismi per definire l'uomo, ma io penso che uno dei più esatti è quello che dice: «Dimmi come soffri, come sai soffrire, mostrami che reazioni suscita in te il dolore, e ti dirò che uomo sei».
   Sì. Religione, amor di patria, amor di figlia, amor di sposa, amor di madre, virtù sociali, tutto si mostra nella sua vera natura sotto la reazione del dolore.
   Il vero credente bacia piangendo la croce e se la stringe al cuore dicendo: «Grazie, Signore, di farmi soffrire e di rendermi così simile a Te».
   Il vero patriota soffre virilmente per amore di Patria, e tanto più questa Patria è cagione a lui di dolore, tanto più egli la ama e la serve con un amore perfetto.
   Il figlio, realmente degno di tal nome, più ama e soffre per coloro da cui trasse la vita e più per loro si sacrifica in olocausto umile e grande di obbedienza, di rispetto, di affetto, senza curarsi se i genitori siano degni di quell'affetto, senza tener conto delle colpe loro, che egli vede, ma che non giudica e soprattutto non punisce, perché nel suo vero amore trova il segreto di tutti i perdoni, ossia di tutte le indulgenze.
   La sposa, o il marito che è realmente il coniuge del compagno, la carne unica con essa, colui che Dio unì e che forza e evento umano non può, non deve sciogliere, sa trovare in questo suo amore fiorito in un'ora di fede reciproca, e ferito dall'offesa dell'altro, ma che da parte sua non conosce sfiorire, la forza di rispondere con bontà all'altrui malvagità, con fedeltà all'altrui disamore, con virtù all'altrui non virtù, con dedizione all'altrui egoismo, col perdono a tutte le offese del compagno che calpesta il vincolo sacro ed eterno del sacramento e dell'amore.
   La madre, il padre realmente degni di tal nome non amano più di tutti il figlio che spreme dal loro cuore lacrime di sangue perché è malato nel corpo o devastato nell'anima? Quali sacrifici, quali somme di amore per contendere un figlio alla morte fisica o strapparlo alla morte morale! Se è vero che un figlio sano, bello, buono, oggetto di orgoglio per i suoi dà un senso di calma, di fiducia, di riposo, come è pur vero che tutte le industrie, tutti i pensieri, tutti i sacrifici, tanto più meritori perché l'anima sente che sono inutili, vanno spesi e prodigati per colui, fra i figli, che è cagione di dolore.
   Ho fatto una lunga digressione. Ma sento che Lei mi capisce. È uno dei pochi che hanno quel dono intellettivo, ben più grande della normale intelligenza, di comprendere i cuori.
   Io nulla so della sua vita, Padre, ma ho l'impressione che Lei non abbia avuto un'infanzia, una fanciullezza, una giovinezza priva di lacrime. Sa troppo capire chi soffre per non avere sofferto Lei stesso. Altrimenti dovrei pensare che Dio è talmente in Lei con la sua capacità infinita di capire e di amare che la sua personalità di uomo, sempre limitato nelle capacità intellettive, viene abrogata, superata, e Dio agisce, capisce, opera e consola in Lei, al posto di Lei.
   Ma torniamo al mio Collegio.
   La mia Superiora, me lo disse poi molti anni dopo, trasse da quella mia fedeltà alla parola data i più belli auspici sulla mia riuscita morale e spirituale, e da quel momento mi amò più ancora. Aveva capito che il «Valtortino», se era piccolo, timido, con apparenza morale comune e di fragilità fisica, era invece in realtà di una stoffa buona, fatta di generosità, di fermezza, di fortezza, di fedeltà.
   Sì. Ho sempre posseduto queste virtù, come mazzo di fiori coltivati in me da Dio e che io ho colti e dispensati in tutte le ore della vita ai miei fratelli. Esse sono in me, tenute legate dal cordone d'oro dell'amore. Un grande amore per Dio e per il mio prossimo. Questo sempre visibile e in atto, quello di Dio alle volte agente a mia stessa insaputa, per lavorìo interno dell'anima che, dal momento che concepì Cristo,per spirituale adesione al suo desiderio d'amore, non ha mai cessato di agire e operare nell'amore.
   E la mia vita di collegiale sempre più si organizzò e divenne da me sempre più amata.
   Sveglia alle 6 i giorni feriali, alle 7 alla domenica e ai giorni di festa. Alle 6,30 o alle 7,30 in chiesa per la S. Messa e preghiere. Alle 8 meno un quarto colazione, breve ricreazione, studio delle lezioni compiuto passeggiando sotto i portici o nell'immenso salone del Teatro nei mesi freddi. Alle 9 meno un quarto inizio delle lezioni di un'ora ciascuna. A mezzodì pranzo. Dal tocco al tocco e 3/4 ricreazione. Poi ognuna alle proprie occupazioni di lavoro, di studio, di musica, di pittura ecc. ecc. fino alle 16. Alle 16 merenda, ricreazione, poi compiti e lezioni fino alle 18,30. Orazioni della sera in chiesa e benedizione eucaristica in tempi di novene o nei mesi di maggio e giugno. Cena alle 19. Ricreazione dalle 19,30 alle 20,30. Poi, dopo il canto del «Sub tuum praesidium» davanti all'Immacolata, le piccole a letto, le grandi alzate fino alle 21,30 e anche oltre in tempi d'esami. E poi a nanna.
   Al giovedì e alla domenica passeggiata per la città o al Parco a seconda della stagione. D'estate tutte le sere passeggiata in campagna fra i campi pieni di spighe d'oro. Durante il carnevale cinematografo e recite. Di tanto in tanto recite presso altri istituti che ci invitavano ai loro spettacoli, concerti al Conservatorio di Milano o in altre sale. A primavera gite-premio in Brianza e sui laghi. Dal 10 luglio al 10 ottobre vacanze a casa.
   Vitto ottimo e abbondante, assistenza medica assidua, riscaldamento generale con termosifone, allegria, bellezza, signorilità e bontà.
   Io ci stavo benone. Sono stata in Collegio dal 4 marzo 1909 al 23 febbraio 1913: cinque annate scolastiche e quattro anni solari. Solari non solo per durata di 365 giorni ma per la letizia veramente solare di quel tempo. Le mie compagne, tutte molto amate in famiglia, molte persino viziate, trovavano quella disciplina molto severa e se ne lamentavano. Io trovavo che non avevo mai sentito tanto poco la disciplina come là dentro. Lo studio mi piaceva e là era bello studiare perché la lode era stimolo continuo alle volonterose. Studiavo dunque con gioia e con merito ed ero sempre all'ordine del giorno. L'ordine, l'ubbidienza non mi pesavano, l'educazione neppure. Perciò ero sempre citata a modello. In 5 anni non ebbi mai una punizione.
   Le ho detto che fin da piccola io agivo bene per orgoglio, per non avere da chiedere scusa. In secondo luogo agivo bene per far contento papà e per evitare i castighi di mamma. Ma qui, nel mio Collegio, studiai bene, fui una collegiale perfetta — lo devo dire perché è verità e non temo smentite: le mie Suore sono ancora vive e possono confermare il mio asserto — unicamente per amore.
   Avevo notato che le Suore, queste madri-vergini, giubilavano realmente quando le allieve corrispondevano alle loro cure, mentre si rattristavano e soffrivano quando, nonostante tutti i loro amorevoli sforzi, una ragazza rimaneva svogliata, indisciplinata, ribelle. Io non volli mai rattristare le mie Suore, che mi amavano come mia madre non mi aveva amata e che io amavo con una riconoscenza che dopo trent'anni di separazione non ha conosciuto languidezze.
   Suor Rosa, la vice superiora degli studi, soleva dire: «Si lamentano dei superiori quegli alunni di cui i superiori hanno molto a lamentarsi». È una grande verità. Io, che ho sempre fatto il mio dovere, non ho da lamentarmi dei miei superiori così come loro non hanno a lamentarsi di me, e me lo mostrano in tutti i modi.
   Anche le compagne mi hanno voluto e mi vogliono tuttora bene. Sono sempre andata d'accordo con tutte e se anche certe manie, certe superbiette, certi egoismi delle mie compagne non mi piacevano, le ho sempre compatite, cercando di farle ragionare con pazienza per modificare tendenze naturali in loro che erano bimbe ricche e felici… Io ero ricca ma non felice, sapevo il sapore del pianto, e la vita aveva perciò per me luci diverse dalle loro.
   Quante confidenze, quanti piccoli segreti e quanti segreti aiuti ho dato alle mie sorelline d'anima!… Possedevo naturalmente la difficile qualità del silenzio. Sapevo ascoltare, consolare e tacere. Il collegio è un piccolo mondo. Vi è di tutto: tutte le classi sociali, tutti i caratteri, tutte le contingenze: dolori, gioie, speranze nostre e riflesse in noi dalla vita di fuori. Tutto è comune fra quella piccola società: la pena che colpisce una è divisa dalle altre; lutti familiari, sventure, disastri che colpiscono una fan piangere tutte; gioie, nascite, nozze che vengono a rallegrare una rallegrano le altre.
   E anche le Suore hanno i loro affetti e le loro croci. Intime, della comunità, e esterne della loro casa abbandonata per amore di Gesù. Chi sono quegli stolti che dicono che l'abito monacale estingue gli affetti? Ho visto soffrire acutamente le mie Suore in certe ore di strazio… Davanti a me, di cui erano sicure della comprensione e della prudenza, sono sgorgate molte lacrime delle mie Suore… Qualche volta si rifugiavano nella mia stanzina di studio — perché ebbi una stanzina tutta mia, per motivi che le dirò poi — e lì lasciavano che il loro cuore traboccasse… Povere care Suore! Io le lasciavo piangere, ascoltavo quello che mi dicevano, intuivo quel che non mi dicevano, pregavo Gesù di consolarle e, per mio conto, davo loro il mio amore. Partivano di là rasserenate.
   Io pure mi confidavo in loro. Poco, perché ero molto chiusa, timida, pudica circa i miei sentimenti. Ma insomma ci si intendeva anche senza troppe parole. Lo sguardo, l'ardore del volto, il tremito della voce dicevano quello che io mi vergognavo di dire.
   Ero amata molto. Una naturale giustezza di giudizio faceva sì che le mie riflessioni difficilmente fossero errate. La mia Superiora diceva sempre a mamma: «Eh! Maria è una donnina molto assennata. Non le sfugge nulla e occorre vigilarsi molto anche noi Suore perché, se sbagliamo, con bel garbo ce lo fa osservare e devo convenire che ha proprio ragione!».
   Le compagne poi mi adoravano ed erano orgogliose di me per la mia intelligenza. Molto più orgogliose di me stessa che sentivo che non potevo gloriarmi di questo dono di Dio, ma solo dovevo darne lode a Lui e usarlo in pro delle mie condiscepole. Tutte le lettere a prelati, ad autorità, tutti i saggi di letteratura da leggersi nelle accademie, tutti i temi di imitazione sono usciti da questa mia zucca… Mi pareva di essere un baco da seta che fila, fila, fila il suo secreto vischioso e intreccia, intreccia, intreccia il suo capolavoro… Senza merito e senza fatica.
   Ma questo è tutto lato umano. Mi spiace perdere tempo a parlarne, anche perché devo dire di me del bene. Ma Lei si è raccomandato che le dica il bene e il male. E io lo dico.
   Ma ora entro in un argomento che le piacerà di più e che mi piace di più. Prima, però, le dirò cosa studiai.
   Il primo e il secondo anno istruzione interna. Poi il terzo, dopo la malattia di mio papà, avvenuta nella primavera del 1910, mia mamma, che ormai era padrona assoluta di tutto, non essendoci più neppure l'ombra della volontà da parte di mio babbo, impose la sua volontà che non va discussa e dovetti fare le tecniche.
   Mamma voleva le complementari e poi le normali, fissa nel suo ideale della «figlia maestra». Ma le Suore fecero notare che avrei dovuto uscire di collegio e frequentare le scuole pubbliche come privatista e anche che, essendo assolutamente inetta al disegno, non potevo frequentare le normali. Mia mamma allora opinò per le tecniche.
   Peggio che mai! Pensi che la mia capacità matematica si era arenata davanti alle frazioni… Come un mulo caparbio il mio cervello si era rifiutato di proseguire nel calcolo. Non capivo nulla: le lezioni di aritmetica, geometria, computisteria erano un supplizio sterile. Arrivavo a sentirmi male per lo sforzo di capire, ma non capivo nulla. Mi pareva parlassero giapponese, africano, esquimese!!! Pensi se era il caso di parlare di tecniche! In fondo non ne avevo bisogno di un impiego… Ma se proprio mi si voleva mettere in mano il pezzo di carta di una licenza, fosse almeno stata di studi classici dove riuscivo tanto bene.
   Pregai, supplicai in questo senso. Le Suore pregarono e supplicarono in questo senso. Niente. Mia madre, fedele al suo: «Ho detto e ho detto», fu inesorabile.
   Feci in un anno le tre tecniche… e fu una solenne bocciatura nella matematica, geometria e computisteria. Per tutto il resto voti massimi… Mi ero sciupata fino ad ammalarmi, mi ero distrutta di lacrime e di fatica senza scopo… Come sempre mia mamma si era posta di traverso sulla mia vita e mi aveva rovinata… E mi ha rovinata… E mi ha sciupato un pezzo della mia esistenza felice di collegiale… Mah!
   Tornata in Collegio, malatissima, per l'esame di ottobre le Suore ottennero di farmi fare tutto il programma classico durante i restanti mesi di educazione. E lo ottennero. Ma che mi è valso? Che è servito quella povera licenza sciupata da voti bassi nelle tre materie esatte? E che mi è servito quello studio così massacrante per cui in meno di venti mesi ho esaurito tutto il programma di studi di ginnasio e liceo? Ho avuto delle soddisfazioni intime, ma un utile no. E allora? Mah! Mah! E sempre: Mah!
   Ecco perché durante i due ultimi anni scolastici io ebbi una stanza di studio per me sola, dove lavoravo, lavoravo, lavoravo per dodici ore al giorno. Del resto furono ore di gioia, perché le materie letterarie sono amatissime da me.
   E ora parliamo dello spirito, della vita dello spirito.
  

 … Di cui sicuro solo è colui che fede certa ha in Cristo

 

   Nel mio Collegio, come fiore in aiuola propizia, come pianta portata dall'ombra a sole, come arbusto inselvatichito che sente su sé la mano del giardiniere, sono sbocciata in altezza, in intelligenza, in sapere. Ma soprattutto sono sbocciata in Cristo.
   Come le ho detto in principio di questa narrazione, il primo incontro avvenne «pria che fuor di puerizia fossi» là nella Cappella delle Orsoline dove, con tutta l'innocente confidenza del­l'infanzia, ho amato Gesù che per me era morto fra tanto dolore. Poi… avevo perduto di vista il mio Dio. Il contatto si era rotto, proprio come un filo che si spezza sotto un peso soverchio di cose inutili.
   Le Adoratrici del Ss. Sacramento avevano riallacciato il filo spezzato. Ma, certo per mia incapacità, la corrente non si era stabilita. Troppi anni di inerzia spirituale erano trascorsi e l'anima era caduta in un letargo dal quale stentava ad uscire. Gesù non mi sforzava. Avrebbe potuto scuotermi duramente, mediante qualche dolore, mediante qualche altra cosa voluta dalla sua volontà. Ma non lo fece. Attese. Mi amò solo, il mio caro Gesù… Ora è giusto che io lo ami anche senza sentire le sue carezze, perché io per tanto tempo sono stata così apatica, così intontita da non sentire le sue.
   Giunta in Collegio, fin dai primi giorni, ho sentito che la mia anima si volgeva di nuovo a Lui. Non diversamente deve sentire l'albero a primavera, uscendo dal suo letargico sonno invernale. Su dalle radici, sprofondate nel suolo, una linfa, che altro non è che molecola di sole scesa nelle zolle dianzi fredde ed ora tiepide di raggi d'oro, sale per il tronco brullo, mette un brivido nella scorza ruvida, un sangue nel legno compatto, una vita nel midollo semimorto, si spinge, per i rami, verso la cima, inturgidisce le gemme appena abbozzate, le gonfia, le apre in un miracolo di nuova fronda, sparge bocci e corolle, avviva gli ovari e li rende fecondi, suscita i vegetali connubi fra fiore e fiore, dà moto al polline fecondatore, crea il trionfo del frutto novello, fa dell'albero, dianzi triste e scheletrito, un poema di vita utile e feconda.
   Io pure ho sentito qualcosa scendere in me, sciogliere il ghiaccio del cuore, darmi un moto, un palpito, una luce dove prima era morte e buio… S. Giuseppe, colui che tenendomi sulle paterne sue ginocchia m'aveva lavata per primo l'anima nel Sangue di Cristo, mi prendeva ora per mano e mi conduceva a Gesù. Ero appena in Collegio da sei giorni quando cominciò la cara novena di S. Giuseppe, e vi ero da quindici quando ebbe luogo la Messa solenne in onore del Santo che era anche il Santo della mia Superiora. Il sole di Cristo si alzava sulla mia notte…
   Mi sono sempre molto piaciute le funzioni liturgiche solenni. Quella pompa intorno al Santo dei Santi, quella musica sacra, soave e solenne, quell'aroma di incensi che si consumano davanti all'altare, in fragranza e in fuoco, quel lodare Dio e i suoi Santi in una cornice di fasto mi hanno sempre toccato il cuore. E mi hanno dato una misura infinitesimale di quel che è e sarà, nei secoli dei secoli, l'eterna funzione di osanna all'Agnello nei beati cieli di Dio. E, fin da allora, hanno messo in me una nostalgia delle teodie celesti, un'ansia di andare lassù per unire la mia voce a quella delle schiere beate la cui vita è adorare la Trinità santa e sperdersi nella gioia di tale adorazione.
   Nel mio Collegio la religione informava di sé tutta la giornata. Ma era una religione luminosa, aperta, fiduciosa. Non lunghe estenuanti preghiere ma il costante breve richiamo a Dio, non tremore del giudizio suo ma fiducia nella bontà del Padre ci veniva inculcato. Non imposta mai la religione; ma venivamo portate a desiderarla senza accorgercene neppure, tanto era soave la sua pratica, dolce il modo delle Maestre che vivevano di essa religione, tanto tutto era attrattiva nella vita pia che ci facevano vivere.
  La giornata si iniziava con la S. Messa, e questa era per tutte, ma se una non si sentiva di accostarsi alla mensa eucaristica era padronissima di non farlo. Nessuno le chiedeva o le diceva nulla in merito. I modi delle Suore non cambiavano davanti all'inerzia spirituale di qualche loro figliuola. Certo avranno raddoppiato le preghiere per questa anima assopita, ma non dicevano nulla direttamente a lei.
   Penso che questo sia il metodo migliore, l'unico anzi da tenersi in materia così delicata quale è la vita dell'anima. Preghiera e penitenza per ottenere luce ai cuori abbuiati ma non più di questo. La religiosità altro non è che vita di amore, e gli amori, per esser veri, devono essere spontanei. Se vengono imposti cessano automaticamente di essere amore e divengono onere pesante e antipatico. Bisogna saper portare i cuori ad amare senza che questa industria sia manifesta.
   Le mie Suore eccellevano in quest'arte sublime. Ci educavano alla vita di fede così dolcemente, con tocchi così leggeri e quasi insensibili, che noi ci trovavamo permeate di religiosità senza accorgerci neppure che un lavoro continuo in quel senso veniva fatto.
   Così come non forzavano alla pietà, ugualmente non spronavano all'esaltazione della pietà. Anche qui avevano una guida molto retta, la quale si limitava a sorvegliare le tendenze delle nostre anime giovanette senza fare nulla per svegliare in noi quelle effimere febbri mistiche, proprie dell'età pubere, le quali dopo aver portato i cuori a un delirio di sentimentalismo sacro li lasciano poi, cadendo come labile fiammata di paglia, coperti di cenere e freddi, freddi per la vita avendo consumato in un'ora, e non in un vero amore ma in una chimera d'amore, in un miraggio bugiardo, tutto quel poco di senso di pietà di cui erano capaci. Come certe piante sforzate dal giardiniere con arti contronatura e che si sviluppano precocemente e si coprono di un rigoglio innaturale di fronde e corolle venute anzitempo e poi… muoiono. Povere effimere vegetali che il capriccio dell'uomo conduce a fine anzitempo, mentre avrebbero potuto rallegrare di sé per tant'anni…
   Tutto questo nel mio Collegio non avveniva. La fede era dappertutto, sole datore della vera Vita, ma come appunto succede degli astri, che sempre sono nei cieli e l'uomo vive le sue giornate e prende i suoi riposi sotto il loro rotare senza pensare ad essi, così ugualmente noi vivevamo regolate dal sole della fede, ma senza pensare che quel Bene che sentivamo crescere in noi veniva da quel sole che ci penetrava piano piano e diveniva sangue della nostra anima, carne del nostro spirito. Ma appunto perché era così, opera lenta e costante, essa è rimasta durevolmente in noi.
  Quando le nubi si aprono e l'acqua scroscia da esse sulla terra, stesa come drappo smisurato a riceverla, diverse sono le reazioni che produce. Un acquazzone alluvionale percuote, ammacca, divelle, asporta fronde, frutti, steli e semi; una rovina giallastra e fangosa rimane a ricordo della furia meteorologica. Ma se una lene acquerùgiola, quasi una rugiada d'aprile, scende piano dal cielo appena velato, mondando le fronde dalla polvere, gonfiando i bocci e gli ovari, scendendo sulle zolle come una carezza, filtrando fino ai semi nascosti per nutrirli dei gas rapiti all'atmosfera, l'uomo vede, con attonito occhio di gioia, la terra divenire più bella e feconda e pullulare la vita da tutti i suoi pori che trasudano steli, che s'incoronano di fiori, che, in un'atmosfera più limpida e pura, promettono la prossima speranza della messe.
   La religione nel mio Collegio era la mite acqua che penetra fin nel profondo, portando seco succhi salutari di vita.
   La reazione delle anime era diversa come diverse erano le anime stesse. Alcune di noi sono andate ben in alto nel soprannaturale, altre sono rimaste quelle che erano, altre ancora si sono miseramente perdute. Ma questo diverso rendimento è venuto da cause individuali e di famiglia perché, per conto delle Suore, l'opera educativa era uguale per tutte noi e su tutte noi.
   Io, probabilmente perché ero poco felice, fui, con più facilità, arrendevole alla grazia.
   Non dovrebbe essere così, vero? Si direbbe che dovrebbero essere i più felici quelli che la bontà di Dio preserva dal dolore, che lo amano e si attaccano a Lui con riconoscenza ed affetto. Nella realtà invece avviene solitamente il contrario. Sempre parlando di cuori non del tutto malvagi, perché in quel caso bene o male, gioia o dolore, lasciano la stessa indifferenza sacrilega verso il Datore di ogni cosa, quando non spingono addirittura a una ancor più sacrilega ribellione. Ma in animi non perfettamente malvagi il dolore è campana che ricorda all'anima Iddio; ma in cuori poveri di affetto è benefattore che dà il pane dell'amore in nome di Dio; ma in esseri soli, nella vita che non li ama, più che per creatura spersa in un deserto, è incontro con l'Unico che non tradisce, che non disillude, che non abbandona.
   «Coloro che piangono sono coloro che sanno» non solamente capire gli altri cuori, ma sanno anche trovare il Cuore dei cuori su cui posare la fronte che duole, il Cuore che sanguina su cui versare il pianto che ci ricolma ed accieca, su cui porre il nostro amore che nessuno vuole e che pur chiede di esser donato per non divenire pesante tortura che accascia…
   Maria, la piccola Maria che aveva già tanto pianto, e pianto sola, che aveva già tanto amato, e amato sola, nella luminosa primavera del 1909, mentre si aggirava sperduta in un piccolo mondo nuovo ha udito una voce suonarle nel cuore e chiamarla «Maria!», e la piccola Maria alzando i suoi occhi giovanetti, già troppo seri per il molto dolore che avevano dovuto assorbire, incontrò un volto dolcissimo che la guardava con amore e pietà. Ma Maria non lo conobbe subito… solo si sentì attirata da Lui che la guardava con tanto amore e le tendeva le mani con ansia di carezza, e gli sorrise… Allora la luce si fece e Maria conobbe, riconobbe Gesù, il Maestro, e gli si prostrò ai piedi con desiderio di amore.
   Ma il Maestro, che sapeva come Maria piccolina l'avrebbe dovuto amare in cognizione completa, dopo tante, tante traversie, le disse, come già alla Maria di Magdala in quella radiosa mattina d'aprile: «Non mi toccare3. Prima molto devi compiere ancora. Non Io ma tu devi prima salire sulla croce e metterti ostia sull'altare del dolore, offrirti alla giustizia del Padre, bere fino alla feccia il mio calice, conoscere le diverse facce della tentazione, della passione, dell'amore, scegliere il migliore e rinunciare a ciò che è lusinga vana. Prima devi scomparire con la tua personalità di ora e rinascere con un'anima nuova. Prima devi dire il tuo "Fiat", dire il tuo "Ecce ancilla…", e con tutto il dolore, che è destino delle figlie d'Eva, concepirmi, generarmi, nutrirmi di te. Quando di te stessa avrai fatto un ciborio per accogliere la mia Umanità torturata per amor vostro, quando di te stessa avrai fatto una vittima, un'ostia minore, allora mi toccherai, allora Io sarò in te e tu in Me, in un legame di amore che ti farà beata fin dalla terra, fin dalla croce, perché Io sarò la tua forza, la tua gioia, il tuo tutto. Per ora io sarò semplicemente il Maestro, perché tu non avrai altro maestro fuor che Me, non potendo nessuno istruirti nella difficile via per la quale ti voglio condurre al mio regno: la via del dolore, perché sappi, anima che prediligo, che solo con parola e con volto di dolore Io verrò a te per portarti alla gioia».
   Così parlò, con la sua voce senza suono, il mio dolce Gesù alla mia anima che l'aveva trovato in quella dolce primavera e l'aveva riconosciuto. E l'anima mia, con maggior capacità di pensiero che non avesse avuto nella puerizia beata, si mise al seguito del Maestro dal quale avvertiva sarebbe venuto a lei ogni bene, nella sua vita umanamente orba d'ogni bene.
   Conobbi da allora quella gioia del cuore che è compagna di coloro che fanno Dio centro dei loro affetti e scopo della loro esistenza. Quella pace profonda che esiste e resiste anche se la superficie del nostro io è sconvolta da onde di bufera. Quella dolcezza che tempera l'amaro delle ore più nere e dà forza di proseguire, rasentando, è vero, la disperazione, ma sapendola superare, nella via della croce e perciò di Dio.
   Quanto ho amato Gesù nella mia prima giovinezza! E come Egli mi amò!
   Non so se l'intimo fuoco del cuore ebbe bagliori esterni che rendessero noto il suo esistere alle mie Suore. Ero così chiusa, sapevo vigilare con tanta attenzione sulla mia vita più vera e più segreta, che dubito di questo. Almeno per i primi tempi credo che il mio mistico fidanzamento con Cristo sia stato sconosciuto a tutti. Ma a me era ben noto!
   Non era un amore inavvertito, naturale come certi amori di cui ci si accorge solo se ci vengono a mancare. Ah! no! Io sapevo di amarlo esapevo di volerlo sempre più amare. Questo amore era pieno di cognizione, ben delineato in tutti i particolari. Esso mi dava interno canto e interno pianto d'amore, esso mi dava luci e consigli, mi dava attività e volonterosità e ansia, ansia, ansia di amarlo sempre più e sempre più perfettamente, profondamente, completamente.
   E Gesù mi istruiva con una dolcezza paterna. Gesù, sì, proprio Gesù. Non sono divenuta la sua piccola Maria-ostia per parola umana, per quanto parole sante mi siano state dette dall'altare. Era Gesù che mi istruiva, chiamandomi dolcemente nelle ore in cui voleva che l'udito spirituale della sua piccola Maria fosse ben teso a parole di vita che Egli poi avrebbe illuminato di luce divina in me.
   Ricordo… Ricordo quale soave tempesta d'amore suscitarono in me certe speciali vite di sante.
   Era uso del Collegio di fare, durante speciali periodi quali l'av­vento e la quaresima, la lettura in refettorio. Una delle «grandi», o una Suora stessa, salivano su una specie di pulpito situato al centro del lunghissimo salone da pranzo e per un quarto d'ora a mezzodì e un quarto d'ora alla sera leggevano pagine di vite di sante.
   La prima che udii fu la «Storia di un'anima». Allora Santa Teresa del Bambino Gesù4, morta da soli undici anni, era semplicemente Suor Teresa del Bambino Gesù… Ma per me fu subito l'Amica… La sua dottrina di confidente abbandono, di generoso amore, la sua piccola grande via di santità, si sono imposte subito a me. Ho capito che per quella stessa via dovevo camminare per arrivare a Gesù… Vedrà, Padre, che non mi ero sbagliata e che tanti anni dopo fu la dolce Santina la mia «madrina» quando mi donai ostia a Gesù…
   Poi le martiri… Anche in scuola di lavoro una leggeva per tenere quiete e silenziose, soprattutto, le mie irrequiete e loquaci compagne. Molto spesso quell'una ero io, che leggevo bene e con bella pronuncia. Così «Fabiola», l'«Ultima vestale», «Ben Hur», «Sotto il segno di Roma» e non so quanti mai libri sui primi tempi del cristianesimo furono letti, o uditi leggere, da me. Quante amiche ebbi allora nella schiera di neve e di porpora delle vergini-martiri! Quanti amici nei tribuni santi, nei santi diaconi, negli umili schiavi e plebei della Roma catacombale!
   Si ha sempre dal buon Gesù quello che gli si chiede con purità d'intenti e per sprone d'amore. Alle volte ci sembra che non sia così, ci sembra che Dio non ci dia retta. Ma invece si fa solo attendere. La preghiera fatta con sincerità e per un sicuro bene nostro viene sempre esaudita da Dio.
   Io ho chiesto, ripetendo a migliaia di volte la preghiera di Agnese, che il mio corpo ed il mio cuore venissero conservati puri perché non fossero confusi al cospetto di Dio, ho chiesto le mille volte di concedermi di amarlo attraverso la confessione del martirio, perché io non potevo ormai più separarmi da questo Amatore al quale mi legava un nodo così dolce di carità.
   Non ho forse avuto quel che ho chiesto? Sì, l'ho avuto e in forma completa. Se necessità di malattia hanno fatto chinare la corolla candida della intemeratezza verginale, non è questo in compenso una porpora di martirio che si stende, ancor più fulgida, su tutte le sofferenze della carne, perché è martirio del cuore che vede strapparsi l'inviolata freschezza del giglio delle vergini? Se nel bel Paradiso io non sarò più fra i centoquarantaquattromila5 che seguono l'Agnello, candida falange di coloro la cui carne non ha conosciuto profanazione di nessun genere, in compenso non sarò fra la schiera arrubinata di sangue di coloro che un ben alto e comprensivo amore ha spinto sulla via della immolazione, che è cruenta anche se in apparenza non è intrisa di sangue ma solo di stritolamento di tutte le più vere ricchezze dell'uomo, prima delle quali la salute, la vita?
   Se persone non molto convinte sui veri più veri della nostra religione sapessero che io, povera creatura femminea, all'aurora della vita, quando ancora l'esperienza di detta vita non ci ha rese cognite di cosa sia l'immolazione, mi sono offerta, direbbero che ero una stolta, una pazza.
   No, Signore. Né stolta né pazza la tua piccola violetta innamorata, e neppure presuntuosa di sé. La piccola violetta nata in quaresima, la piccola violetta che si imperlò delle sue prime lacrime d'amore per Te, al cospetto del tuo volto ferito, la piccola violetta che cresciuta nell'ombra e nel buio, nel freddo e nella solitudine, anelava al tuo sole, al tuo amore per drizzare il capino così mesto e sorridere alla tua croce, sapeva che Tu non avresti deluso il suo desiderio e l'avresti aiutata nel soffrire per Te.
   Tu hai avuto bisogno del Cireneo per portare la tua croce, ma per i tuoi piccoli cristi, che salgono il loro calvario portando la loro croce per amor tuo, per amore dei fratelli, per compire e continuare la tua Passione, sei Tu che divieni Cireneo, e quando la creatura vacilla e cade per la sua fragilità umana e, troppo sofferente, non ce la fa più a trascinare la croce, Tu le subentri e sottoponi le tue spalle divine al peso del legno, perché hai pietà delle piccole ostie, perché hai di esse un geloso amore, una santa ansia di innalzarle insieme a Te sulla vetta, fra la terra e il cielo, altari vivi e vivi turiboli sui quali l'occhio del Padre si china benigno e dai quali colano rivoli di grazie sul prossimo che passa e ignora…
   Io avevo dunque un mondo tutto mio nel quale mi rifugiavo per vivere la mia vita di desiderio. Santo desiderio di immedesimazione con Cristo, che sei conosciuto da pochi e che porti con te aromi di paradiso!
   È di quei tempi la mia nostalgia per i bei mesi di maggio e giugno, in cui le glorie di Maria cedevano il posto alle glorie del Cuore divino… Il profumo di quei mesi è rimasto in me come essenza in vaso sigillato, un profumo non di questa terra ma realmente di aiuola celeste, e tutte le rose, i gigli, gli iris, i garofani e i mille e mille fiori del maggio soave e del giugno solare, insieme riuniti, non potrebbero tentare di, non dico eguagliare, ma solo imitare quel profumo di cielo che mi portavano in cuore le falangi angeliche durante questi bei mesi di Maria e del Figlio suo. Quando finivano io restavo come uno che veda finire la sua gioia…
   È di questo tempo il mio divenire Figlia di Maria. Veramente avrei preferito divenire Figlia dell'Addolorata perché ero molto devota della Madonna dei dolori. Sua la chiesa dove qui, nelle vacanze, andavo come a mia parrocchia estiva, sua la prima medaglietta preziosa che portai, sua la effigie sul mio comodino. Pare che Maria Addolorata continui a volermi sua perché… anche ora, al termine della vita, ha messo l'anima mia fra le mani di un suo Servo6 e… giunge a mettere la sua… giurisdizione anche sui miei lavori che vuole per il suo altare. Del resto è giusto che sia così. La piccola innamorata di Gesù sofferente e crocifisso non può avere per Madre che Maria Addolorata.
   Avrei dunque voluto portare il nastro viola delle Figlie del­l'Ad­dolorata che vedevo al collo delle ragazze del 3° esternato, delle popolane dunque, che le Suore riunivano per insegnare loro il lavoro e per tenerle in salvo, la domenica, nel ricreatorio. Questo 3° esternato era in fondo, in fondo al vastissimo fabbricato del Collegio, fabbricato che teneva tutta una strada e che, opportunamente diviso in quattro parti che erano non a contatto fra loro, si componeva di Collegio signorile vero e proprio, di 1° esternato dove venivano le signorine di Monza in istruzione, in 2° esternato per la bassa borghesia dove le alunne imparavano un poco di istruzione e molto cucito, e di 3° esternato dove erano ragazze povere, povere e raccolte per carità da mattina a sera, oltre che al pomeriggio festivo, le quali imparavano il cucito.
   Erano buone ragazze affezionate alle Suore. Ci invitavano alle loro recite e a noi pareva di andare in un altro mondo ad arrivare là in fondo, in fondo, dopo aver traversato tutto il fabbricato, una decina di cortili, il parco, l'ortaglia vastissima, le corti rustiche, piene di chicchirichì e di coccodè. E noi le invitavamo alle nostre recite e probabilmente anche a loro faceva l'effetto di andare in un altro mondo a venire nel nostro bellissimo Collegio fra ori, mosaici, pavimenti che erano specchi, arazzi, lampadari, ecc. ecc.
   Ma, per tornare al mio desiderio, le Suore non permisero che fossi Figlia dell'Addolorata. Sarei stata l'unica del Collegio e le singolarità erano sempre represse. Fui dunque Figlia di Maria.
   È di quel tempo il mio… dormire col Crocifisso. Avevamo un grande Crocifisso di ottone a capo del nostro lettino. Io avevo un vero trasporto per il mio Crocifisso. Lo tenevo lucido come l'oro a suon di energiche strofinate con la gomma da inchiostro e col mio grembiule di lana nera: unici… strumenti, atti a tenere lucido il metallo, che avessi a portata di mano. Il mio Gesù brillava come una gemma dalla spalliera del mio lettino. Sfido io! Con quelle strofinature così… profonde! Quelli delle mie compagne erano opachi, coperti di verderame, ma il mio… era bello come una croce da cardinale.
   Ma non mi bastava di lucidarlo. Trovavo sempre un fiorellino anche nei mesi più freddi, una fogliuzza d'edera magari, scavata sotto la neve che mi gelava le dita… Ah! ci voleva proprio un grande amore per Lui perché io mi spingessi fra la neve, che non potevo soffrire, e scavassi sotto la sua crosta per trovare un ramettino d'edera per la sua croce! Avevo trovato il modo di conservare freschi quei fioretti, quelle ramettine, tenendo legato alla sbarra del letto, sotto la croce, un astuccio da pennini con dentro una falda di ovatta bagnata d'acqua, e come stavo attenta che non si asciugasse!…
   E poi c'era la notte… Non potevo vedere Gesù lassù, solo, mentre io stavo al caldo sotto le coperte e dormivo. Allora lo staccavo e me lo mettevo sul cuore con tanti baci e tante parolette innamorate e mi addormentavo così, felice di dormire con Gesù sul cuore, di scaldarlo sul mio cuore.
   Non so se le Suore se ne sono mai accorte. Loro non mi hanno mai detto nulla in proposito e io pure non dissi mai nulla… Erano i miei segreti convegni con Gesù!…
   E così passavano i miei giorni di collegiale.
   Non pensi che l'amore, sempre crescente, per Gesù avesse spento in me la parte umana. No, per carità! La nostra umanità, con quanto essa ha di eredità da Adamo, io credo che muoia veramente tre giorni dopo noi stessi. È una gramigna che né fuoco, né zappa, né dente di pecorella estirpa mai completamente, e tagliata rinasce, strappata rigermina, arsa ripullula. Il più grande suo nemico è l'amore di Dio, ma nonostante questo essa non muore mai del tutto; qualche radica, qualche fittone restano sem­pre, restano sempre per tormentarci e per tenerci bassi, nella polvere, perché non ci si insuperbisca.
   Soffrivo ancora molto del modo di fare di mia mamma che continuava a non capire nulla di me.
   Soffrivo d'essere in condizioni di inferiorità presso le mie compagne che avevano un borsellino privato, tenuto è vero dalla Suora assistente ma dal quale potevano prelevare fondi per piccoli regali di belle immagini, di ricordi a suore e compagne, per beneficenza, per lotterie.
   Soffrivo a non avere quelle belle cartoline illustrate per la nostra posta, quelle belle cannucce e matite, e astucci di studio e di lavoro che le altre avevano. Sono piccole cose, ma fanno tanto soffrire quando si è nei collegi!
   Soffrivo anche perché non ero in condizioni da imporre certe privazioni, ma erano dovute solo al volere materno che non pensava come esse fossero mortificanti per la sua creatura.
   Soffrivo perché nessuno veniva a trovarmi. Dei parenti che erano a Milano, causa gli attriti con mamma, nessuno. Dei parenti più lontani da Milano, nessuno. E nessun amico di famiglia perché mamma aveva detto che «non aveva piacere». Perciò vedevo le altre andare in parlatorio tutti i momenti ed io mai. Solo quando venivano i miei. Ogni quindici giorni fino alla malattia di babbo, e poi anche ogni due mesi…
   Soffrivo perché non avevo la bella biancheria delle altre, perché, perché, perché… tanti piccoli perché che erano come le spinuzze dei fichi d'India. Non si vedono neppure ma dànno tanto tormento!
   E poi… il grande dolore. Ah, no. Prima c'è un'altra pena.
   Avevo sofferto, indicibilmente, nel fare il confronto fra la mia povera giornata della Prima Comunione, sola con mamma, senza presenza di papà, e la Prima Comunione delle mie compagne in Collegio, così bella e commovente: le educande tutte bianche fra le altre in grigio, i papà, le mamme, i nonni, gli zii e tanti regali e tante tante cose… Come avevo sofferto a vedere, dietro la fila liliale delle comunicande, la fila dei papà che si comunicavano dopo le loro bambine… Bene. Lasciamolo lì se no ci piango ancora. È una freccia troppo aspra che si rigira in cuore…
   E veniamo al grande dolore.
  

   Le ho detto come mio padre avesse sofferto per vedersi privato del suo brevetto di inventore. Le ho detto come soffrisse delle scene familiari che lo portavano a piangere come un bambino, il mio caro papà così buono e così virile nel dolore fisico e in tante altre cose, intutte le cose meno che in questa.
   Ma finché la sua Maria era stata con lui, un balsamo medicava quel cuore così ingiustamente tormentato da colei che avrebbe dovuto avere per lui tanta riconoscenza. Anche io gli ero stata levata. E per amore della mia salute, non avendo la forza di allontanare il cognato addolorando la moglie, aveva ceduto. Però non ceduto al punto da rinunciare a me per le vacanze estive. E aveva sgomberato la casa dallo zio infermo, mandandolo nell'Ospedale di Bergamo dove poteva avere assistenza e contemporaneamente un impiego come bibliotecario e traduttore.
   Quante liti, quanti rimproveri e sgarbi e musonerie sarà costata a mio papà la sua fermezza nel liberare la casa dal cognato in modo che nel luglio 1909 io potessi tornare a casa mia? Solo Dio lo sa. Io ricordo di aver trovato papà smagrito, stanco, sciupato… Ma durante i tre mesi estivi si riprese. Io ero la sua vita e il suo conforto.
   Ebbe inizio l'anno scolastico 1909-1910. Natale, Pasqua… Papà era molto depresso. Si rianimava solo quando io ero con lui. Ma per quanto fossi poco più di una bimba, capivo che soffriva molto e sapevo anche dare il giusto nome a quel suo soffrire…
   Ero tornata da poco in Collegio, dopo la Pasqua, ed ero sofferente per una caduta nella palestra di ginnastica, dove ero precipitata dall'alto delle sbarre di sospensione troppo grosse per la mia piccola mano e dove avevo riportato la distorsione di una caviglia e, quel che è peggio, una contusione spinale, la prima della serie, quando papà mi scrisse che partiva per Pinerolo per il corso d'istruzione della mitragliatrice, immessa nell'uso del nostro Esercito proprio quell'anno. E mi prometteva una visita al suo ritorno da Pinerolo.
   Io attendevo tranquilla. Sapevo che il corso d'istruzione sarebbe durato una ventina di giorni al massimo. Avevo perciò un termine quasi sicuro alla mia attesa. E stavo quieta. Mi stupivo soltanto che papà non mi scrivesse neppure una illustrata da Pinerolo. Mamma scriveva come al solito.
   Passò oltre un mese e non vidi venire nessuno. Né papà, né mamma. Scrissi lamentandomi di esser lasciata tanto tempo senza visite. Mi rispose mamma dandomi dei rimproveri per la mia insistenza. Papà nulla. E nulla sempre, mentre prima aggiungeva qualche parola alle lettere di mamma.
   Cominciai ad essere inquieta e triste. Qualcosa mi avvertiva, nel mio interno, che una sciagura mi era sopra… Piangevo spesso. Non giocavo più. Giocavo sempre poco, in verità. Quelle corse pazze, quei giuochi così frenetici nei quali le mie compagne espandevano la loro esuberante vivacità, non m'erano mai troppo piaciuti. Preferivo mettermi vicino alla Suora assistente e parlare, passeggiando, con lei. Ora poi non riuscivo più a giuocare per nulla.
   Le Suore erano ancor più buone con me e mi dicevano di pregare. Raccomandazione strana perché, come le ho detto, non sforzavano mai le anime.
   Passò tutto maggio e tutto giugno così. Venne il 10 luglio, giorno di uscita per le vacanze estive. All'accademia finale, che allora si teneva in quel giorno — dopo fu spostata in altro periodo — non venne mamma e non venne papà. Vennero mia zia Angela e sua figlia. Ebbi così, finalmente, la triste spiegazione di quel modo di fare che mi aveva tanto crucciata. Papà era stato per due mesi fra morte e vita, e solo un miracolo di Dio aveva impedito la sua morte prematura, perché aveva allora 47 anni7.
   Ora cominciava a migliorare…
   La Superiora mi fece mille raccomandazioni di essere ancor più quieta del solito e buona, buona, buona per aiutare così papà a guarire.
   Seppi poi, molto tempo dopo, che la Superiora aveva chiesto a mamma se riteneva opportuno che una suora mi accompagnasse a casa, nei momenti più tremendi della malattia, quando, a detta dei medici, mio padre era alle soglie dell'eternità. Il male non essendo contagioso — una encefalite data da eccesso di lavoro mentale, dissero i medici, ma in realtà vi erano molti eccessi che lo avevano stroncato, quel troppo buono — io avrei potuto benissimo essere tenuta presso il malato. Mia mamma opinò, sola contro il parere di tutti, che io non tornassi in famiglia… Dio non lo ha permesso, ma mio papà avrebbe potuto morire ed essere sepolto senza che io, sua unica figlia, di ormai tredici anni, fossi presente, peggio: lo sapessi neppure. Mia mamma si caricò di tale responsabilità che non le avrei mai perdonata, senza riflettere che la morte di un padre è sacra ai figli suoi.
   Era destino che non vedessi mio padre nell'ora della morte… Ma è bene che non parli per ora di questo. Sarebbe troppo dolore, e quello di cui già parlo è tanto dolore che mi stringe il cuore in una morsa.
   In treno zia Angela e zia Emilia (era mia cugina, ma dato che era tanto più vecchia di me l'avevo sempre chiamata zia) mi raccontarono che il povero papà mio era stato tanto male e che l'avrei visto molto cambiato.
   Infatti… Avevo lasciato a Pasqua un uomo nel vigore della sua bella virilità, nel fascino della sua bella intelligenza, solo un poco stanco, preoccupato, triste per le pene intime che nella sua bontà non sapeva stroncare… Vidi un povero essere invecchiato, scarno, e soprattutto vidi, lo capii subito, una mente finita. Era un rudere mio papà ormai. Un povero grande bambino…
   Non che fosse ebete. No, questo no. Ma tornato come può essere un ragazzo… Facile ad essere dominato, facile a cedere su tutto, incapace di imporsi anche per quel minimo che anche il più buono usa in famiglia. Un cervello anchilosato, tardo, abulico. Una rovina.
   Ecco cosa fece mia madre col mettermi in Collegio per fare posto al fratello, per non avermi fra i piedi. Mi ha derubata delle ultime carezze intelligenti di mio padre…
   Papà, da allora in poi, mi ha ancora amata, ma ora ero io che dovevo proteggere lui, io che lo dovevo aiutare nelle sue piccole marachelle che gli avrebbero attirato i più acerbi rimproveri di mamma, io che lo dovevo consolare quando piangeva, e piangeva tanto perché diceva: «Sono un uomo finito e mamma me lo fa capire».
  Ah! Padre, Padre! Sa cosa vuol dire questo per una figlia? Sa che calice amaro avere sempre davanti la visione della rovina del genitore amato e doversi dire: «Non hai più nessuno con cui confidarti, a cui chiedere aiuto. Diventi donna, ma papà non ti saprà consigliare nelle trepide ore del primo amore; avrai lotte da superare contro l'egoismo materno, ma papà non ti potrà più difendere»? È stata una amarezza che solo Dio ha conosciuta nel suo pieno valore. Vedere papà osservato dagli estranei per certe lacune intellettive che trasparivano dai suoi atti. Avrei voluto avere la potenza di un dio perché non si vedesse che era menomato.
   Andammo a passare le vacanze nell'alto Biellese, ad Andorno, vicino a Oropa. I posti erano belli; per quanto io preferisca il mare alla montagna, mi piacquero. Ma ormai su tutto era steso per me un velo di pianto e di avvilimento perché il vedere papà così era per me uno strazio senza tregua. Strazio che, naturalmente, mamma ha sempre negato che io abbia provato, ma Dio lo sa. E poi mi accorgevo anche che ormai ero in completa balìa di mia mamma… e perciò…
   Ricordo ancora quel giorno che, scivolando sul primo scalino di una ripida scala di granito, arrivai fino in fondo rimbalzando le vertebre da gradino a gradino. Dopo la caduta fatta in Collegio ero rimasta con le gambe deboli; ero perciò facile a cadere. Forse da allora avrei dovuto essere curata nella colonna vertebrale. Ma chi ci pensò? Dunque ruzzolai tutta una scala e mi contusi profondamente tutte le vertebre seminude sotto il leggero abito estivo. Ma venni picchiata perché avevo rotto un oggetto che tenevo fra le mani quando caddi.
   Non mi sono più liberata dai dolori spinali, e quando mi curvavo per qualche motivo dovevo essere poi aiutata a raddrizzarmi. Ma mia mamma diceva che erano tutte storie e esagerazioni.
   Furono vacanze ben tristi. Tornai in Collegio accasciata. E fu anche l'anno in cui dovetti fare le Tecniche…
  In questo tempo inoltre cominciai a soffrire di quelle premonizioni di cui le ho detto a voce. Nel sonno interi avvenimenti futuri mi si svolgevano davanti alla mente con una acutezza di particolari che era uno spasimo.
   Ricordo un episodio. Era la fine del 1910. Dunque nessuna guerra era nel mondo, neppure la guerra italo-turca, inizio, se si osserva bene, di tutto il rosario di guerre future che da oltre un trentennio insanguinano la terra. Io continuavo a sognare la guerra. Vedevo le battaglie, il fumo degli scoppi, le lotte a corpo a corpo, il cadere degli uomini… Una notte vidi chiaramente una carica di ulani austriaci per le vie di una cittadina che sapevo (nel sogno) essere una città di secondo ordine del Veneto. Vedevo i nemici sciabolare dall'alto dei loro cavalli i nostri soldati che cercavano arginare l'avanzata, e un giovane ufficiale dei nostri abbattersi con la fronte spaccata da una palla… Mi svegliai con un urlo e alle suore accorse dissi: «La guerra, la guerra! Gli austriaci in Italia!».
   Combinazione volle che lo stesso giorno, alla lezione di italiano, proprio io fossi chiamata a leggere un brano di G. C. Abba sulla battaglia di Novara. Quel racconto, identico a quanto avevo visto in sogno, mi scosse al punto che mi strozzò la parola in gola e mi fece prorompere in un grande pianto.
   Io sapevo ormai che la guerra sarebbe venuta e che l'Italia mia avrebbe conosciuto il tallone del nemico nelle sue contrade. E così per molte cose.
   Ho tanto pregato perché il buon Dio mi levasse questo dono che per me è un tormento. Ma non sono mai stata ascoltata e a tutte le mie croci si è unita anche questa. Pazienza!
   Passò così anche l'anno scolastico 1910-1911 terminato con quella solenne bocciatura che le ho già descritta.
   Io soffrivo molto per le reni che dolevano sempre; io credevo fossero le reni, invece era la colonna vertebrale. E poi soffrivo moralmente. Tanto. Ma per il morale non c'era rimedio. Era il mio destino che soffrissi. Per le sofferenze fisiche si sarebbe potuto rimediare. E la mia buona Superiora, vedendomi tanto sciupata al mio ritorno per gli esami di riparazione, suggerì a mia madre di farmi fare una visita medica. Avevamo il medico del Collegio, molto bravo. Ma mamma volle che mi visitasse il cugino della Superiora, quello che aveva decretato che mio zio era tubercoloso (?!). Ma per mia mamma era un'aquila medica perché aveva curato lei durante il suo male di fegato e l'aveva guarita.
   La Superiora si arrese al desiderio di mamma e venne questo medico. Il quale, lo facesse per asineria o lo facesse per partito preso di dare ragione a mia mamma che diceva che io non avevo nulla se no sarei stata più pallida e più magra, dopo avermi visitata e girata in tutti i sensi, disse che ero malata solo di malavoglia e che era una vergogna che io addolorassi con dei mali immaginari mia mamma che, poverina, era già tanto crucciata per causa di papà!
   Benissimo! E così qualche suora credette che io mentissi o esagerassi. Purtroppo si vede ora se mentivo! Il colore è ancora sulle mie guance dopo dieci anni di letto e di continuo acerbo soffrire, senza contare tutti gli anni precedenti in cui mi trascinavo a fatica. Scarna non sono neppure ora, nonostante le febbri continue, il soffrire, il poco cibo, i miei cinque grossi mali e gli altri mali meno grossi. Se Dio mi vuole conservare così, che ci posso fare io? E un medico deve basarsi sull'apparenza, ingannevole sempre, e non sui dati di fatto che risultano da una visita, quando non si è un somarello?
   Ma insomma a me le cose andarono così. Per fortuna la Superiora era non solo intelligente ma anche ben pratica di malati e malattie, perché aveva diretto per molti anni l'Ospedale Ciceri di Milano ed era passata da noi solo quando si era ammalata di cuore nella fatica snervante di dirigere quel nosocomio. Perciò credette più a me che al cugino e mi difese presso mia madre. Non solo, ma fu piena di cure per me.
   Doveva essere quello il mio ultimo anno di Collegio perché facevo ormai il corso perfettivo. Ma le Suore ottennero allora di farmi fare tutto il programma di materie classiche. Avevo tanto pregato, con l'aiuto delle Suore, mamma in tal senso che dovette cedere.
   Come fui felice di vedere prolungato il mio soggiorno di un anno! Lo studio, checché ne dicesse quel medico, era la mia passione. Altro che malanni immaginari per non studiare! Se mai ne avrei inventati per continuare a studiare. Il brutto era che il dolore c'era proprio, e tormentoso. Quando nei lavatoi mi curvavo per lavarmi, dovevo chiedere a una compagna di aiutarmi a rimettermi diritta perché non ci riuscivo dal dolore che avevo a mezza schiena.
   Senza la spina di papà in cuore — tanto più spina perché era scoppiata il 5 ottobre la guerra italo-turca e temevo sempre che papà dovesse partire per l'Africa, cosa pericolosa nel suo stato — e senza quel dolore spinale sarei stata felice, perché le soddisfazioni che lo studio mi procurava erano continue e si sa… un poco di orgoglietto c'è sempre…
   Intanto finì anche l'anno scolastico 1911-1912 e venne avanti quello 1912-1913, che doveva essere e che purtroppo fu il mio ultimo anno di collegiale. Sento il bisogno di dedicare ad esso un capitolo speciale, perché in questo anno un altro anello della catena che mi univa a Gesù fu ribadito dal nostro mutuo amore.
  

 "Ti benedico, o Padre, perché hai nascosto queste cose ai sapienti e le hai rivelate agli umili"
 (Matteo 11, 25; Luca 10, 21)

 

   Lei, Padre, potrebbe essere tentato di credere che il cuore di questa sua figlia spirituale avesse per sempre trovato la sua via nell'amore di Dio, in una forma di amore tutta generosità, è vero, ma anche tutta… come dire? Non è tranquillità che va detto, come non è sicurezza che sarei stata una pura amante alla quale sempre sconosciuti dovevano essere i tentacoli di certi mostri… Non è così.
   Fino al novembre 1912 io pure credevo fermamente che io avrei amato sempre Dio con la stessa candida fiducia della mia amica santa: Suor Teresa del Bambino Gesù. Convinta che il tempo eroico delle catacombe era da secoli terminato e ben lungi dal pensare che dopo venti secoli di cristianesimo questa nostra Europa avrebbe rivisto le grandi persecuzioni che noi in realtà vediamo (Russia, Spagna, ecc. ecc. ) pensavo con santa invidia alle dolci martiri dei primi secoli, ma mi dicevo che, per mio conto, avrei potuto amare Iddio solo attraverso la dottrina della dolce Carmelitana francese. Confidenza, abbandono, generosità nelle piccole cose di ogni ora, intrecciate ad una candidezza angelica: ecco quel che credevo avesse ad essere la mia vita in Cristo.
   Ma vennero, come tutti gli anni ai primi di novembre, i giorni dei santi Esercizi.
   Anche qui le reazioni fra noi educande erano ben diverse. In certune essi suscitavano solo una grande noia, un grande nervosismo. Capirà: dovere tacere, sempre tacere per cinque giorni, e pregare, e ascoltare quattro prediche al dì… Le più svagate e birichine ne avevano nausea per non dire terrore.
   Altre, sentimentali ad oltranza, entravano in questo ritiro con… le stesse disposizioni di un fachiro o di un fanatico. Si mettevano «in trance» — mi perdoni il paragone — e si esaltavano in un misticismo di maniera che le spingeva a penitenze e a fervori degni degli antichi anacoreti o delle prime sepolte vive!…Penitenze e fervori che, ad Esercizi finiti, si sgonfiavano come un palloncino bucato e risbucava fuori la vera natura della pseudo-fervorosa: ossia una natura indifferente a Dio e molto attaccata al mondo.
  Altre ancora vi entravano con semplicità, senza… estasi anticipate e senza nausee anticipate. Vi entravano per dovere e si rimettevano a Dio perché le aiutasse a capirlo… In queste anime semplici ed equilibrate Dio lavorava con piena libertà e la grazia del Signore metteva radici durature nel cuore che si protendeva a riceverla.
   Altre, anime elette per dono gratuito di Dio, veri fiori di mistica aiuola, al primo annuncio degli Esercizi prossimi si illuminavano di vera gioia spirituale e la loro anima si apriva tutta, come candido giglio, per accogliere in sé la parola di Dio ed esserne fecondata. Si distinguevano, queste creature di grazia, dal volto luminoso, bello per interna luce anche se il profilo non era tale da esser preso a modello da un artista, si distinguevano per una gentilezza tutta speciale di sguardi, di parole, di atti, per una pace costante e per una costante ubbidienza. Erano, naturalmente, le eccezioni.
   Io non ero certo fra esse. Come le ho detto, in cinque anni non fui mai punita, perché feci sempre il mio dovere. Ma lo facevo per un fine di bene umano: per amore delle mie Suore, per fare contento papà ed evitare i rabbuffi di mamma. Queste creature eccezionali invece lo facevano unicamente per piacere a Gesù.
   Io a Gesù volevo molto bene e anelavo a volergliene sempre di più. Ma ero ancora molto lontana dall'agire unicamente per fine soprannaturale. Volevo bene a Gesù perché sentivo che Egli me ne voleva del bene. Lo amavo dunque in maniera ancora umana. Non avevo ancora fatto mio il detto del Padre mio serafico S. Francesco d'Assisi: «Veramente beato colui che ama e non desidera essere riamato».
   Quando si giunge ad amare per amare, senza calcolo di sorta, senza pretendere ricambio di gioia sensibile, quando, anzi, tanto più si ama quanto più, in apparenza, siamo trascurati, dimenticati, maltrattati dall'amato, allora si tocca il vertice dell'amore e, toccando il vertice, si raggiunge la beatitudine. Io avevo ancora da camminare tanto per raggiungere questo vertice!…
  Io appartenevo alla penultima categoria. Forse ero sul confine fra l'ultima e la penultima, perché già mi facevo una gioia del pensiero di vivere cinque giorni occupandomi unicamente del­l'anima mia. Ma occuparsi dell'anima propria, unicamente di questa, non è ancora amore perfetto. È egoismo, santo se si vuole, ma sempre egoismo.
   Il nostro Maestro divino ha con la sua parola confermato la Legge e ribadito il concetto e il comando che già da secoli erano i supremi fra i comandi di Dio. «Ama il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, la tua anima e la tua mente, e ama il prossimo tuo come te stesso». Dunque bisogna amare non solo e unicamente noi stessi e la nostra anima, perché amare ciò che è nostro è sempre egoismo anche se è un egoismo buono. Ma occorre amare il prossimo come noi stessi, ossia adoperarci per lui per aiutarlo nel bene, nei bisogni di tutta la sua vita: fisici, morali, spirituali; amarlo nel sacrificio e nella preghiera perché la sua anima cresca in Dio, o lo ritrovi se l'ha perduto, e perché Dio si curvi pietoso sui fratelli nostri che hanno bisogno di tante cose e non sanno forse pregare il Padre in modo da far sì che Egli, ai suoi figli che gli chiedono un dono buono, lo possa rifiutare.
   Questo è il secondo gradino della scala che porta a Dio. Ma il terzo è amare il Signore con tutti noi stessi. Amarlo disinteressatamente per dargli lode e gioia poiché la sua gioia è l'essere amato dai suoi figli.
   Io penso che alle piccole anime, solo grandi nella generosità e nell'amore — ma già l'amore è sempre generoso — le quali amano il loro prossimo perfettamente, ossia come, anzi più ancora di quanto non si amino loro stesse, e che amano Dio di un amore perfetto, per quanto può essere perfetto quanto è umano ancora, di un amore perciò che è libero da ogni calcolo, da ogni retropensiero, da ogni timore (nel senso di timore del castigo che verrebbe se non si amasse), di un amore che tutto accetta e tutto dona senza riserve, che resta amoreanche quando dall'alto dei cieli paiono piovere, come folgori su folgori, le pene più svariate, che anzi, sotto il grandinare delle croci, sempre più si irrobustisce, fiorisce, fiammeggia, io penso che Dio, a queste piccole anime, conceda la indulgenza plenaria dell'amore, la più grande di tutte: quella che è il quarto dei battesimi, l'ultimo dei battesimi, dopo quello di acqua, di sangue, di desiderio; il quarto e perpetuo nei suoi effetti, perché rende la nostra stola nuovamente immacolata per essere stata imbevuta nella dottrina più alta del Maestro e purificata dalle fiamme della carità.
   Forse la mia teoria sarà poco ortodossa, ma io la penso così e per mio conto — dato che non credo di poter avere altra sorgente di purificazione avendo molto peccato dopo il battesimo e non avendo altri mezzi per cancellare dopo la colpa con la confessione8 anche i reliquati della colpa passata — mi tuffo tutta nell'amore. Esso deve sostituire per me il Purgatorio che ho mille volte meritato. E creda pure che, se è dolcezza infinita, l'amore è anche martirio…
   Il Sangue di Cristo e la Carità: ecco le mie due sorgenti in cui lavo, nella prima, e ridò, con la seconda, candore alla povera anima mia. L'amore deve essere la mia ragione di esistere, il motore di ogni mia azione, la mia giustificazione davanti al Padre, la mia gloria per l'eternità.
   Ma dove sono andata a finire? Molto lontano… Dipende che, sotto le strette di molte ritorte, che mi serrano da ogni parte tormentosamente, sono in gioia. Sento l'Amico divino che mi abbraccia e sorregge, e la mia povera persona si posa su di Lui che la conforta a soffrire ancora un poco per godere poi in eterno, nel suo prossimo giorno di liberazione… E questo abbraccio è così inebriante che mi spinge a dar libertà di canto alla mia anima che l'amore gonfia di sé…
   Torniamo però agli Esercizi del 1912.
   Io ero dunque a confine fra la categoria delle anime semplici e quella delle anime elette, e mi piacevano molto quei giorni di Esercizi spirituali nei quali sentivo più vicino Dio, Maestro mio.
   Tutti gli anni erano venuti dei veri maestri di pietà a tenerceli, fra i quali un sacerdote, Don Corradi, morto poi in concetto di santità. Due volte furono tenuti da S. E. Monsignor Cazzani, allora vescovo di Cesena, ora vescovo di Cremona. Pastore dalla religiosità profonda e nello stesso tempo semplice, di una semplicità veramente evangelica, egli sapeva parlare alle nostre anime con parole che restavano incise nel cuore anche per molto tempo dopo essere state udite. Quell'anno, il 1912, gli Esercizi furono tenuti da questo santo Vescovo.
   Io sapevo che sarebbero stati gli ultimi Esercizi, perché mamma era inesorabile circa la mia uscita in febbraio dal Collegio. Papà aveva chiesto improvvisamente di essere posto in pensione perché capiva di non poter resistere più al lavoro mentale dopo quella tremenda malattia. I primi tempi si era illuso, povero papà, di poter essere il Valtorta di prima, ma terminata la lunghissima licenza di convalescenza di quasi un anno si era accorto che era «finito». Aveva tenuto duro qualche mese e poi a settembre si era congedato. Si doveva perciò col marzo andare a Firenze dove mamma, d'accordo coi medici, aveva deciso di stabilirsi. Io sarei rimasta in Collegio fino agli ultimi di febbraio 1913 e poi sarei tornata in famiglia.
  Le Suore, veramente, dato che sapevano che a giugno i miei avrebbero dovuto tornare a Voghera per la liquidazione finale degli interessi di papà, avevano chiesto che io rimanessi fino a giugno… Mi vedevano così triste all'idea di lasciare il Collegio… e lo ero triste. Sentivo che andavo incontro alla lotta, al dolore e… non avrei mai voluto lasciare quel nido di pace; il mio povero cuore, presago del futuro che lo attendeva, così martoriante, tremava di paura e di dolore… Ma mamma aveva deciso e quando ella ha deciso, caschi il mondo in rovina, non si cambia decisione.
   Io dunque sapevo che erano quelli i miei ultimi Esercizi spirituali. Vi entrai con ancora maggior zelo, volendo da essi trarre un frutto duraturo per tutta la mia prossima vita nel mondo e un programma per quella mia prossima vita. Un programma al quale giuravo di esser fedele. Ero sempre quella della parola di onore!… Vi entrai pregando fervorosamente il buon Dio di incidere in me, per sempre, quei giorni di unione con Lui. Ed Egli, il mio caro Gesù, lo fece.
   Scese in me col Padre e collo Spirito portando ognuno i loro doni alla piccola Maria che doveva ormai andare incontro a sempre più grandi prove e a sempre più grandi pene. Il Padre entrò dando all'anima giovinetta la visione della sua Maestà, della sua Potenza; il Figlio portò seco tutti i tesori della sua Misericordia e della sua Sapienza; lo Spirito Santo tutte le sue luci e le sue fiamme di Carità.
   E questo non perché io me lo meritassi. Oh! stia ben tranquillo che non insuperbisco credendomi degna di tanto. So benissimo quel che valgo, e so che è unicamente la immensa bontà di Dio che può produrre certe fusioni dell'anima mia con la Divinità, certe dimore della Divinità in me e mie in Lei. Se Dio misurasse quel che valgo non farebbe tali prodigi. Ma non le ho già detto che io sono convinta che Dio non è un matematico, un calcolatore, ma un idealista e un poeta? Guai a noi se tenesse dei registri di ragioneria… Chissà dove andremmo tutti a finire! Non insuperbisco. Celebro solo le bontà del Signore in me perché questo mi pare sia un dovuto omaggio di riconoscenza.
   Io avevo chiesto a Dio di incidere indelebilmente quei giorni in me perché mi fossero come rotaia per tutta la vita, rotaia sicura per non deragliare o andare fuori via su sentieri che si dipartivano dalla strada regale per perdersi in viottoli molto pericolosi, finenti in un groviglio di liane che avrebbero impedito il mio andare, o peggio in una palude dove sarei affogata. E il Signore, come dice S. Caterina da Siena, siccome è Colui che mette in cuore i santi desideri, così mai non tralascia di secondarli subito. Perciò secondò subito il desiderio che Lui stesso aveva messo in me.
   Sono vissuta in quei giorni veramente nella luce. Una luce che mi illuminò tutto: passato, presente, futuro; una luce che mi spiegò tutto; una luce che mi accese tutta; una luce che mi fece capire, nel senso più profondo della parola, quale doveva essere la mia vita in Dio, in rapporto a Dio, voluta da Dio perché io conquistassi il regno di Dio.
   Il mistico belga9 che io amo tanto, perché lo capisco tanto, dice: «Il Padre nostro che è nei cieli è il Padre delle luci; è Colui che vuole che si veda». Per vedere «occorre un'anima disciplinata e preparata all'esercizio pratico della verità e della giustizia, e questa pratica deve aiutare l'anima e non pesarle sopra. È atto a ciò chi non è schiavo di nulla, neppure delle sue virtù. Occorre aderire inoltre a Dio con l'attività dell'amore: l'ardore che brucia apre lo spirito. Occorre infine perdersi nella tenebra sacra dove il Gaudio libera l'uomo da sé stesso, e non più ritrovarsi al modo degli uomini. Nell'abisso della Tenebra, dove l'amore dà il fuoco mortale, io vedo germogliare la vita eterna e la manifestazione di Dio. Là nasce e brilla una certa luce incomprensibile, che illumina la vita eterna, e noi cominciamo a capire qualche cosa».
   Io possedevo, per dono gratuito di Dio — a Lui sia data tutta la lode — un'anima disciplinata e preparata all'esercizio della verità e della giustizia. Sì, devo riconoscere che ho sempre cercato di vivere nella verità e nella giustizia, di sempre più conoscere la vera essenza della verità e della giustizia e di conformare la mia vita a questo conoscimento.
   Il Maestro, il mio unico Maestro, mi istruiva in ciò perché, ripeto, tutto quanto è fiorito in me è sempre stato unicamente seminato da Lui, e le parole degli uomini di Dio rimanevano in me spente, come lampada senza olio, finché il mio Dottore divino non metteva Sé, olio di nutrimento sublime, ad alimentare la mia lampada. Solo allora io vedevo il senso vero di quelle parole udite e non comprese. Egli mi aveva dunque già istruita sulla necessità di vivere molto nella «cella mentale», come dice la Santa senese, per conoscere ed amare «la ricchezza della luce» e «dissolvere la povertà delle tenebre». Così vivendo in un raccoglimento attento si riesce «a lavorare con la verità che abbiamo dentro di noi».
   Questo conoscimento della verità e della giustizia, che sempre più cresceva in me, non m'era peso sull'anima ma ala per sentire meno la gravezza della carne. Della quale carne, per allora, sentivo ben poco lo stimolo. Sapevo, unicamente per amore di Cristo, dimenticare me stessa, affrancarmi da me stessa, da tutto, anche dalle mie stesse virtù che capivo essere non mie ma di Dio, affrancarmi anche da «quella tenerezza di noi medesimi che», sempre secondo Caterina, «altro non è che amor sensitivo, il quale amor sensitivo ostacola la Verità e le impedisce di riempire il cuore portando in luogo della Verità l'amore disordinato che altro non è che amor proprio».
   Perciò non ero schiava neanche delle mie virtù. Molto più tardi ho, sempre secondo il consiglio della Mistica domenicana, «saputo armarmi della mia sensualità» per farmene uno strumento di vittoria, «poiché chi non ha battaglia non ha vittoria ed è nel tempo della battaglia che l'uomo ha modo di levarsi dal­l'inerzia e anche di conoscere la debolezza e la fragilità della passione sua sensitiva». Utile conoscimento questo per rimanere umili…
   Aderivo a Dio con l'attività dell'amore, oh! questo sì. Egli era il mio amore, il mio Amore anzi, ché nulla era più completo di questo sentimento per Lui nella forma che potevo dargli allora, giovane come ero. Il mio spirito poteva perciò aprirsi a comprendere sempre più la Verità e la Giustizia. E, per quanto lo potessi allora con la mia capacità di giovinetta, sapevo già perdermi in questo amore, abbandonarmici tutta, annullare me per far vivere Lui solo, sentendomi spaesata, straniera nel mondo che non l'ama e non vive di Lui: un controsenso dal punto di vista umano, come sono dei controsensi tutti coloro che fanno Dio unico scopo della loro esistenza.
   Perciò Dio, in questa mia vigilia di entrata nel mondo che mi spauriva tanto, presaga come ero di quanto soffrire avrei trovato in esso, manifestò chiaramente Sé stesso sprigionando la sua Luce, ed io cominciai a capire qualche cosa. Quel tanto che mi bastasse per allora a darmi la prima nota del canto che avrei dovuto cantare sulla mia croce, la prima parola del mio atto di offerta, il primo colpo di pollice nella creta molle della mia anima per foggiarla secondo la forma che Dio aveva scelta per me: una forma di crocifissa ben alta fra terra e cielo ebene inchiodata!
   Dirle ora, dopo oltre trent'anni, tutto quanto Dio mi disse, sarebbe impossibile. Un'ampolla preziosa che ha conservato nel suo interno le essenze più fini di mille fiori, una volta che rimane vuota di esse non può più dire all'olfatto dell'uomo: «Qui era una molecola d'olio di rose e là una di olio di garofano; qua erano condensate le lacrime odorose di mille violette e più giù era l'anima candida di cento mughetti». No. Non si possono più dividere i diversi aromi. Ma l'olfatto nostro sente un'unica tenace soavissima fragranza in cui palpitano le parti spiritali di tutti i fiori dei giardini terrestri.
   Così io, curvandomi sull'anima mia, mistico vasello in cui in quei giorni scesero piogge di fiori celesti, non posso più sceverare i singoli effluvi, ora acuti ed eroici, ora miti e penitenti, ora esilaranti come un vino, ora pacificanti come un balsamo. No: sento solo una fragranza persistente che vento umano, per violento che fosse, non riuscì mai a disperdere e che è la fragranza di Dio, del nostro Dio, del Signore nostro Gesù.
   Però una parola è rimasta nitida in me. Una parola, meglio una frase che compresi subito sarebbe stata quella che avevo chiesta con umiltà e fiducia. La frase-programma, la frase-guida, la frase-monito di tutta la mia vita futura.
   «Anima che mi ami», disse Gesù, «deponi il desiderio di amarmi come Agnese e Cecilia, come Agata e Lucia. Tu non sarai l'a­more innocente. Sarai l'amore penitente. Non le vergini incontaminate, passate nel mondo quasi non per merito dei loro piedi, ma portate dagli angeli in volo, onde il fango della vita neppur sfiorasse la loro stola, saranno le tue guide, ma le creature che conobbero il morso del male, che mordettero la polvere in ora di crollo morale, che spasimarono per la creatura perdendo di vista il Creatore e che poi seppero risorgere e rinascere con un'anima nuova formata di pentimento e di amore, elevandosi tant'alto nella vita dello spirito da riacquistare una fulgidezza non minore a quella dei puri per grazia di Dio e certo più meritoria perché dolorosa, faticosa oltre ogni modo a conquistarsi».
   Sì. Se è bella la palma dei martiri che seppero confessare Cristo davanti ai nemici di Cristo, non meno bella è quella fronda che infiora le braccia di coloro che confessarono Cristo non solo davanti ai nemici — e in un attimo solo di martirio, fra le contingenze che aiutano a questa eroica professione di fede, non dissimili a quelle che fra scoppi di cannoni, squilli di trombe e gridi di vittoria spingono il combattente a portare più oltre la sua bandiera per confessare il suo amore per la Patria — ma davanti a sé stessi, al loro io passionale, bestiale, sempre risorgente ad ogni ora, guatante gli attimi di distrazione, di stanchezza, di debolezza per sopraffare la creatura che ha saputo metterlo sotto i suoi piedi.
   Che lotta segreta, oscura, non confortata da nessun coefficiente è mai questa di creature che avendo conosciuto il senso umano devono ripudiarlo, vogliono ripudiarlo perché ormai assorbite, con la parte migliore — quella dello spirito — in un ideale di redenzione e di amore! Solo gli angeli di Dio la vedono. Solo loro guardano con compassione e con ammirazione la creatura che suda sangue nella sua rude battaglia contro sé stessa. Solo loro noverano i suoi lamenti, le sue lacrime, i suoi singhiozzi; solo loro vedono lo sforzo sovrumano che tende le midolle dei nervi fino a spezzarle, che stritola le fibre, spezza il cuore come può fare un torchio, una macina, una mola di frantoio. Solo loro vedono l'incenerimento, meglio lo scioglimento di tutta una personalità che sotto il fuoco del pentimento e dell'amore si strugge e ribolle come metallo nel forno fusorio, depurandosi di tutte le scorie e tornando alla luce come blocco incorruttibile che nessuna vena scadente contamina e nessuna ruggine può più intaccare.
   Solo gli angeli vedono questo… No. Anche Dio lo vede. Lo vede anzi con una perfezione quale la vista angelica non può ave­re.
   E scende allora Dio; presso questa sua creatura che l'amore ha riplasmata e il pentimento ha spronata ad altezze sublimi di immolazione, Egli prende la sua dimora, anzi fa di Sé dimora dell'anima pentita e amante, raccoglie tutte le lacrime di lei mettendole nel calice del suo stesso Cuore, scrive tutti i suoi olocausti nel gran Libro della vita, infonde continua vitalità per perpetuare quell'esistenza che l'immolazione distruggerebbe in breve ora, e quando tanto di lei si innamora, poiché la sua umiltà dolorosa e la sua generosità riparatrice lo affascinano, da guardarla come la sua perla più cara, allora la issa sulla sua stessa Croce, su quel trono grondante del suo Sangue, e la fa corredentrice seco Lui dell'umanità sprofondata nel senso e nel peccato.
   Di tutte quelle prediche udite in quei giorni e capite, per grazia di Dio, come mai avevo capito fino allora, una fu quella che come a Saulo sulla via di Damasco fu folgorazione dell'anima mia. E fu quella su Maria Maddalena.
   Lei dirà: «Ma che idea quel vescovo! Parlare di quella creatura a delle giovinette!». Lo spirito del Signore soffia dove e come vuole.
   Le Suore, le compagne, io stessa, sul primo, rimanemmo tutte un poco stupite quando Sua Eccellenza, dal piccolo pulpito elevato presso l'altare, pregò le Suore di fare uscire tutte le educande fuor che le grandi, perché voleva parlare solo a loro. E ancora più stupite rimanemmo quando udimmo che egli ci voleva parlare della Maddalena. Non conoscevamo, allora, tutta l'esten­sione della vita di questa donna avanti la sua conversione. Ma quel poco che ne sapevamo era assai per farci sbarrare gli occhi e drizzare gli orecchi per lo stupore e per meglio udire…
   Non so che effetto fece alle altre quella predica, sublime, perché Monsignor Cazzani, che era ed è un grande oratore sacro, toccò quel giorno le vette dell'eloquenza. Per mio conto penso che Dio volle che io udissi quelle parole e che le fece dire perché io le udissi.
   Padre Didon10 dice, parlando di Maria Maddalena: «Niente è più potente su un'anima accasciata dal peso dei suoi falli che lamansuetudine che compatisce e la voce che perdona… Che cosa passò nel cuore della Maddalena? Noi lo ignoriamo. Un giorno i suoi occhi si aprirono ed ella riconobbe in Gesù il Salvatore che perdona. Quel giorno ella non esitò. Simili nature non si arrestano mai a mezza via; la loro grandezza è di andare sempre, nel bene o nel male, all'estremo di loro stesse. Colui che ama non ragiona: egli ubbidisce come schiavo al sentimento che lo soggioga…. Rimettere i peccati non appartiene che a Dio. La fede in Dio solamente salva le anime perdute e non è potere dell'uomo di dare il perdono e la pace. Gesù dice queste cose e le compie. Quelli che le hanno sentite e esperimentate, come la Maddalena, nel segreto della loro coscienza le comprendono… D'ora in poi il peccatore può avere della fiducia; la sua miseria non è più senza speranza. Il male ha trovato un maestro; per vincerlo basta che l'uomo creda e si penta, pianga ed ami. Per in basso che sia caduto gli restano ancora la fede e le lacrime. Che egli imiti la peccatrice e venga a piangere ai piedi di Cristo. Delle legioni d'anime si sono alzate dall'ignominia seguendo la peccatrice di Magdala. Ella apre la via e conduce il corteo dei convertiti e dei riabilitati; ella personifica l'umanità perduta nel vizio che ha trovato ai piedi di Gesù il Dio che essa doveva amare e il cui amore la trasfigura donandogli la misericordia e la pace».
   Io non sono scesa dove è scesa la Maddalena, per grazia di Dio. Ma mi sono smarrita dietro tanta chimera umana. Glielo farò vedere. Il Cristo, al quale avevo giurato amore, era stato trascurato da me e, se non ero giunta a rinnegarlo come Pietro in un'ora di paura, avevo certo fatto come gli invitati al festino di nozze, che non vi andarono, distratti come erano dietro ai loro affari…
   Ho peccato, sì, mio Dio, ho peccato. Se non materialmente, col desiderio e tanto, e Tu, Maestro mio, mi hai detto: «Il male non basta non farlo. Bisogna non desiderare di farlo». Io ho desiderato di fare il male e così ho conficcato altre spine nel tuo capo e spremuto altre lacrime ai tuoi occhi…
   Poi ti ho incontrato di nuovo e Tu mi hai guardata… e non mi hai condannata. Non hai avuto una parola di rimprovero per le mie colpe… Solo mi hai guardata… e più di ogni parola è stato per me richiamo che salva il tuo sguardo.
   Allora sono venuta a Te per sempre, mettendomi sulla scia delle anime pentite che hanno ritrovato nella penitenza e nel­l'amore la veste delle nozze, purificata nel sangue tuo e nel nostro pianto, il cui primo piovere sui tuoi santi piedi è venuto dagli occhi della Maddalena, colei che è la nostra maestra nella via della redenzione, nella scuola dell'amore e del pentimento, colei che è per noi fonte di speranza perché a lei, che molto amò, furono rimessi tutti i peccati, e se noi ameremo molto ci saranno rimessi i nostri peccati.
   Le caste e ardenti lacrime della peccatrice convertita, le sue adorazioni senza parole che le fanno dimenticare il tempo che scorre e le necessità della vita umana — e Tu, Maestro, devi intervenire a difenderla contro il mondo che la guarda scuotendo il capo con commiserazione perché «Maria ha scelto la parte migliore, quella che non le verrà mai tolta», così come la difenderai davanti al Fariseo sprezzante, così come la difenderai quando tutti la rimprovereranno di aver sciupato trecento denari di unguento di nardo schietto, così come la difenderai sempre perché avrai capito la generosità di quest'anima ardente — quelle caste e amorose lacrime mi hanno insegnato l'arte di prenderti, di fare di Te il mio Amatore, lo Sposo, Colui che è ragione di vita, di gioia, di gloria, mi hanno insegnato il metodo per cancellare il male che ha avvilito la mia anima, creata per Te, e sostituirvi il bene, trasformando in tal modo la povera anima mia — che l'amore per la creatura, l'amore disordinato per la creatura aveva avvilita, fino a farne una spelonca abitata dallo spirito della ribellione e della sensualità — in camera nuziale, tutta bella e pura, dove consumare le nozze fra me e Te…
   Ecco che sono da capo andata fuori strada… Torniamo al punto giusto.
   Dio volle che io udissi quelle parole per darmi una guida nel futuro. Esse caddero come pietre nel lago del cuore e vi sprofondarono. L'acqua tranquilla della mia giovinezza pura le ricoprì di un velo equoreo e stettero là, nel fondo, senza più dar segno di loro.
   Ma quando la tempesta della vita scosse, morse, corse sul lago del cuore e lo sconvolse tutto portando in alto fango e avvincenti alghe a intorbidare le acque e a rendere difficile il muoversi in esse, tornarono a galla anche quelle parole e, bagnate come erano delle acque profonde, scintillarono sotto al sole divino e divennero fari di salvezza, di guida per me.
   Però fin da quel giorno in cui le udii ho capito che le avrei ritrovate nell'ora voluta da Dio e che sul loro insegnamento dovevo intanto meditare, con tutte le mie limitate forze, per essere capace poi di comprenderle completamente quando fosse venuta l'ora della lotta e della cognizione.
   Ho capito, questo poi chiaramente, che io ero chiamata da Dio a una vita di dolore, che il pianto sarebbe stato il mio compagno e la croce la mia insegna e che dovevo fin da quel momento, rinunciando ai dolci sogni di martirio quale fu quello dei primi cristiani, prepararmi all'oscuro martirio del cuore, ignorato da tutti fuorché da Dio, continuo, esercitato per tutta la vita e in tutte le contingenze della vita.
   Lo capii così chiaramente, come se l'Angelo del Signore, tenendo aperto davanti ai miei occhi il gran Libro dei destini umani, mi permettesse di leggervi il mio futuro…
   Il giorno dopo vi fu la chiusura dei santi Esercizi. Credo sia stato questo il momento che le Suore penetrarono nel mio segreto. Ero così commossa, per quanto sapessi dominare molto bene, come sempre, le mie emozioni, che esse, le care Suore, ne ebbero sentore. Troppo la voce di Dio aveva risuonato in me, e vi risuonava, perché non trasparissero dal mio volto le impressioni che avevo nel cuore. Troppo mi ero attaccata, nella rivelazione, a Dio per averne conforto e troppo soffrivo nello staccarmene. Una sensazione non solo metaforica ma vera di lacerazione di fibre, perché il dolore di questa lacerazione che si produceva in me, ora che necessariamente dovevo tornare alla vita abituale, uscendo da quel ritiro dove ero stata con Dio, era veramente tormentosa. Le Suore non potevano non avvedersene.
   Mi pareva di non poter vivere… Ho provato poi molte separazioni e molto dolorose e posso dire con esperienza che questa era ancor più mordente di esse. Se le separazioni umane mi hanno serrato il cuore fino ad ammalarmelo, questa mi soffocava come se tutta l'aria mi venisse tolta. Ero desolata come mi fosse stata levata libertà, luce, ricchezza, salute, amicizia, parentela, tutto insieme.
   Ma a che tanto spiegare con povera parola umana quella mia ora di ansia spirituale?
   Quando rileggo il Cantico dei cantici trovo una eco, molto minore, di quell'accorato cercare per valli e monti Colui che è il Bene della creatura amante. Ma le infuocate espressioni del poema di Salomone sono ancora poca cosa rispetto a quello che io provavo. Ho letto di poi le ardenti pagine di S. Giovanni della Croce e di S. Teresa d'Avila e vi ho trovato un'eco più perfetta, ma sempre minore al sentimento mio. Ho capito perciò che la parola umana è incapace di esprimere quel che è sovrumano. Forse solo un Serafino potrebbe scrivere le ansie dell'amore divino… Ma i Serafini adorano e tacciono…
   Le mie Suore con molta delicatezza si affacciarono appena sulla soglia dell'anima mia piena di ansia di cielo, venerarono in essa l'opera di Dio e non penetrarono oltre. Rispettarono… Unica cosa da fare in quei casi, perché qualunque intrusione, anche la più pura nel suo modo di agire, è una profanazione. I divini contatti dell'anima con Dio vanno sempre rispettati come cosa sacra.
   Nel libretto distribuito a tutte per ricordo dei santi Esercizi, sulla pagina, anzi sulle pagine dedicate alle nostre riflessioni e ai nostri propositi e dove le mie compagne scrivevano, scrivevano certi sproloqui pieni di sospirii colombini e di sentimentalismi sterili, io scrissi una frase sola: il mio programma per la vita futura, la mia norma di condotta verso la mia famiglia, verso me stessa, verso il prossimo, verso Dio. Una unica frase ma che è vasta come gli oceani e profonda come essi e che può empire di sé la più lunga vita: «Sacrificio e Dovere in ogni ora, in ogni con­tin­genza».
   Sono stata fedele a questo proposito. E se qualche volta la mia umanità pareva trionfare sul mio spirito, sono però sempre presto tornata a praticare in pieno il sacrificio e il dovere, e posso dire che completamente in disparte non li ho mai posti, anche se le tentazioni furono tali e le mie gioie nel dovere così nulle da suggerire di abbandonare quel proposito e abbandonarmi alla corrente.
   In seguito a quanto era trapelato dal mio viso, chissà che… Non posso saperlo perché specchi non ce n'erano e io avevo ben altro per il capo quella mattina perché mi venisse in mente di guardarmi nello specchietto tascabile che ci concedevano di tenere. Non posso perciò sapere cosa trapelasse dal mio viso né come esso apparisse mutato. Ma insomma in seguito a quanto era trapelato dal mio viso la Superiora incaricò la Suora, che più sapeva parlarmi, di chiedermi se avevo intenzione di farmi suora io pure. La disillusi subito.
   Oh! sarebbe stato dolce prendere quella via, mettersi per sempre all'ombra di Maria, sotto il suo manto e scorrere la vita così… Ma non era la mia via e la vita in cui Dio mi voleva. Questo lo sapevo chiaramente. Il mondo doveva essere la mia arena di combattimento. Non sapevo quale sarebbe stato il combattimento, ma sapevo che doveva avvenire nel mondo e non nel chiostro.
   Povere Suore che avevano già fatto le più rosee ipotesi su di me e mi vedevano già con la cuffietta in capo! Lo sa Iddio se avrei preferito avere quella vocazione!… Ma non l'avevo. Sapevo che andavo incontro al dolore, ma dovevo andare incontro al dolore.
  Con pianto e con strazio vedevo abbreviarsi il tempo che ancora mi separava dal dolore ma non lo potevo impedire. Ero nelle condizioni di un condannato che vede sempre più avvicinarsi il momento della esecuzione della condanna. Più le Suore e le compagne moltiplicavano le loro tenerezze per me, prossima a lasciarle, e per andare così lontano che difficilmente avrei potuto rivederle mai più, e più in me cresceva, in uno con la gratitudine per il loro affetto, il mio affanno.
   Potrebbe parere strano a taluni ma è la verità. Ho sofferto molto più ad uscire dal Collegio di quello che non avevo sofferto ad entrarvi. Forse sarà dipeso dal fatto che in quattro anni ero divenuta più adulta, naturalmente, e perciò sempre più si affinava in me quella sensibilità che è una delle mie qualità principali, forse la principale, mia dote e mio tormento. Perché se è una dote avere l'animo gentile, sensibile a tutte le più piccole sfumature degli avvenimenti, è questo anche un grande tormento, le gioie essendo molto poche nella vita mentre le cose penose sono sempre numerose e sempre presenti.
   Questa sensibilità, che io tenevo per quanto possibile nascosta perché ho sempre odiato sciorinare i miei sentimenti sotto gli occhi di tutti, quasi sempre indifferenti quando non sono addirittura beffardi, cresciuta con gli anni col crescere della mente, mi rendeva sempre più paurosa del futuro. Sentivo, sentivo che per me finiva quel poco bene di cui avevo fino allora goduto e, come una sensitiva11 che sente avvicinarsi la mano, rabbrividivo in tutte le mie fibre e mi serravo su me stessa.
   Oh! fu una ben melanconica creatura quella che, col cuore che si lacerava nello strappo da quella dimora dove avevo conosciuto solo ore serene e sereni affetti, varcava la soglia del Collegio per uscire incontro alla vita! Era il pomeriggio del 23 febbraio 1913.
   Le Suore, che negli ultimi tempi avevano moltiplicato all'infinito tutte le più affettuose premure per me, per farmi sentire quanto mi amavano, per supernutrirmi di amore pensando al prossimo digiuno che mi attendeva e che mi avrebbe sterilito il cuore e saturata di tanta cocente nostalgia, mi avevano raccomandato, con le lacrime agli occhi, di essere buona con la mamma per cercare di renderla buona con me.
   Oh! non a me occorreva raccomandare questo. Io stavo sempre alla porta del suo cuore, eterna mendica, a chiedere il suo obolo di comprensione e d'affetto. Ma quella porta restava serrata, arcigna, irta di lance ferrate contro le quali neppur potevo appoggiarmi…
   So che parlarono in quel senso anche a mamma… Ma le loro parole restarono lettera morta, anzi riuscirono a creare il contrario del prefisso. Mamma cominciò subito a rimproverarmi di averla dipinta presso le Suore come arida e intransigente.
   Ma, mio Dio!, non c'era bisogno che la dipingessi io così. Tutto in lei stessa la mostrava quale era: più matrigna che mamma. I suoi modi, i suoi scritti, le sue indifferenze per la mia salute, la sua grettezza per le mie piccole necessità di collegiale, tante cose insomma, avevano istruito e molto bene le Suore, rese esperte dai continui contatti con centinaia di mamme e di papà, su quel che era mia mamma verso di me. Non c'era bisogno che io parlassi, cosa che non feci mai perché di certe miserie ci si vergogna come di un'onta o di una malattia vergognosa. Se qualche volta durante gli anni che vennero poi parlai in proposito, fu sempre perché altri si erano già accorti del vero circa i rapporti fra mia madre e me e, poco delicati, mi avevano fatto domande, a me penose come un acido su una ferita. Pensi che diverse persone mi hanno chiesto se «era proprio la mia mamma vera o se era una seconda madre»… Questo le dica tutto, Padre.
   Spontaneamente io ho parlato difficilissimamente e solo con persone che hanno attirato tutta la mia confidenza, che concedo così raramente, e in più queste persone devono essere tali, per l'abito che portano e il buon senso di cui sono pieni, tali da darmi affidamento che il mio penoso segreto sia confidato a chi non ne fa oggetto di scherno e pettegolezzo.
   Uno dei pochissimi ai quali ho spontaneamente detto le cose come stanno è Lei, Padre, e per i motivi sopra accennati e perché, dovendo Lei dirigere l'anima mia, in questa ora estrema del mio vivere, è doveroso che sappia il vero su cose che tanta sofferenza e turbamento portano all'animo mio.
 


   Beata Capitanio è Bartolomea Capitanio (1807-1833), proclamata santa dal papa Pio XII nel 1950 insieme con Vincenza Gerosa (1784-1847), con la quale fondò nel 1832 la Congregazione di Maria Bambina per l'educazione della gioventù femminile e per l'assistenza materiale e spirituale ai bisognosi. L'istituzione è diffusa nel mondo con centinaia di case e migliaia di religiose. Il Collegio Bianconi di Monza, delle Suore di Maria Bambina, fu inaugurato il 10 settembre 1867.

   2 la pineta è quella di Viareggio, prospiciente la via Antonio Fratti (sulla quale è anche la casa di Maria Valtorta) e prolungantesi fin oltre la zona detta Marco Polo da una via omonima.

   3 Non mi toccare, come in: Giovanni 20, 17. Altri riferimenti sono a Luca 10, 42 (scegliere il migliore) e a Luca 1, 38 (Fiat e Ecce ancilla).

   4 Teresa del Bambino Gesù è Teresa Martin (1873-1897), carmelitana nel Carmelo di Lisieux (Francia), dove entrò quindicenne e dove morì a soli 24 anni. Canonizzata dal papa Pio XI nel 1925, è tra le sante più amate e venerate. La sua spiritualità è conosciuta attraverso gli scritti autobiografici raccolti nella "Histoire d'une âme", cui soprattutto attinge Maria Valtorta nelle ricorrenti citazioni riferite a lei.

   5  i centoquarantaquattromila di: Apocalisse 14, 1-5.

   6 un suo Servo, poiché Padre Migliorini (nota 1) apparteneva all'Ordine dei Servi di Maria, fondato nel 1233, che annovera tra i suoi scopi la propagazione della devozione alla Vergine Addolorata. Per l'altare a Lei dedicato, nella chiesa di S. Andrea a Viareggio, Maria Valtorta eseguì il merletto da applicare ad una tovaglia.

   7 aveva allora 47 anni. Giuseppe Valtorta, padre di Maria, era nato a Mantova il 21 agosto 1862 da Carlo Valtorta e da Maria Citella.

   8 dopo la colpa con la confessione è un'aggiunta posteriore di Maria Valtorta, che ha voluto completare il concetto rendendolo, però, meno chiaro. Secondo la dottrina cattolica, l'assoluzione sacramentale, che conclude la confessione, toglie il peccato ma non le sue conseguenze: per recuperare la salute spirituale occorre un'adeguata espiazione come penitenza. Secondo Maria Valtorta (e la sua "teoria" sembra pienamente ortodossa) il recupero è la purificazione per mezzo dell'amore, il quale "è anche martirio", perciò penitenza.

  9 Il mistico belga è Ruysbroeck (nota 9).

  10 Padre Didon è Henri Didon (1840-1900), domenicano francese, oratore e scrittore, autore di una "Vie de Jésus-Christ".

  11 sensitiva è chiamata quella pianta delle mimosacee, le cui foglie si ripiegano appena vengono toccate.

MV a 11 anni

 

Collegio veduta esterna

MV e compagne collegio