MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MINORE

A A A

AUTOBIOGRAFIA CAPITOLO 14


In Calabria.

   Giungemmo a Reggio Calabria il 10 ottobre 1920. Ci eravamo fermati a Roma, a Napoli, a Caserta per qualche giorno.
   A Reggio, nei vasti alberghi dei miei cugini, trovai tante cose atte a distrarmi dal dolore cocente che avevo in cuore. Abitavamo all'albergo-villa. Un vastissimo baraccamento (la città cominciava appena a risorgere dal terremoto del 1908) sparso in una tenuta vastissima. Vi era agrumeto, mandorleto, frutteto, campi di fave, carciofi, finocchi, piselli, ecc. ecc., e giardini, giardini, giardini. Poi, più bella di tutti, una passeggiata che lungo l'aranceto conduceva ad un chiosco, messo sullo sperone di una collina che scoscendeva a valle, fra un accavallarsi di fichi d'India. Era un posto stupendo. Si dominava tutto lo Stretto e i monti di Calabria. La città si stendeva ai nostri piedi.
   Era il mio posto prediletto. Andavo là col mio cane e un libro, fingendo di leggere. Ma non facevo che guardare il mare, sul quale passavano sovente navi da guerra, oltre ai piroscafi mercantili, e pensavo a Mario. Forse era su quelle navi e non sapeva che da quell'altura la sua amata lo invocava con tutto il suo cuore.
   Quando mi era stato strappato, cosa aveva fatto? Cosa aveva pensato? Si era immaginato che era tutta una macchinazione di mamma e che io ero stata messa nell'impossibilità di parlare, di agire come fossi imbavagliata e legata da dei malandrini, oppure mi giudicava una pazza, una malvagia, una senza parola? Questi «perché» mi trivellavano cuore e mente, giorno e notte, come tanti tarli trivellano un legno fino a farlo cadere in briciole.
   Lei forse si chiederà: «Ma costei non poteva neppure ora scrivere? In un albergo si possono fare tante cose con maggior libertà che in una casa».
   Sì, avrei potuto scrivere. Tante cose avrei potuto fare! Anche ribellarmi dicendo: «Sono maggiorenne e faccio quel che mi pare e che è lecito fare perché è cosa onesta». Ma — e da questo consideri se sono stata figlia ubbidiente e rispettosa o se non lo sono stata — ma non ho avuto la capacità di disubbidire e offendere mia madre. Ho fatto il mio dovere anche allora. Ho compiuto il mio sacrificio anche allora. Ero così spezzata, fra l'altro, che vegetavo senza nessuna energia. Vivevo solo, intensamente, la vita intima.
   Nell'interno c'era tutto un lavorìo di ricordi, di pensieri, di rimpianti. Molto diversi però da quelli che erano scoppiati dopo il nefasto 5 gennaio 1914, origine di tutte le spine venute dopo. Perché, se mia mamma non avesse conculcato allora il nostro legittimo desiderio, io sarei stata da tempo sposata; Roberto, che non era tenuto al servizio militare (figlio unico di madre vedova) non sarebbe andato volontario, non sarebbe morto; io sarei stata a Bari con lui; Mario non si sarebbe innamorato di me; io non avrei avuto tutti quei dolori morali, non il male di cuore, non la lesione spinale… Ora soffrivo molto, ma era un dolore puro da ogni febbre di senso, un dolore santo, privo di ogni impeto di ribellione.
   Il primo dolore mi aveva staccata da Dio e dalla Legge di Dio gettandomi nella polvere. Il secondo grande, ancor più grande dolore che riapriva tutte le ferite che il tempo aveva rimarginate — e le riapriva per opera della stessa mano materna che, sempre uguale a distanza di anni, mi distruggeva la gioia per la sua comodità — mi riportava completamente a Dio e mi univa a Lui.
   Nessun altro affetto mi restava nel mondo, capace di saziare l'ani­ma mia. Papà… era sempre più un bimbo dominato da mamma. Mamma mi era una nemica. Mario non l'avevo più. Le Suore mi avevano respinta. Altri buoni amici erano stati cacciati di casa. Più nulla, più nessuno.
   Solo Dio mi restava per farmi da padre, da madre, da sposo, da amico, da maestro. Piangevo ai suoi piedi, parlavo con Lui, mi facevo consolare da Lui, gli chiedevo umilmente di prendermi per mano e condurmi sulla via che più gli piaceva, perché ero smarrita e capivo che da me sola non sapevo mai trovare la via destinata a me dalla sua Volontà.
   In poco tempo mia mamma, con la sua maniera autoritaria, si era attirate le antipatie di tutti: personale di servizio, clienti, e parenti stessi. I suoi cugini — perché sono cugini di primo grado con mia mamma — più volte le avevano cantato, a chiare note, che quelli non erano modi di fare né col marito, né colla figlia, né coi dipendenti. Figurarsi! Mia mamma non ha mai voluto osservazioni da nessuno. Chi gliele fa diviene per lei un nemico acerrimo. Perciò vi erano già state delle baruffe e non erano neppure due mesi che eravamo là…
   Alla fine di novembre ce ne fu una più… pepata del solito, e in seguito a questa l'altro cugino mio mi volle con sé all'altro albergo.
   Bisogna sapere che molte delle dispute erano originate dal fatto che i miei cugini: Giuseppe, Amelide, Emma, Normanna, non condividevano il modo di pensare e di agire di mamma a mio riguardo. Allora gli altri cugini: Battista e Clotilde, mi avevano voluta con loro. Meno ore ero con mamma e meno occasioni questa aveva di esercitare la sua sovranità assoluta. Perciò vi era speranza che vi fossero meno dispute in merito.
   Io perciò scendevo alla mattina verso le 8 all'altro albergo verso il mare, e risalivo all'albergo-villa alla sera alle 20 e oltre. Così, fuorché nelle ore notturne, stavo lontana.
   Mi spiaceva per mio papà. Ma lui aveva trovato molti svaghi a Reggio ed era lui pure più contento. Mi spiaceva anche non avere più modo di passeggiare per la tenuta e andare al mio caro chiosco, da cui vedevo tanto cielo e tanto mare e mi trovavo isolata fra piante in fiore e canti di uccelli. Mi spiaceva infine perché non avevo più intorno gli irrequieti e cari cuginetti dai sei ai tre anni, tre frugoli che mi si erano molto affezionati. Ma tutto insieme non si può avere.
   Con Clotilde, quella che m'aveva accompagnata a Monza, io mi ci trovavo benissimo. Veramente io mi ci trovavo con tutti, perché so molto adattarmi alle altrui idee. Abituata a vivere con mamma, trovavo facile il convivere in ogni altro luogo. Furono venti mesi di serenità.
   Mi occupavo di Memmo — un caro ragazzo decenne, unico figlio rimasto — lo aiutavo a studiare… Mi pareva d'essere tornata al 1913 quando mi occupavo degli studi di Mario. Uscivo con Memmo per belle passeggiate in carrozza o a piedi. Facevo compagnia a Clotilde, lavoravo con lei che era bravissima nei ricami e merletti, leggevo. Clotilde aveva una bellissima raccolta di libri. È una donna molto colta e sa scegliere perciò anche nei libri i migliori per stile e per trama.
   Le ho detto che il buon Dio si è servito con me di tutti i mezzi per istruirmi nella sua legge e nel portarmi a Lui. Come per un dono speciale mi ha da bimba preservata da certe curiosità che i discorsi dei grandi potevano acuire in me — gliel'ho detto a suo tempo — ; come più tardi, nell'Ospedale, mi aveva dato un equilibrio così perfetto per cui nei miei feriti io non ho mai visto l'uomo ma sempre dei poveri bimbi malati; come per mezzo di creature e di avvenimenti mi aveva riportata alla bella fede della mia prima giovinezza, dopo la fiera tempesta passata dai 16 ai 20 anni; così ora, servendosi di libri e specie di un libro, finiva di attirarmi a Sé.
   Le ho detto che, purtroppo, non avevo mai potuto trovare un sacerdote che io giudicassi un direttore d'anima. Confessori sì, ma direttori no. Perciò, uscita di collegio, ero rimasta sola a guidarmi. Non più esercizi spirituali, non più prediche, più nulla. Ma Gesù, anche se pareva assente, era presente e mi presentava le occasioni per migliorare il mio animo.
   In quell'ora di tristezza di quell'inverno 1920-21, mentre, sentendo spezzati tutti i legami più cari, mi accostavo sempre più al mio Dio, ancora un po' timidamente perché non sapevo fino a che punto si può osare nella via dell'amore e della confidenza, il mio Maestro mi dette una spinta potente con un libro. Non si scandalizzi, Padre. Era un libro all'Indice1: «Il Santo» di Fogazzaro.
   Mia cugina aveva il permesso arcivescovile di leggere di tutto.
   Io allora non lo avevo. Ora, da anni, ce l'ho. Ma ne uso ben poco. Allora non l'avevo e non avrei dovuto leggere perciò quel libro che sapevo all'Indice. Ma nella mia ancor debole religiosità non ebbi tanti scrupoli e lo lessi insieme a tutti gli altri della collana.
   Gli altri mi piacquero più o meno. Ma mi piacquero come romanzi veri e propri, ossia belle fole che si leggono per passare il tempo e che, una volta letti, lasciano il tempo che trovano. «Il Santo», invece, incise un segno indelebile nel mio cuore. E un segno buono.
   Non entro in merito sul perché della sua condanna all'Indice. Sono cose che non mi riguardano. Le supreme autorità che lo hanno condannato avranno avuto il loro giusto perché. Io, anche ora, mi chiedo quale sia questo perché e l'ho chiesto anche a molti sacerdoti, rimanendo però senza una spiegazione che mi accontentasse.
   Ma per mio conto, e ho sentito dire la stessa cosa da altre persone, questo libro mi fece un gran bene. Mi gettò a piene vele sul grande fiume, sull'oceano, anzi, della misericordia divina, e mi confortò a sperare nei valori soprannaturali dell'espiazione del pentimento che, come novello battesimo, ci rende nuovamente candidi e accetti a Dio. Il vedere il progresso, le vittorie spirituali, l'elevazione di Franco2 nel regno dello spirito, mi dette ala e lena per divenire audace nell'amore.
   Fino allora, al ricordo delle mie cadute, ero stata sempre un poco paralizzata. Come una bimba che sa di averla fatta grossa e, pur sapendosi perdonata, è ancora intimidita al ricordo della sua marachella. Da oltre un anno speravo fortemente nel Signore e nella sua misericordia. Ma ancora non osavo dirgli: «Io ti amo. Io mi consacro a Te. Io mi metto tutta al tuo servizio». Lo avevo così addolorato il mio Dio!… Fogazzaro mi convinse che nessuna colpa è tanto grande da non essere passibile di redenzione, che nessun ricordo di passata colpa deve esserci ostacolo nell'avanzare nel Bene e che non bisogna fare al buon Dio l'offesa di crederlo così poco Padre da esser più Giudice che Salvatore.
   Di poi ho trovato questa santa dottrina negli scritti del Beato Claudio de la Colombière3 e soprattutto in quelli di Suor Benigna Consolata Ferrero, che altro non sono che dettati di Gesù. Ma per oltre due anni, chi mi lanciò nel gran mare della Misericordia divina fu il Fogazzaro col suo «Santo». Penso talora che per il bene che quel libro ha fatto alla mia e ad altre anime ferite come la mia, timorose come la mia, Iddio avrà dato a quello scrittore la sua pace.
   In aprile del 1921 mamma dovette pensare a tornare a Firenze. Era stata emanata una legge che proibiva di tenere appartamenti senza abitarli. Perciò o tornare a Firenze o trasportare mobili e domicilio a Reggio.
   Io non avevo nulla in contrario a stabilirmi in Calabria. Anzi avrei voluto farlo. Capivo che con Mario era proprio finita e solo l'idea di tornare a Firenze, dove tutto mi ricordava e Roberto e Mario e tutti i miei dolori passati, mi faceva terrore. A Reggio mi era più facile cercare di superare la rete dei ricordi. Così triste è quella rete che si vorrebbe rimbecillire per non ricordare più. E poi a Reggio ero amata dai parenti e difesa. A Firenze sarei ricaduta nella mia solitudine e nella mia miseria di affetti.
   Mamma, a sua volta, avrebbe voluto rimanere a Reggio essa pure. Unica volta nella vita che io e mamma desiderammo la stessa cosa, per quanto per motivi diversi. Per mamma tornare a Firenze voleva dire risicare incontri col colonnello e con suo figlio. Incontri deprecabili se li facevo io: non si sa mai! Avrei potuto mettermi d'accordo coi due e allora… E in casa prigioniera non poteva certo tenermi di continuo. Incontri odiosi se avvenivano fra lei e gli altri, perché non c'è come l'avere agito male, con una certa persona, per farci cercare di evitare di incontrarci con lei, tanto il vederla, anche il solo vederla, ci desta la voce della coscienza che rimprovera.
   Ma mio papà, che aveva a Firenze tanti amici, militari come lui, non volle assolutamente cedere. Anche qui, per la prima volta, si verificò il fatto strabiliante di papà che comandava il suo volere. Con un capriccio di vero bimbo cocciuto disse che se noi non andavamo partiva da solo, ma lui a Reggio non ci stava per sempre. Perché? Mah! A Reggio stava benone, si divertiva, non spendeva nulla e avrebbe continuato a non spendere, perché negli alberghi le persone non bastano mai per sorvegliare le cameriere e i camerieri, cuochi, ecc. ecc., e i nostri cugini ci pregavano di rimanere per aiutarli nella sorveglianza. Dunque ne aveva anche un utile finanziario. Ma non cedette.
   Supplicai papà che per amor mio non tornasse a Firenze: io non ci potevo tornare, avrei sofferto troppo. Terzo fatto unico e inusitato: papà, che mi accontentava sempre, che mi voleva sempre con lui, mi rispose: «Tu resta pure. Io e mamma si va via». Nulla gli fece cambiare idea.
   Mamma era sulle spine… Poi si decise. Posto che Clotilde le diceva che mi avrebbe tenuta con sé tanto volentieri, io sarei rimasta laggiù e loro due sarebbero andati a Firenze. Pur di evitare che io potessi incontrare Mario, si decise a tenermi lontana… A tanto può spingere un'idea fissa.
   Dopo avermi sepolta sotto una valanga di «guai»: guai se tu scrivi al colonnello, guai se tu scrivi alla nonna di Mario, tre volte guai se scrivi a lui, guai se ti metti in relazione con chicchessia fra i clienti dell'albergo, guai, guai, guai… partì.
   Non sarebbe certo partita se avesse saputo che io il 14 marzo avevo ricevuto una illustrata di Mario, indirizzata a Firenze e respinta a me dal padrone di casa, dove Mario aveva scritto queste sole parole: «Finché io viva ed oltre…». Era stato il più bel regalo per il mio 24° compleanno. Mi aveva fatto piangere tutto il giorno, ma di commozione, perché capivo che Mario mi amava ancora. Clotilde mi aveva detto: «Ma rispondigli, sciocca. Fatti la tua vita». Ma io non avevo più coraggio di tentare per la terza volta, con la convinzione di fare un terzo disastro.
   Insomma il 21 maggio papà e mamma partirono. Io rimasi con Battista, Clotilde e Memmo.
   La mia salute, nonostante le delicate cure che i cugini avevano per me da ormai otto mesi, non migliorava punto. Il dispiacere mi distruggeva piano piano come lo può fare un tumore maligno. Deperivo, impallidivo e mi sentivo sempre più indebolire. Col venire del caldo intenso, in giugno, declinai del tutto. Non vivevo più che di tazze di caffè freddo e frutta. Non potevo mangiare altro.
   Dormire mi era impossibile. Alla mattina ero un povero straccetto dagli occhi arrossati dall'insonnia, con un grande bisogno di sonno che mi pesava sul cuore, ma che non diveniva mai sonno per davvero. Mi alzavo prestissimo e andavo in giardino a respirare l'aria fresca e profumata dell'alba estiva. Poi in carrozza si andava, io e Memmino, al mare.
   I miei cugini avevano una vasta cabina, quasi uno chalet, molto comoda e bene arredata. Una bella veranda la ornava, e questa era già sopra le onde di zaffiro del bel mare di Calabria, di quell'azzurro intenso, quasi irreale, che è proprio dei mari del meridione. Mentre Memmino faceva i suoi bagni coi cuginetti e altri amici della sua età, io stavo sulla veranda, semisdraiata su una poltrona. Non leggevo, non lavoravo; stavo là ad occhi quasi sempre chiusi perché mi pesava fino a guardarmi intorno, staccata da tutti e da tutto, unita solo a Mario lontano. Delle volte ero così sfinita che pregavo Memmo di buttare a terra, sulla stuoia che copriva la cabina, accappatoi e cuscini, e mi buttavo là, nell'ombra, come un povero cane ammalato, ritmando i miei tristi pensieri sullo sciabordio dell'onde contro la riva e contro i pali che sorreggevano la cabina.
   La febbre, che del tutto non era mai scomparsa, ma che si era ridotta nei mesi invernali a poche linee, ora tornava più forte: 37,8 - 38. Si era riacutizzato il dolore spinale e nel lato destro dell'addome, il cuore faceva il matto più che mai e mi era venuto anche un mal di gola inguaribile e tosse.
   Clotilde era impressionata. Mi chiese se avevo avvertito i miei. No. Non avevo scritto nulla. A che pro? Mi chiese se doveva avvertirli lei. Le risposi di no. Se morivo tanto meglio. Le chiedevo scusa di darle quella noia, ma per l'amore che mi voleva, un vero amore di mamma, mi lasciasse morire in pace, vicino a lei che mi voleva bene. Clotilde mi accontentò.
   Nel mio decadimento fisico, però, si faceva più intensa, viva, vivida la vita psichica. Più tutto quanto era materia si sfasciava in una rovina sempre più intensa, e tanto più una sensibilità, una lucidezza delle forze psichiche si accentuava.
   Le ho narrato a suo tempo che fin dal 1910 io ero soggetta a strane premonizioni che erano per me un vero tormento. Nel sonno, brani di futuro o avvisi e consigli per le contingenze della vita venivano a me dai regni del mistero. Anche quel sogno del 1916 faceva parte di queste manifestazioni. Ma era sempre nel sonno. Ero un temperamento molto sensibile, vibratile, direi, ai più lievi tocchi di correnti provenienti da altre, dirò così, stazioni trasmittenti. Per cui avvertivo con esattezza se un dato essere era o non era «buono». Le mie cosiddette «antipatie o simpatie» erano e sono sempre convalidate dai fatti che vengono poi. È ultra difficile che io sbagli. La prima impressione che ricevo è di solito esatta. Solo un due volte nella vita sono caduta in errore. Dicono i competenti che questo dipende da un complesso di cose che ci rendono come antenne riceventi. Sarà benissimo. Non ci discuto e passo oltre, solo aggiungendo che di essere così perspicace e sensibile, così antenna ricevente, ne avrei fatto volentieri a meno!…
   Ora, in quell'inizio d'estate 1921, non occorreva che io dormissi per avvertire fatti strani. Avevo la sensazione che dalle mie dita partissero come lunghi, lunghissimi fili lanciati nello spazio, e che questi fili si fossero agganciati ad altri consimili, partenti da Mario mio. Non solo, ma oltre a sentire che i nostri spiriti si erano fusi in una comunione che nessun ostacolo o malvagità umana poteva impedire, io sentivo che la distanza si raccorciava sempre più e che, come se io avessi alato un cavo a bordo di una nave, i fili si raccoglievano in me dopo esserne partiti alla ricerca di lui, trascinandosi dietro il mio Mario.
  Ho portato dei paragoni umani per spiegare una sensazione dello spirito. Ma avevo proprio quell'impressione di fili partenti da me e tornanti a me, dopo averlo trovato, portandomi lui. Erano forse le potenze dell'anima che si sprigionavano in raggi, per l'etere, a cercare l'anima di lui, a dirgli che morivo desiderandolo? Mah! Chissà! Sono misteri che finché viviamo non conosceremo mai esattamente.
   Noti che io non avevo risposto alla illustrata di Mario.
   Verso la fine di luglio — potrei dirle la data ma mi pesa aprire quel cofano dove sono tutte le lettere di Mario, dei parenti suoi e di mia mamma in riferimento a Mario stesso, lettere che ho sempre conservate e che sono la prova irrefutabile che le cose sono andate come le descrivo io — ricevetti una lettera della zia di Mario che stava per entrare in un convento di clausura. Questa zia scriveva salutandomi e dicendomi tante cose affettuose e gentili anche a nome di sua mamma, la vecchia nonna che mi aveva già considerata come una nipote. Mi diceva anche: «Prega e vedrai che Gesù ti farà contenta e conoscerai la gioia». La buona Gabriella alludeva a una cosa, ma io, che non sapevo il resto che si preparava, credetti che ella parlasse di un'altra, tutta spirituale.
   Lei mi chiederà: «Come faceva questa zia a sapere dove era lei?». Semplicissimo. A Pasqua Mario era stato a Firenze in licenza e aveva… grattato la pancina al padrone di casa il quale, come una cicala solleticata nell'addome, aveva cantato, dicendo dove eravamo, non solo, ma dicendo che presto mamma e papà sarebbero tornati a Firenze ed io sarei rimasta là. Tutto quello che mamma temeva fosse detto e si era raccomandata di non dire, il proprietario lo disse. Se lo fece per imprudenza, per smemorataggine data dall'età, o volutamente, giudicando non essere giusto l'operato di mamma, non lo so. Non ho mai chiesto nulla in merito. Il certo è che Mario fu reso edotto di dove ero e che sarei presto rimasta là sola.
   Risposi alla zia Gabriella ringraziandola del suo buon ricordo e pregandola di salutare la nonna e pregare, dal suo convento, per me. E basta. E credevo fosse tutto finito.
   Il cinque agosto, mentre si era a tavola per il pranzo — erano le due pomeridiane perché negli alberghi i proprietari usano mangiare o prima o poi dei clienti e i miei cugini pranzavano sempre dopo gli altri — il cinque agosto venne il cameriere ad avvertire mio cugino che un ufficiale di marina desiderava parlargli.
   Nulla di strano, vero?, che in città di mare prossima a basi navali potessero arrivare degli ufficiali di marina. Ne arrivavano sempre all'albergo! Pure io sentii che era lui. Balzai in piedi, lasciando in asso il caffè che aveva costituito il mio cibo, e scappai. Sì, Padre: scappai.Glielo scrivo ben chiaramente perché legga bene. Corsi a rifugiarmi in camera mia, mi chiusi dentro a chiave. Perché? Perché la gioia mi soffocava, perché avevo paura di non sapermi contenere al cospetto degli altri, perché nella gioia e nel dolore ho sempre avuto un grande pudore e non ho mai voluto sciorinare i miei più intimi sentimenti sotto occhi di altri. Piangevo e ridevo insieme, pregavo, benedicevo Iddio, mi sentivo morire e rinascere ad ogni palpito del mio cuore che balzava come uno spiritato nel mio petto. Ero certa, certa, certa che Mario era venuto, che quell'ufficiale non poteva essere che lui; ero felice, felice, felice perché era venuto, perché mi aveva amata al punto di non credere alle bugiarde parole che gli erano state dette.
   Oh! perché non si può fermare la vita e certe ore? Non avrei neppure voluto passare ad un'ora ancor più piena di gioia. No, avrei voluto fermarmi a questa, a questa sola…
   Salì mio cugino a dirmi, attraverso la porta chiusa, che era proprio Mario e che scendessi. Col fiato mozzo risposi che lo avrei fatto non appena avessi capito di reggere a quella gioia. Il dolore è una mazzata che ci spezza quando si abbatte improvviso su noi; ma anche la gioia non lo è di meno. Capisco benissimo che si possa morire in un'ora di gioia, fulminati da essa.
   Scesi finalmente con le gambe tremanti. Egli era in un salottino ai piedi della scala… Non so ancora se gridai, se tacqui, se corsi verso lui o lui verso me. Non so nulla. Quando cominciai a capire mi trovai fra le sue braccia. Più tardi, giorni dopo, Memmo mi disse: «Abbiamo creduto che tu morissi!».
   Mario era venuto per chiarire le cose. Si era presentato lealmente ai cugini, aveva chiesto loro se a loro risultava che io avessi ancora dell'affetto per lui. Se questo affetto esisteva egli si sarebbe fatto annunciare a me. Se invece, come mamma mia aveva detto, io non pensavo a lui e non volevo saperne di lui, egli sarebbe ripartito senza neppure tentare di salutarmi. Disse che non poteva capacitarsi che io avessi agito di mia iniziativa come mamma aveva detto e che voleva, da persone rette e coscienti e che mi volevano realmente bene, sapere la vera verità. Saputala, aveva detto di chiamarmi.
  Rimase poche ore… Ore di sogno la cui luce solare è rimasta chiusa in me, la cui dolcezza non è superata altro che dalla dolcezza delle gioie soprannaturali.
  Mi consegnò la lettera che aveva scritto il 14 marzo e che poi non aveva spedita per tema cadesse nelle mani materne. Ce l'ho ancora quella lettera. Le ho tutte. Mi assicurò del suo costante affetto, dell'affetto di tutti i suoi per me. Mi disse che ora egli partiva per Costantinopoli come addetto alla Squadra Internazionale che presidiava allora gli Stretti turchi. Ma che partiva felice.
   Io intanto scrivessi a mamma. Con 990 chilometri fra di noi mamma non poteva sbranarmi. I cugini fra l'altro mi avrebbero aiutata. Avremmo vinto noi. A Natale, a Capodanno al massimo egli sarebbe venuto per il fidanzamento ufficiale e in capo a un anno — doveva stare un anno a Istambul — ci saremmo sposati. Se mamma voleva, bene; se no, non occorreva. Ormai avevo 25 anni ed egli era già in carriera e col non indifferente capitale di 300.000 lire, più una villa a Roma e una a Moncalvo Monferrato. Perciò non c'era da preoccuparsi di nulla. Se mamma pensava lei al corredo, bene; se no ci pensava sua nonna, la quale era più che contenta di aprirmi il cuore, le braccia, la borsa.
   Restammo insieme sempre durante quelle ore. Parte del tempo, e finché folgorava il sole, in albergo; dopo in carrozza sotto la… protezione del fido cocchiere dei cugini; poi da capo in albergo fino alle 24, ora in cui andammo io, Clotilde e Memmo ad accompagnarlo alla Stazione…
   …A me rimase l'incarico di scrivere a mamma. E lì ho sbagliato.
  Clotilde mi disse: «Scrivi, a bruciapelo, che ti sei fidanzata e che entro un anno ti sposi. E basta. Tua madre è un tipo irragionevole, perciò inutile tentare di persuaderla con le buone. Occorre metterla davanti al fatto compiuto. Io poi, e Battista con me, scriveremo dicendo il resto». Dovevo darle retta. Ma ero una figlia troppo rispettosa. All'alterigia, unica arma da usarsi coi prepotenti per metterli a terra, preferii usare la buona grazia. Risultato? Anatemi, scomuniche, maledizioni, geremiadi a non finire. Quelle lettere le ho tutte e se vuole gliele faccio leggere.
   Poi, non bastando questo, senza sentire il mio grido di supplica perché comprendesse che avevo diritto all'amore come lo aveva avuto lei, si recò dal colonnello, trascinandosi dietro quel povero uomo di mio padre, il cui compito era solo quello di dire di sì e di no come una marionetta alla quale mamma tirasse un dato filo. Vi deve essere stata di certo una disputa tanto violenta che il colonnello ad un certo punto trovò opportuno troncare mettendo alla porta mia mamma e il suo troppo debole marito.
   Altri anatemi e scomuniche e geremiadi a me che «avevo causato quell'affronto, ecc. ecc. ecc.». Ma io, da lontano e con l'appoggio dei cugini, avevo un coraggio da leone e resistevo.
   Intanto rifiorivo miracolosamente. Lo avevo promesso a Mario. Come pianta languente per l'arsura e che una pioggia benefica irrora, io riacquistavo vigore giorno per giorno. La speranza mi rianimava, la gioia mi nutriva. Potevo da capo nutrirmi; se anche non dormivo, non erano però più quelle notti tormentose di affanno. L'amore mi ritemprava tutta, il nostro amore così fedele e puro…
   Per tutto agosto, settembre, ottobre durò il carteggio con mamma. A tutti i suoi ostacoli io contrapponevo i miei controostacoli. La dote non me la voleva dare? Non occorreva. Non mi voleva fare il corredo? Non occorreva. Era una pazzia e m'avrebbe dato la morte? Sarei morta in un'ora di gioia: per intanto guarivo. Mario non era uomo serio? A me aveva dato la più bella prova di serietà. Mario era stato un subdolo e si era presentato a me per sorprendermi e sedurmi? Niente vero. Prima che con me aveva parlato coi cugini. E così via.
   Mario aveva scritto a sua volta, ma mamma non aveva risposto. Anzi nella collera aveva strappato la lettera e l'indirizzo.
   Vedendo che nulla vinceva né me né lui, mamma tornò al suo metodo prediletto.
   Ho letto una volta nel libro di un giurista che i delinquenti tornano sempre a compiere i loro delitti con lo stesso sistema. Ognuno ha il suo metodo e la polizia si basa sui particolari, sempre uguali, per riconoscere un dato delinquente. Senza essere dei delinquenti di fatto che uccidono, rubano, tradiscono materialmente, ecc. ecc., lo si può essere anche moralmente, perché chi uccide un cuore, chi ruba una gioia, una pace, una riputazione, chi tradisce una fiducia non è da meno di chi uccide una vita, di chi ruba una somma, di chi tradisce la patria. Delitti impuniti che solo Dio vede, ma non per questo meno delitti! Chi li compie segue sempre un metodo suo proprio.
   Mamma usò il suo ed io, oca perfetta, ci cascai, e Mario… mi fece compagnia. Alla fine di ottobre, dopo aver ricevuto una lettera ben chiara di Clotilde, mamma finse di arrendersi e di rassegnarsi e mi chiese l'indirizzo di Mario.
   Clotilde mi disse: «Non glielo mandare». Ma potevo io non mandarglielo? Non era bello e giusto che quei due, da me diversamente ma con la stessa intensità amati, si intendessero? Continuare la guerra voleva dire non avere benedizione materna sulle mie nozze. Potevo volere ciò? Mandai perciò l'indirizzo.
   Da Firenze a Istambul la posta ci teneva circa una settimana, come ce ne teneva altrettanto da Istambul a Reggio. Orbene, confrontando le date si vede, con evidenza innegabile, che mamma scrisse a Mario, lui rispose e contemporaneamente scrisse a me una lettera che è tutta una protesta di affetto e termina così: «Mario tuo, sempre tuo, completamente tuo, eternamente tuo».
   Mamma tornò a scrivere… e Mario non scrisse mai più. Cosa gli disse? Solo lei, lui e Dio lo sanno.
   Una volta, or sono otto anni, mentre io ero ancora mezzo intontita da una crisi con delirio, udii mamma dire a una signora presente: «Ah! signora Ida! Cosa ho mai fatto con lo scrivere quel­la lettera!». Non creda che ho capito male io. La signora Ida, interrogata da me il giorno dopo, mi ha confermato quella frase di mamma.
   Mario non mi scrisse più, mai più, mai più. Io avvertii quello stesso fenomeno che mi aveva notificato il suo arrivo, ma in senso contrario. Verso la fine di ottobre sentii allontanarsi sempre più quei fili misteriosi e poi spezzarsi. Lo dissi a Clotilde ma lei mi dette un po' su colla voce. Mario scriveva ancora ed era così affettuoso. Perché credere a certe bubbole? Ma quando dopo la sua lettera del 6 novembre, ricevuta da me il 13 novembre, egli non scrisse più, Clotilde rimase perplessa.
   Mamma si denunciò da sé fin da allora perché non mi parlò più di Mario… Io, per consiglio di Clotilde, continuai a scrivere a lui come niente fosse. Ma le mie povere lettere non ebbero più risposta.
   Giunsi così fino alla mattina del 24 dicembre. A sera doveva esserci un grande pranzo. Io e Clotilde eravamo intente a preparare i fiori, le coppe, ecc. ecc.
   Arrivò un ufficiale di marina. Era di passaggio. Doveva andare a Roma per sposarsi. Chiese se nonostante l'ora (erano le 10 e mezzo) avrebbe potuto avere una minestrina e un uovo, magari solo quello, perché proveniva da Taranto e lungo la desolata linea del Metaponto non aveva potuto mangiare nulla.
   Mentre egli attendeva che la minestrina cuocesse, mia cugina, che era ansiosa di avere notizie di Mario, il cui silenzio impressionava e le mie asserzioni che «tutto era finito per colpa di mamma» scuotevano, chiese a questo ufficiale da dove venisse. Lo chiedeva a tutti gli ufficiali di marina.
   Egli rispose che veniva dalla Turchia, dal mar Nero precisamente, perché allora il mar Nero era tutto sotto controllo della Squadra Interalleata.
   «Ah, sì? E a Costantinopoli non c'è mai stato?».
   «Sì, anche di recente, perché le nostre torpediniere vanno avanti e indietro e spesso attraccano a Istambul».
   «E conosce il tenente di vascello Mario Ottavi?».
   «Chi? Ottavino? Ma sicuro! E di poco più grande di me e ci conosciamo fin dagli anni dell'Accademia».
   «Che fa ora? Sta bene? È lui pure a Istambul?».
   «Sì. Lui è anzi sempre a Istambul essendo sulla nave ammiraglia. Lo conosce, signora?».
   «Sì. È stato qui nostro ospite». Non disse altro Clotilde, altro fuorché ospite, per dar modo all'altro di parlare liberamente.
   Io ero in una saletta attigua. Sentivo ma non ero vista dal­l'uf­ficiale, il quale credeva esser solo col cameriere e con la proprietaria.
   Clotilde insistette: «Ora come sta? Prima ci scriveva, ma ora è tanto che sta zitto…».
   L'ufficiale sorrise e dette bonariamente le spiegazioni richieste. «Ma che le devo dire, signora? Mario era tanto serio, assennato. Non so… credo fosse in relazione con una signorina e con serie intenzioni… Cosa sia successo non so perché, come le ho detto, io vado e vengo da Istambul. Ma altri colleghi mi hanno detto — sa, le nostre chiacchiere — che da due mesi Mario è totalmente cambiato. Prima ha avuto giorni neri in cui era intrattabile con tutti, lui così bonaccione… Poi… poi si sta rovinando con una donna, una russa, un regalo che ci ha fatto la rivoluzione comunista. Lei si dice titolata e fuggita per scampare alla morte. Ma io credo che sia una avventuriera. È bellissima, ma anche corrottissima. S'immagini, ecc. ecc. ecc.».
   Le risparmio, Padre, i particolari non adatti per me a scriversi e per Lei a leggersi…
   L'ufficiale concluse: «Povero Mario! O è diventato pazzo, oppure lo hanno fatto diventare pazzo con qualche cosa che noi non sappiamo. E creda che me ne spiace, perché era un bravo ragazzo!…».
   Padre, non ha mai provato lo spasimo che si prova quando su una vasta bruciatura scoli dell'acido? Io sì, una volta. È un dolore che fa drizzare nervi e capelli. Io quella mattina ho provato quel dolore… ma era l'anima bruciata su cui si rovesciava del­l'acido…
   Ecco l'opera di mia mamma. Io sacrificata e lui rovinato.
  

   A sera mi venne un febbrone. Tutti gli ospiti mi complimentavano per il «magnifico colore che avevo quella sera». Sfido io! Mi facevano dei ditirambi sugli «occhi splendenti con cui li guardavo». Altro che splendenti! La febbre li rendeva fosforescenti. E mi chiedevano se ciò proveniva dalla notizia dell'imminente arrivo del promesso sposo… Senza volere, delle volte si è crudeli coi nostri simili. Quelle degne persone coi loro complimenti e le loro domande e allusioni erano crudeli. Ma non sapevano niente e perciò non sono colpevoli. Erano come bimbi che parlano senza sapere…
   Io volevo scrivere subito a Mario e a sua nonna. Ma Clotilde e suo marito mi dissero: «Aspetta. Sarà un attimo di smarrimento. Aspetta». Aspettai. Però a lui non scrissi più.
   Piansi, pregai, perdonai. Perdonai a lui di cui capivo il dramma che viveva. E perdonai a mamma che capivo essere autrice di quel dramma. Ho sempre perdonato, per me stessa, il male ricevuto. Se ne persuada.
   In gennaio ripresi la spagnola. Era quell'ultima terribile epidemia di spagnola nella quale perse la vita Benedetto XV4. Morì anche mia cugina Normanna, quella dell'albergo-villa, lasciando quattro orfanelli di cui il più piccolo di sette mesi. Quei bimbi mi impedirono di sentire troppo acerbamente la mia nuova, duplice pugnalata. Dovetti occuparmi di loro per qualche tempo e ciò mi teneva su.
   Quando ho una missione mi tuffo in quella con tanta foga che ogni altra cosa diviene meno importante al mio cuore.
   E poi speravo… speravo… Non potevo rassegnarmi che Mario, che si era mostrato così fiducioso in me e così fedele, avesse potuto d'un tratto divenire infedele e non fiducioso. Lo scusavo perché pensavo che chissà mai che gli aveva detto mia mamma per staccarlo da me. Ma non potevo capacitarmi che egli avesse potuto credere alla menzogna che certo gli era stata detta. E speravo che dopo il primo tempo d'ira si sarebbe reso capace di capire il tranello.
   Ho aspettato fino al maggio. Sei mesi sono sufficienti per ragionare e giungere alla luce, e vedere le cose nella loro realtà. E sono anche sufficienti per esaurire un capriccio. Certi amori di vizio hanno corta durata.
   Nell'ultima lettera che gli avevo scritta e che egli doveva aver ricevuto per Natale io, oltre agli auguri, gli avevo raccomandato di non farmi pentire di aver avuto fede in lui e di avergli affidato, donato il mio cuore. Ricordo che, quasi dettate da uno spirito onniveggente, io gli scrivevo queste frasi: «Tu sai quanto sforzo ho dovuto compiere per ottenere che questo nostro amore avesse vita. Non lo dimenticare mai. Non ti dico di vivere come devo vivere io che sono una donna, la tua donna. Ho tanto buon senso da sapere che ciò sarebbe impossibile. E siccome non voglio obbligarti a dirmi delle cose non vere, così non ti chiedo di darmi la tua parola d'onore di vivere come debbono vivere dei consacrati in un chiostro. No. Mai tu devi essere insincero con me come mai io sarò insincera con te. Tutto io ti potrei perdonare, tutto, ricordalo, ma non la mancanza di sincerità in me. Essa mi direbbe che tu non mi conosci ancora e non mi ami completamente. Perché se mi amassi a fondo e mi conoscessi a fondo sapresti anche che il mio amore per te è così completo e perfetto che assomma in sé i caratteri di un amore di madre, di sorella, di amica oltre che di sposa. E tu lo sai che una vera mamma perdona tutto, una vera sorella indulge a tutto, una vera amica comprende tutto. Non mi recare mai l'offesa di essere meco insincero e senza confidenza. Io amo il tuo cuore più ancora che il tuo corpo, lo sai. E il tuo cuore non deve avere segreti per me. Cerca di vivere in modo che il confidarti con la tua Maria non ti abbia ad esser faticoso. Vivi in una città dove tutti i pericoli più insidiosi sono radunati e condensati per tendere lacci ad un uomo, specie se giovane. Ma tu sappi liberarti sempre da tutti i tentacoli di un piacere che sappia renderti talmente schiavo di sé da trascinarti al fondo, nel fango… Te ne vergogneresti troppo, dopo, non per me stessa ma per te, per la tua dignità di uomo. Sii sempre un Uomo, Mario, e non solo un maschio. Sappi rimanere libero e forte, in piedi, anche in mezzo a tutte le canzoni delle sirene che tentano in mille maniere l'anima maschile. Lo farai, vero? Per te, per la tua carriera, e per me di cui tu sei il Bene, la Speranza e la Vita. Ma se, per un deprecato caso, tu fossi già soggiaciuto… oh! allora vieni, vieni più di prima a me. Piangeremo insieme ed io ti guarirò e ti renderò alla vita, di nuovo libero e forte, perché un cuore di donna, veramente amante, ha in sé tutte le medicine per guarirvi dalle malattie della carne e tutte le indulgenze per assolvervi dalle debolezze dello spirito».
   Lei dirà: «Come fa a ricordarsi dopo tanti anni di quanto gli scrisse allora?».
   Oh! ricordo, ricordo! Nello sfacelo generale del mio corpo rimane forte, unicamente forte, la memoria. Ricordo tutto, anche le cose più insignificanti. Potrei non ricordare queste che ho ripetute in me, col pensiero, migliaia di volte? Potrei ridirle tutte le lettere che gli scrissi. Esse sono incise nella mia mente come su un disco fonografico, così come le lettere di lui sono incise nel mio cuore. Le ho vicine al mio letto, ma non le guardo neppure. Non ne ho bisogno. Esse sono tutte scritte nel cuore e non ho che guardare nel mio interno per leggerle.
   In capo a sei mesi di silenzio suo, scrissi a sua nonna dicendole quanto era accaduto e finivo così: «Per la mia dignità ora trovo che è bene porre fine a questo disgraziato amore. Non giudico e non condanno Mario. Mi spiace solo che la sua bella giovinezza si avvilisca così in un legame indegno. Ma è così. Finché Mario fu un ragazzo fu perfetto; fatto uomo ha seguito la regola. Triste regola che è causa di tanti errori. Dio lo perdoni come io gli perdono. Gli faccia sapere che gli rendo la sua parola, che egli del resto si è così miseramente ripresa, e che se lui non seppe essere fedele io lo sarò per lui e per me, e se non potrò occuparmi di lui come creatura di carne mi occuperò di lui come anima pregando per il suo bene, perché nonostante tutto, pur rendendogli tutta la sua libertà, per mio conto io continuerò a considerarmi la sua sposa fedele».
   Padre, le ho detto che quando mi fu tolto Roberto credevo non si potesse soffrire di più. Ma nel 1921 soffrii molto di più. Da quella mattina del 23 dicembre 1921 fino a… fino a quando? Fino a sempre finché io vivo, io porto questa pena confitta nel cuore. Ed è tantopena che resiste e sussiste pur fra la gioia della mia dedizione a Dio.
   Come capisco il dolore di Cristo per il tradimento dell'apostolo infedele! No, non c'è nulla che superi il dolore che ci dà un tradimento, il tradimento di uno che amammo e stimammo. La morte che ci leva uno da noi amato non è nulla in paragone di questa mala azione che avvilisce in noi la stima fino allora avuta di un essere caro e che scaglia al suolo, a infrangersi nel fango, il dono stesso del nostro cuore che viene vilipeso e tradito. È un dolore che spreme sangue dalle fibre e ci macina come può farlo una mola. Ci annichilisce.
   Colui che muore lo possiamo seguire, col pensiero, nei regni dell'al di là; colui che muore non ci abbandona: da altri regni ci veglia, ci segue, ci protegge, e il suo spirito, libero dalle costrizioni della carne, può ancora venirci vicino come un angelo tutelare. Ma colui che ci tradisce è perduto per noi. Egli stesso si ritira portando seco il suo cuore che seppe divenire per noi coppa di fiele, egli se ne va con un insulto, calpestando nell'andare il nostro cuore che invano sotto ai suoi piedi tenta un ultimo appello di pietà. Perduto, perduto per sempre è colui che alla nostra fiducia, alla nostra stima, al nostro amore infligge la tortura e l'offesa schiaffeggiante di un tradimento e di un abbandono immeritato.
   Colui che muore non cessa di amarci ma anzi ci ama con maggior perfezione dall'altra vita: il nostro amore continua con un caro estinto. Ma colui che tradisce non ci ama più. Se ne va con tutto il suo io e noi restiamo soli ad amarlo… Perché — pare impossibile ma è così — perché non si ama mai nulla tanto perfettamente, intensamente, come amiamo, di un amore fatto di compassione, colui che ci ha tradito. Egli rimane fisso nel cuore nostro. Vediamo su lui la colpa del suo tradimento che ci ferisce così profondamente, ma non ci addoloriamo della ferita nostra, ma della ferita che egli ha inflitto a sé stesso, menomandosi nella sua onestà di uomo. Ci si accora per i suoi rimorsi futuri che è inevitabile che sorgano quando l'anima, snebbiata dal capriccio che l'ha sedotta, in ore di meditazione che anche il più superficiale conobbe, si trova di fronte a sé stessa e al suo passato.
   Come dico, Mario ha, a sua grande attenuante, quello che gli avrà scritto mia madre. Ma se ciò attenua la colpa non la annulla, perché il tradimento rimane e rimane l'offesa che egli mi ha recata col preferire a me, che ero la sua donna fedele e onesta, la creatura di vizio trovata per caso sui marciapiedi di una città cosmopolita. Fosse tornato a me dopo un breve capriccio l'avrei compatito. Ma così… È un'amarezza che permane viva e permarrà fino alla tomba.
   Eppure non ha spento il mio amore per lui. Né credo che ciò sia diminuzione della mia dedizione a Dio. Come nei monasteri possono entrare le vedove e onorare Iddio con tutte le pratiche di una vita monastica e con un amore che, formatosi per la creatura, diviene perfetto donandosi al Creatore, così ugualmente io, povera vedova prima che sposa, posso amare il mio Dio che è rimasto solo a regnare su me e in me, e nel contempo conservare un amore soprannaturale per l'anima di colui che mi ha lasciata e che è caduta così in basso dopo tanto bene che io avevo seminato in essa!…
   Non le pare che posso fare così?
  

   Il mio nuovo dolore non mi staccò da Dio. Anzi fu un accrescimento di amore per Lui. Non ho conosciuto nessuna di quelle ore tremende di ribellione che avevo conosciute nel 1914 e seguenti. Soffrivo come di più non si può soffrire. Oh, sì! Ora lo posso ben dire, ora che ho provato tutti i dolori fuorché quello della morte di un figlio! Soffrivo, ma non una delle mie lacrime cadeva sola, per terra, dopo avermi bruciato il cuore. Io le versavo tutte nel cuore di Cristo.
   Verso Pasqua, nella chiesa della Purificazione che era la parrocchia dell'albergo ove ero io, il Parroco esortò i fedeli ad ascriversi al Terz'Ordine Francescano.
   Io e S. Francesco eravamo vecchi conoscenti.
   Nel mio Collegio, nella primavera 1912, la mia Superiora, conoscendo il mio trasporto per questo Santo che allora era molto poco celebrato, mi aveva dato da leggere un libro sul medesimo: «Amor che spira», se ben ricordo quel titolo. Nessuno voleva leggerlo per la prima, neanche le Suore. La Superiora lo portò a me dicendo: «Tieni, Valtortino, tu che sei una piccola francescana leggi e sappimi dire se può piacere alle altre per farlo leggere in refettorio». Era un libro nuovo, con ancora le pagine da tagliare. Mi tuffai in quella lettura e, se prima amavo il Serafico d'istinto, dopo lo amai tre volte di più col conoscimento. Avevo trovato il mio Santo. E anche nei periodi neri della mia giovinezza il mio affetto per lui non s'era illanguidito.
   Era più che naturale che ora, tornata a Dio con tutta la pienezza della volontà, più che mai mi sentissi portata verso il suo Araldo, verso lo Stigmatizzato della Verna, verso colui che dopo esser stato carne seppe, per amore del Cristo, divenire spirito.
   Fui lì lì per ascrivermi subito al Terz'Ordine Francescano. Ma me ne astenni. Perché? Perché un resto di vergogna era ancora in me. Mi fidavo ormai e mi affidavo alla Misericordia di Dio e in Dio trovavo sempre più quel conforto che avevo inutilmente cercato di trovare in tuttigli umani. Ma non ero ancora giunta al punto di credere, come credo ora, che la Misericordia di Dio è così infinita che nulla le è di ostacolo per amare le sue creature.
   Mi dicevo: «Sì, Dio ti ha perdonata e ti vuole bene come prima. Ma tu, anima mia, non ti devi dimenticare quello che hai fatto di contrario alla Legge divina. Perciò prima di entrare in una milizia quale è un Terz'Ordine devi fare il tuo purgatorio. Un purgatorio di penitenza, un purgatorio di studio per purificarti e per crescere nella conoscenza dei tuoi doveri di cristiana. Sei stata infetta per tanti anni, ora sta' in quarantena».
   Finché io mi dicessi che dovevo ricordare i miei falli era bene. Li ricordo anche ora, sempre, e per sempre più spronarmi a sentire riconoscenza verso Dio che fu meco tanto misericordioso, e per sentire sempre più il bisogno di cancellare il mio debito verso la Giustizia divina mediante una continua offerta di olocausti. Dove sbagliavo era nell'attendere ad entrare, trattenuta da un resto di vergogna non santa. Giudicavo Dio secondo una vista umana e mi comportavo con Lui come mi sarei comportata con un mio simile che avessi offeso. Non avevo ancora una vista giusta.
   Il buon Gesù mi aveva già presa per mano come il cieco di Betsaida5 e mi aveva condotta fuori dalla folla… Mi aveva successivamente messo la saliva sugli occhi e imposte le mani… ed io cominciavo a vedere, ma per un ultimo inganno del Maligno vedevo paurosamente ingrandito tutto il mio passato e, come al cieco del Vangelo gli uomini parevano grossi alberi, altrettanto a me le mie colpe, che innegabilmente erano colpe, apparivano talmente mostruose da farmi temere di entrare nel seguito di Cristo, sotto il sigillo di un Terz'Ordine. Mancava ancora la seconda imposizione delle mani divine perché io potessi vedere chiaramente ogni cosa.
   Dissi perciò a me stessa: «Fa' conto d'essere una probanda. Studiati se sei atta a seguire il Maestro sotto una regola speciale o se ti devi accontentare di essere un semplice fedele».
   Nelle cose divine o umane ho sempre considerato attentamente se le potevo portare fino in fondo. Non partivo e non parto mai di galoppo, come fanno tanti sotto la speronata di un subito entusiasmo, che, anche se dato da una santa ispirazione, non dura se non è corroborato da tante altre cose. Ho sempre preferito all'impennata e al galoppo, che presto si esauriscono, il trotto costante che porta lontano. Alla corsa rapidissima di un campione olimpionico ho sempre preferito il passo misurato dei nostri montanari, per esempio, che sembra vadano tanto lentamente ma coprono metodicamente distanze che nessun campione potrebbe coprire, e superano tutti gli ostacoli con una calma direi quasi solenne.
   Ci vuole metodo e ordine in tutte le cose e ci vuole riflessione: per assomigliare di più a Dio che, pur nella sua smisurata potenza, fu metodico e ordinato nel creare e che non infrange il suo ordine che difficilmente, o per punirci scatenando le forze cosmiche, o per persuaderci della sua esistenza operando il miracolo. E ci vuole riflessione prima di intraprendere un'opera, per non avere poi da far ridere la gente con la nostra presunzione che si affloscia come una vescica bucata alla prima contrarietà che incontra.
   Ho perciò imposto a me stessa un periodo di attesa. E intanto ho cercato di bonificare il suolo dell'anima mia per prepararlo alla divina semente6.
   Via i sassi, ossia via quel sentimento di risentimento verso coloro che più mi avevano nuociuto. Dio non può regnare dove regna anche un minuscolo odio, perché carità e odio non possono albergare sotto lo stesso tetto. Perciò prima di tutto ho levato dal cuore questo,perdonando ai due colpevoli: mia madre colpevole di menzogna e d'egoismo, Mario colpevole di irriflessione e tradimento.
   Poi gli uccelli dell'aria, ossia i pensieri diversi che fanno sfarfallare la nostra mente qua e là, sparpagliando il seme fuori dal solco, quando non lo distruggono addirittura ingoiando le ispirazioni divine nel loro ventriglio avido di basso nutrimento umano.
   Poi eliminai i passanti che potevano calpestare il mio seme, ossia le affezioni che non fossero contenute nel mezzo della via e non sulle zolle seminate, amando tutti con un intenso affetto spirituale, per la loro anima e senza attaccamento umano rivolto a ciò che è caduco e fomentato da simpatie umane.
   Quarte a levarsi furono le spine, ossia le preoccupazioni umane di quello che ancora avrebbe potuto accadermi, del futuro che si presentava così triste, ecc. ecc.
   Non le dico che fu lavoro breve… Ma anche a bonificare una terra ci vogliono anni ed anni. Però dopo essa rende il cento per uno perché, ricca di umori vergini e monda di tutte le imperfezioni, dà messi opime.
   Quando la mia anima, mondata dal mio assiduo lavoro di tutti i sassi, le spine, le acque stagnanti, resa irrigua dall'amore ma non soggetta a straripamenti di passioni, fertilizzata dal dolore e dalla carità, arata dal vomere della contrizione, resa soffice dalla confidenza, fu pronta, il divino Seminatore venne e tutto fiorì in Cristo. Fioritura che non è più cessata ma anzi è andata sempre più intensificando il suo fiorire aumentandosi di sempre nuovi steli, perché dalle prime semine delle virtù comandate siamo passati a quelle dei consigli evangelici e da queste alle sante audacie dell'amore, alla sete di sofferenza, alla richiesta di olocausto.
   Dico «siamo» perché nei divini sponsali col Cristo la mia anima non fu più sola a chiedere, non fu più solo Cristo a seminare, ma fummodue: due volontà, due amori, due cuori che vollero sempre nuovi fiori, che lavorarono intorno a sempre più elette fioriture, e se uno dei due sostava un attimo l'altro lo sollecitava a proseguire…
   Ho detto che si giunse fino a seminare la richiesta d'olocausto come supremo fiore. No. Dopo questo fiorì anche il fior dei fiori nel mio cuore. Il fiore il cui seme, per crescere e sbocciare eterno, ha bisogno d'esser fertilizzato col sacrificio completo. È nato Cristo in me.
   Dalla lontana — come lontana nel tempo — annunciazione del Cristo al mio cuore, dopo l'oscuro periodo del travaglio carico di tutto il peso dell'umanità, il Cristo era nato nuovamente e copriva col suo rigoglio la zolla natìa, la mia povera anima che non è nulla ma che solo ha ragione di esistere per essere piedestallo al suo Signore.
   Maria è scomparsa. Vive Lui solo. Maria muore. Egli aspira da lei la vita per fiorire in lei sempre più bello. Maria fra poco non sarà più che un ricordo fra gli uomini. Ma Egli porterà l'anima mia nel suo bel giardino celeste ed io continuerò in eterno a fiorire sotto i raggi divini della Trinità santa, accarezzata dalla mano di Maria…
 


   all'Indice, cioè inserito nell'Indice dei libri proibiti, che il papa Paolo VI ha soppresso nel 1966. Il romanzo "Il Santo" fu pubblicato nel 1905 e condannato all'Indice l'anno seguente. Il suo autore Antonio Fogazzaro (1842-1911), scrittore di fama, era ritenuto colpevole di diffondere con le sue opere le idee del modernismo, che la Gerarchia ecclesiastica non tollerava e che il papa Pio X condannò nel 1907 con l'enciclica "Pascendi". In seguito Fogazzaro fece atto di sottomissione alla Chiesa.

   2 Franco: a distanza di ventitré anni, Maria Valtorta ricorda male il nome del protagonista del romanzo "Il Santo", che si chiama Piero Maironi, soprannominato Benedetto.

   3 Claudio de la Colombière (1641-1682), gesuita francese, beatificato nel 1929 e proclamato santo dal papa Giovanni Paolo II nel 1992, fu confidente e collaboratore di Margherita Maria Alacoque. Benigna Consolata Ferrero (1885-1916), suora della Visitazione di Como, scrittrice mistica, venerabile.

   4 Benedetto XV (Giacomo Della Chiesa), eletto papa nel 1914, morì appunto nel gennaio del 1922.

   5 il cieco di Betsaida dell'episodio di: Marco 8, 22-26.

   6 divina semente della parabola di: Matteo 13, 3-23; Marco 4, 2-20; Luca 8, 4-15.

MV a 23 anni