MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MINORE

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LIBRO DI AZARIA CAPITOLO 14


Quinta domenica dopo Pasqua


26 maggio 1946

   Introito: Salmo 66 (65), 1-2; Isaia 48, 20.
   Orazione: O Dio, da cui procede ogni bene, concedi a noi, che te ne supplichiamo, di pensare, grazie alle tue ispirazioni, ciò che è retto e di metterlo in opera sotto la tua direzione.
   Epistola: Giacomo 1, 22-27.
   Primo versetto alleluiatico: Cristo è risorto, e fulgido è apparso a noi redenti dal suo sangue.
   Secondo versetto alleluiatico: Giovanni 16, 28.
   Vangelo: Giovanni 16, 23-30.
   Offertorio: Salmo 66 (65), 8-9.20.
   Segreta: Accetta, Signore, le preghiere dei tuoi fedeli con le offerte delle ostie, affinché per questa doverosa testimonianza della nostra devozione giungiamo alla gloria celeste.
   Comunione: Salmo 96 (95), 2.
   Dopocomunione: A noi, alimentati dalla virtù della mensa celeste, concedi, Signore, di desiderare ciò che è retto e di ottenere quanto desideriamo.
  

   La spiegazione di Azaria, che certo verrà, è preceduta in questa domenica dal sorriso della Vergine Immacolata... [...]1
   E Azaria parla stando inginocchiato con le braccia incrociate sul petto, a capo chino, di fronte a Maria come fosse di fronte ad un altare.
  
  
   Dice Azaria:
   «Tu, anima mia, sei uno di quegli spiriti che il Signore ha redento, dal suo popolo. Perché se il Cristo si è incarnato ed è vissuto, ha evangelizzato, ha patito ed è morto per redimere tutta l'Umanità; se, più particolarmente, lo ha fatto per coloro che erano d'Israele, e più ancora per quelli in Israele che avevano accolto il Maestro, non tutti fra questi e fra i discendenti di questi, ossia fra i Cattolici, sono ugualmente redenti, perché non tutti ugualmente rispondono con generosità alla generosità della Grande Vittima Salvatrice. Il nome di cristiani cattolici è stato portato ed è portato da milioni e milioni di anime, ma non tutte queste anime, sulle quali era scesa la Grazia a rifarli figli di Dio, hanno saputo esser per sempre redenti, esserlo in eterno, e subito dopo la morte, poiché la "buona volontà" fu difettosa più o meno in loro.
   Alla generosità va risposto con generosità. Noi, spiriti che vediamo gli uomini dall'alto dei Cieli e che li seguiamo con la luce divina a nostra guida, vediamo i meravigliosi prodigi provocati da questa gara di generosità fra l'anima che si dona a Colui che le si è donato, e Dio che ancor più si dona per ricompensare il generoso che a Lui si dona. E veramente possiamo dire, a risposta dei "perché" di molti sulle ascese o discese, inspiegabili umanamente, delle anime, che il salire o il discendere è congiunto e conseguente al grado di generosità con cui un'anima aderisce al Signore. Cultura, stato nel mondo, non hanno che un peso relativo. Ciò che conta è la generosità. Perché generosità è ancora carità. Perciò chi è più generoso più è caritativo. Più è grande il grado di carità e più è grande l'unione con Dio. E dove Dio è grandemente unito ad uno spirito, questo spirito, prescindendo da altri agenti esterni, si muta da spirito comune a spirito eletto, capace di ciò che di suo non sarebbe capace, perché nell'unione è Dio che agisce con le sue perfezioni e secondo i suoi fini.
   Quando perciò una creatura si trova rapita a speciali altezze, umilmente deve cantare, perché sia data la lode a Colui che la merita: "Il Signore ha redento Giacobbe suo servo".
   Guai, guai a coloro che dicono: "Io sono divenuto così perché l'ho voluto. Il merito è mio". L'uomo non ha altro merito che quello della buona volontà che deve essere attiva e umile sino alla morte della creatura. Ma il merito è di Dio che vi dà gli aiuti per mutarvi da uomini a dèi. La superbia del dirvi unici autori della vostra elezione è sufficiente a fare di un eletto un reprobo, perché la superbia è invisa a Dio, il quale si ritira coi suoi doni mentre il superbo, in luogo da chinare il capo dicendo "ho peccato", persiste nel voler apparire quale più non è, persiste per orgoglio, cadendo così in menzogna e sacrilegio, e finendo, da ciò che era, a futuro dannato.
   Parlo davanti alla Piena di Grazia, alla Senza Macchia d'Origine, a Colei che ha meritato di esser Madre di Dio. Quali glorie più grandi di queste? Quali sicurezze più grandi di gloria? Ecco, Ella lo sa. Se, per un supposto, in un momento qualsiasi della sua vita, tutta cosparsa di eventi atti a destare superbia in ogni creatura, Ella avesse avuto un moto di superbia, vano le sarebbe stato l'essere senza Macchia, Piena di Grazia e Madre di Dio. Né più né meno di ogni creato, sarebbe decaduta dalla sua splendida natura. Perché la superbia tutto distrugge.
   Ed è inutile pregare il Signore di dare buone ispirazioni per metterle in pratica, come dice l'Orazione, se per prima cosa non si tiene sgombro il terreno del cuore da ogni pianta di superbia. Dove non è umiltà non possono le buone ispirazioni mutarsi in buone opere, perché le buone opere sono sempre appoggiate su una base di umiltà che le sorregge.
   Giacomo apostolo scrive, continuando l'epistola della domenica scorsa: "Mettete in pratica la parola del Signore, non l'ascoltate soltanto ingannando voi stessi".
   Ma come potete metterla in pratica se per prima cosa non abbassate per sempre l'orgoglio dell'io? Ubbidire è umiliare il proprio giudizio ad un altro giudizio che, con l'ubbidirlo, confessiamo più grande del nostro. Perciò una prima azione di umiltà: il riconoscimento che altri hanno maggior capacità di dirigere e giudicare di essi.
   L'orgoglio e l'egoismo, come due corna puntute e sempre rinascenti, tentano di distruggere questa umiltà. Ma l'uomo deve incessantemente farla rinascere se vuole esser capace di mettere in pratica gli insegnamenti di Dio, i suoi comandi o i suoi consigli e ispirazioni.
   La parola del Signore è una parola che conculca tutto ciò che è basso nell'uomo per far crescere vigoroso tutto ciò che è alto, spiritualmente alto. Ma se resta appena appoggiata sul cuore, fatto di granito dall'egoismo o dalla superbia, oppure fatto morto dall'ignavia, non può gettare frutto. Frutto fa quando penetra, mette radice, getta fusto, fa chioma, fa fiore, fa frutto, ossia quando è accolta, quando è curata con amore e costanza, quando è aiutata con ogni sforzo a crescere e ornarsi di tutte le virtù che sono il connubbio della Parola docente con la volontà operante.
   Giacomo dice: "Ingannando voi stessi".
   Quanti si ingannano in tal modo! Credono di essere a posto solo perché vanno ad ascoltare la parola di Dio. Ma ascoltare e non praticare, credersi salvi per essere andati ad ascoltare, è un ingannare sé stessi.
   La parola deve essere assimilata, fatta una sola cosa con l'io, così come i succhi del cibo fanno un unico "che" col sangue nel quale si riversano. Se uno fosse malato di una malattia per la quale cessasse ogni assimilazione di cibo, anche se mangiasse un intero agnello al giorno morirebbe di consunzione. Altrettanto è di coloro che ascoltano, ascoltano, ascoltano la divina Parola ma poi non ne fanno succo allo spirito loro e si credono nutriti mentre sono semplicemente zavorrati di materiale inerte.
   Giacomo dice: "Colui che così fa, è come chi dopo aver fissato il proprio volto in uno specchio se ne va e lo dimentica".
   Io direi di più. Direi: è come chi si pone davanti ad uno specchio, ma per non voler aprire gli occhi, o per volerlo fare al buio, non vede i particolari di ciò che ha davanti e perciò non può ricordarli.
   La Legge santa, divenuta dolcissima nel Vangelo di Cristo, va conosciuta, per ricordarla o praticarla, in pienezza di luce e di volontà. E invano si dice religioso e servo a Dio chi la contravviene per pigrizia, per stoltezza, o per odio alla carità.
   Quale è dunque la vera religione, la pratica vera della Parola divenuta Dottrina? Quella che si muta in opere buone. E Giacomo non cita la frequenza alle funzioni, l'ostentazione nei riti e simili altre cose. Ma si limita a nominare la prudenza e la carità.
   Oh! quanti calpestano l'una e l'altra! Quanti fanno piangere i propri fratelli per non saper frenare la lingua facendo maldicenze, o facendo anche lodi fuori tempo e luogo, o non sapendo mantenere un segreto la cui divulgazione può mettere una piccola aureola mondana al loropovero capo che va cercando festuche di paglia invece delle fronde vere delle palme celesti, ma che può ledere il diritto di Dio, l'ubbidienza a Dio e la pace ai fratelli!
   La prudenza è pure una delle virtù cardinali. Ma chi la pratica in modo eroico è molto, troppo raro, e le lacrime che cadono per le imprudenze, tanto più colpevoli quando vengono da esseri che per la loro missione sono preposti ad essere di aiuto e guida, e freno, e sollievo ai fratelli, sono innumerevoli. E grandi i danni. Danni non su una cosa umana, ma su cose più alte che vengono maneggiate senza prudenza e perciò sciupate di quel velo santo e soave con cui Dio avvolge le sue luci troppo sante per esser gettate nude in pasto ai mortali.
   Ricordassero costoro il grande Mosè che aveva tanto ri-tegno di presentare il riflesso del Divino, che permaneva sul suo volto, da coprirsi di un velo perché non tutto Israele era degno di conoscere il riflesso di Dio!
   L'altra delle due manifestazioni della religione pura e immacolata, secondo Giacomo e secondo tutti i veri giusti, è quella della carità verso il prossimo di cui Giacomo cita i due casi più pietosi: gli orfani e le vedove da visitare nella loro tribolazione acciò non si sentano derelitti e non vengano travolti dal mondo che non conosce la carità.
   Ma vedove e orfani non sono soltanto coloro che hanno perduto uno sposo o i genitori. Vi sono dei lutti, delle solitudini, delle derelizioni ancor più vaste di quelle di un affetto ed una tutela che cessano per una carne ed un cuore. Ci sono le derelizioni di quelli che "voci di Dio" non si sentono più sostenuti e protetti da chi ne ha il dovere. E questo grida a Dio col grido di chi geme in un deserto e non ha che la Stella nel Cielo per guida dei suoi passi.
   O sacerdoti, quale è il vostro ministero se non essere tutto a tutti, e specie a questi, a questi martiri del volere di Dio? Non siete più dunque i discendenti da quei preti, da quei diaconi, da quei Vescovi e Pontefici che in tempo di persecuzioni scendevano nelle carceri, uscendo dalle catacombe, penetravano nelle arene pronti a morire se scoperti nella loro azione d'amore di portare un soccorso fraterno e spirituale ai martiri per il nome di Cristo? I vostri pericoli sono simili a festuche rispetto ai pericoli enormi di quelli. Eppure nulla li tratteneva dall'affrontarli perché il Sacerdozio è milizia, milizia che deve saper combattere a fianco dei laici, a protezione degli strumenti di Dio per essere di detti strumenti gli arcangeli che fugano l'Avversario nelle sue diverse forme. Pronti a morire nella tranquillità di una vita piana, pronti ad uscirne momentaneamente menomati, e in che? Nel misero concetto degli umani, ma aureolati del serto fulgido di una giustizia eroica per essere stati i "padri", i "cirenei" degli strumenti crocifissi.
   Perché se anche nessun'altra impurità vi lede, questa, di temere il mondo nel suo giudizio, e perciò di essere impuri nel vostro operare presso gli strumenti, è su voi; e immacolati perciò dal mondo non siete, poiché pensate coi modi di pensare di questo vostro mondo dove ha valore il rispetto umano e non ha valore il sacrificio per essere fedeli alla giustizia e carità.
   Molto si soffre in Cielo, della nostra sofferenza d'amore2, vedendo le sofferenze delle anime da Dio elette, e dal mondo schernite, e il Cielo si abbassa su esse, moltiplicando le sue luci per asciugare le loro lacrime e raccogliere i loro gemiti. Ma la carità del Cielo non esclude la carità che i fratelli devono ai fratelli, perché i fratelli sono ancora carne oltre che spirito.
   E se, venuti dal Padre che li ha suscitati per motivi di bontà che solo in Cielo saranno noti, torneranno al Padre carichi delle loro corone di spine, essi, gli strumenti afflitti e tormentati, e pregheranno ancora per i loro tormentatori, non è però detto che tutto il Padre perdoni a quelli che li hanno ingiustamente tormentati gravandoli di some inumane, non approvate da Dio.
   Spegnete pure le "voci". Il vostro cielo così sempre più si oscura di stelle. Ma non vi lamentate poi se il vostro leggendario3 non si infiora di fiori. Il fiore, per fiorire, va coltivato, non calpestato sotto pesi di indifferenza, o intristito con durezze ingiuste.
   Guai a coloro che fanno curvare lo stelo che si tendeva al cielo sotto il peso di questo pensiero: "Sono forse io un satana?". Strale che appesantisce, che abbassa verso terra l'occhio che fissava sicuro il suo Dio, anime ferite, rese dubitose, stanche... Povere anime! Ma non esse, sibbene coloro che le avviliscono saranno chiamati a giustificarsi presso il loro Signore.
   E tu, anima mia, ricorda questo: "Quando ogni gioia umana è scomparsa da un lavoro eppure si continua quel lavoro col solo spirito soprannaturale di dare gloria a Dio e aiuti ai fratelli, allora è che il lavoro si soprasantifica e supernaturalizza, divenendo proficuo".
   Questo ricorda. E ciò che ti schiaccia, ti sostenga insieme. Sali, sali, sino all'ultima vetta, col tuo peso santo del Tesoro di Dio. Scrivi, scrivi, fino all'ultima parola, anche se ogni parola ti strappa una lacrima sapendola perla destinata a giacere ignota e perciò inutile a tanti che ne hanno invece bisogno. La tua carità, anima vittima, verso Dio che ti parla, verso i fratelli che attendono, sarà sempre attiva anche se la tiepidezza umana non sa scuotersi e rendere attivo il dono di Dio.
   Sta' in pace. Non piangere più. E salutiamo la Benedetta col suo stesso canto che è quello degli umili grandi».
  
  
  E Azaria canta il Magnificat così celestialmente che le mie molte lacrime si arrestano per seguire questa armonia celeste...


   1 […] La parte che omettiamo, e che include un "dettato" di Maria Ss., è nel volume I quaderni del 1945-1950, sotto la data del 26 maggio 1946. Altri brani fuori dei "dettati" di Azaria, ma che abbiano qualche attinenza con gli stessi, possono trovarsi riportati sia qui che nel suddetto volume.  I tre volumi dei Quaderni, nella loro nuova edizione dell'anno 2006, registrano, tra gli scritti in ordine cronologico dal 1943 al 1950, le date della contemporanea stesura dei capitoli delle opere: L'Evangelo come mi è stato rivelatoLibro di Azaria e Lezioni sull'Epistola di Paolo ai Romani

  2 sofferenza d'amore è quella che misteriosamente si soffre in Cielo, come è accennato anche in vari punti dell'opera L'Evangelo come mi è stato rivelato, dove li abbiamo richiamati in una nota del capitolo 634 (volume 10°).

  3 leggendario è detta la raccolta dei racconti di vite dei santi.