MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME I CAPITOLO 22



XXII. Le giornate ad Ebron. I frutti della carità di Maria verso Elisabetta.

   2 aprile 1944.

   22.1Vedo, e pare mattina, Maria che cuce, seduta nella sala terrena. Elisabetta va e viene occupandosi della casa. E quando entra non manca mai di andare a porre una carezza sulla testa bionda di Maria, ancor più bionda sulle pareti piuttosto scure e sotto il raggio del bel sole che entra dalla porta, aperta sul giardino.
   Elisabetta si curva a guardare il lavoro di Maria — è il ricamo che aveva a Nazareth — e ne loda la bellezza.
   «Ho anche del lino da filare», dice Maria.
   «Per il tuo Bambino?».
   «No. Lo avevo già quando non pensavo…». Maria non dice altro. Ma io capisco: «…quando non pensavo di dover esser Madre di Dio».
   «Ma ora lo dovrai usare per Lui. È bello? Fino? I bambini, sai, hanno bisogno di tela morbidissima».
   «So».
   Io avevo incominciato… Tardi, perché ho voluto esser sicura che non era un inganno del Maligno. Per quanto… sentissi in me una tal gioia che, no, non poteva venire da Satana. Poi… ho sofferto tanto. Sono vecchia, io, Maria, per essere in questo stato.

   22.2Ho molto sofferto. Tu non soffri…».
   «Io no. Non sono mai stata tanto bene».
   «Eh! già! Tu… in te non c’è macchia, se Dio ti ha scelta per Madre sua. E perciò non sei soggetta alle sofferenze d’Eva. Il tuo Portato è santo».
   «Mi par di avere un’ala in cuore e non un peso. Mi par di avere dentro tutti i fiori e tutti gli uccellini che cantano a primavera, e tutto il miele e tutto il sole… Oh! sono felice!».
   «Benedetta! Anche io, da quando ti ho vista, non ho più sentito peso, stanchezza e dolore. Mi par d’esser nuova, giovane, liberata dalle miserie della mia carne di donna. Il mio bambino, dopo aver balzato felice al suono della tua voce, si è messo quieto nella sua gioia. E mi pare di averlo, dentro, in una cuna viva e di vederlo dormire sazio e beato, respirare come un uccellino felice sotto l’ala della mamma…

   22.3Ora mi metterò al lavoro. Non mi peserà più. Ci vedo poco, ma…».
   «Lascia, Elisabetta! Ci penserò io a filare e tessere per te e per il tuo bambino. Io sono svelta e ci vedo bene».
   «Ma dovrai pensare al tuo…».
   «Oh! ne avrò tutto il tempo!… Prima penso a te, che sei prossima ad avere il piccolino, e poi penserò al mio Gesù».
   Dirle come è dolce l’espressione e la voce di Maria, come le si imperli l’occhio di un soave, felice pianto, e come Ella rida nel dirlo, questo Nome, guardando il cielo luminoso e azzurro, è superiore alle possibilità umane. Pare che l’estasi la rapisca solo a dire: «Gesù».
   Elisabetta dice: «Che bel nome! Il Nome del Figlio di Dio, Salvatore nostro!».
   «Oh! Elisabetta!». Maria si fa mesta mesta e afferra le mani che la congiunta ha incrociate sul seno gonfio. «Dimmi, tu che, quando io venni, sei stata investita dallo Spirito del Signore e che hai profetizzato ciò che il mondo ignora. Dimmi, che dovrà fare per salvare il mondo la mia Creatura? I Profeti… Oh! i Profeti che dicono del Salvatore! Isaia… ricordi Isaia? “Egli è l’Uomo dei dolori. Per le sue lividure noi siamo sanati. Egli è stato trafitto e piagato per le nostre scelleratezze… Il Signore volle consumarlo coi patimenti… Dopo la condanna fu innalzato…”. Di quale innalzamento parla? Lo chiamano Agnello e io penso… io penso all’agnello pasquale, all’agnello mosaico, e connetto questo al serpente innalzato da Mosè[57] su una croce. Elisabetta!… Elisabetta!… Che faranno alla mia Creatura? Che dovrà patire per salvare il mondo?». Maria piange.
   Elisabetta la consola. «Maria, non piangere. È tuo Figlio, ma è anche Figlio di Dio. Dio penserà al suo Figlio e a te che gli sei Madre. E se tanti saranno con Lui crudeli, tanti lo ameranno. Tanti!… Per i secoli dei secoli. Il mondo guarderà al tuo Nato e benedirà te con Lui. Te, sorgente da cui sgorga redenzione. La sorte del tuo Figlio! Innalzato a Re di tutto il creato. Pensa a questo, Maria. Re, perché avrà riscattato tutto il creato e, come tale, ne sarà Re universale. E anche sulla Terra, nel tempo, sarà amato. Il mio nato precederà il tuo e l’amerà. L’ha detto l’angelo a Zaccaria. Egli me lo ha scritto…

  22.4Ah! che dolore vederlo muto, il mio Zaccaria! Ma io spero che, quando il bambino sarà nato, anche il padre sarà liberato dal suo castigo. Prega tu, che sei la sede della potenza di Dio e la causa della letizia del mondo. Per ottenere questo, come posso, offro al Signore. La mia creatura: perché è sua, avendola Egli prestata alla sua serva per darle la gioia d’esser chiamata “madre”. E la testimonianza di quanto Dio mi ha fatto. Voglio si chiami “Giovanni”. Non è forse una grazia, egli, il mio bambino? E non è Dio che me l’ha fatta?».
  «E Dio, io pure ne sono convinta, ti farà grazia. Io pregherò… con te».
  «Ho tanto dolore vedendolo muto!…». Elisabetta piange. «Quando scrive, perché non mi può più parlare, mi pare che monti e mari siano fra me e il mio Zaccaria. Dopo tanti anni di dolci parole, ora sempre silenzio dalla sua bocca. E ora, in specie, in cui sarebbe così bello parlare di quello che ha da venire. Mi trattengo persino dal parlare per non vedere lui che si affatica a gesti a rispondermi. Ho tanto pianto! Quanto ti ho desiderata! Il paese guarda, chiacchiera e critica. Il mondo è così. E quando si ha un dolore o una gioia, si ha bisogno di chi capisce, non di chi critica. Ora mi pare che la vita sia tutta migliore. Sento la gioia in me da quando tu sei con me. Sento che la mia prova sta per esser superata e che presto sarò del tutto felice. Sarà così, non è vero? Io mi rassegno a tutto. Ma se Dio perdonasse al mio sposo! Poterlo sentire pregare da capo!».

   22.5Maria l’accarezza e conforta e la invita, per distrarla, ad uscire un poco nel giardino assolato.
Vanno sotto una pergola ben curata sino ad una torretta rustica, nei cui buchi nidificano i colombi.
Maria sparge il becchime ridendo, perché i colombi le si precipitano addosso con un gran tubare e uno svolazzio che le fa cerchi di iridescenze intorno. Sul capo, sulle spalle, sulle braccia e le mani le si posano, allungando i becchi rosei per carpirle i granelli dall’incavo delle mani, becchettando con grazia le rosee labbra della Vergine e i denti che le brillano al sole. Maria attinge da un sacchetto il grano biondo e ride in mezzo a quella giostra di avidità invadente.
   «Come ti vogliono bene!», dice Elisabetta. «Sono pochi gi   orni che sei con noi e ti amano più di quanto non amino me, che li ho sempre curati».
   La passeggiata prosegue sino ad un recinto chiuso, in fondo al frutteto, dove sono una ventina di caprette coi loro caprettini.
   «Sei tornato dal pascolo?», chiede Maria ad un piccolo pastore che accarezza.
   «Sì, perché mio padre mi ha detto: “Va’ a casa, ché fra poco piove e vi sono pecore prossime a figliare. Fa’ che abbiano erba asciutta e lettiera pronta”. Egli è là che viene». E accenna oltre il bosco, da cui viene un belìo tremulo.
   Maria accarezza un caprettino biondo come un bambino, che le si strofina contro, e insieme a Elisabetta beve del latte appena munto che il pastorello le offre.
   Giungono le pecore con un pastore irsuto come un orso. Ma deve essere un buon uomo, perché porta sulle spalle una pecora che si lamenta. La posa piano e spiega: «Sta per avere l’agnello. Non poteva più camminare che a fatica. Me la sono caricata addosso. Ho fatto tutta una corsa per fare a tempo». La pecora, zoppicante per i dolori, viene condotta nell’ovile dal bambino.
Maria si è seduta su un sasso e scherza coi caprettini e gli agnelli, offrendo fiori di trifoglio ai loro musetti rosei. Un caprettino bianco e nero le mette le zampette su una spalla e le fiuta i capelli. «Non è pane», ride Maria. «Domani te ne porto una crosta. Sta’ buono, ora».
   Anche Elisabetta, rasserenata, ride.

   22.6Vedo Maria che fila svelta svelta sotto la pergola, dove l’uva aumenta il suo volume. Deve essere passato del tempo, perché già le mele cominciano ad arrossire sulle piante e le api ronzano presso i fiori del fico già maturi.
   Elisabetta è tutt’affatto grossa e cammina pesantemente. Maria la guarda con attenzione e amore. Anche Maria, quando si alza per raccogliere il fuso che le è caduto lontano, appare più rotonda nei fianchi, e l’espressione del volto è mutata. Più matura. Prima era una bambina, ora è la donna.
   Le donne entrano in casa, perché la sera cala e nella stanza vengono accese le lampade. In attesa della cena, Maria tesse.
   «Ma non ti stanca proprio?», chiede Elisabetta accennando il telaio.
   «No. Siine sicura».
   «A me questo caldo mi spossa. Non ho più sofferto, ma ora il peso è forte per le mie vecchie reni».
   «Fàtti coraggio. Presto sarai liberata. Come sarai felice, allora!

   22.7Io non vedo l’ora di esser madre. Il mio Bambino! Il mio Gesù! Come sarà?».
   «Bello come te, Maria».
   «Oh, no! Più bello! Egli è Dio. Io sono la sua serva. Ma dicevo: sarà biondo o sarà bruno? Avrà gli occhi come il cielo sereno o come quelli dei cervi delle montagne? Io me lo figuro più bello d’un cherubino, coi capelli ricci e color dell’oro, con gli occhi del color del nostro mare di Galilea quando le stelle cominciano ad affacciarsi al confine del cielo, una bocchina piccina e rossa come il taglio di una melagrana che appena crepa per maturar di sole, e per gote, ecco, un roseo come questo di questa pallida rosa, e due manine che starebbero nel cavo di un giglio tanto sono piccine e belle, e due piedini da starmi nel cavo della mano, e morbidi e lisci più di petalo di fiore. Vedi. Io presto all’idea che mi son fatta di Lui tutte le bellezze che mi suggerisce la terra. E sento la sua voce. Sarà, nel pianto — perché un poco piangerà per fame o sonno il mio Bambino, e sarà sempre un gran dolore per la sua Mamma, che non potrà, oh! non potrà sentirlo piangere senza averne il cuore trapassato — sarà, nel pianto, come quel belato, che ora viene, di agnellino di poche ore, che cerca la mammella e il caldo del vello materno per dormire. Sarà, nel riso che mi empirà di cielo il cuore innamorato della mia Creatura — posso esser innamorata di Lui, perché è il mio Dio ed amarlo da amante non è contravvenire alla mia consacrata verginità — sarà, nel riso, come questo festoso tubare di colombino, felice per esser sazio e contento sul tepido nido. Lo penso ai suoi primi passi… un uccellino saltellante su un prato fiorito. Il prato sarà il cuore della sua Mamma, che starà sotto ai suoi piedini di rosa con tutto il suo amore per non fargli incontrare nulla che gli dia dolore. Come lo amerò, il mio Bambino! Il Figlio mio!

   22.8Anche Giuseppe lo amerà!».
   «Ma dovrai pur dirglielo a Giuseppe!».
   Maria si oscura e sospira. «Dovrò pur dirglielo… Avrei voluto glielo avesse a dire il Cielo, perché è molto difficile a dirsi».
   «Vuoi che glielo dica io? Lo facciamo venire per la circoncisione di Giovanni…».
   «No. Ho rimesso a Dio l’incarico di istruirlo sulla sua sorte felice di nutrizio del Figlio di Dio, ed Egli lo farà. Lo Spirito mi ha detto, quella sera: “Taci. Affida a Me il compito di giustificarti”. E lo farà. Dio non mente mai. È una grande prova. Ma con l’aiuto dell’Eterno sarà superata. Dalla mia bocca nessuno, fuorché te a cui lo Spirito l’ha rivelato, deve sapere quanto la benignità del Signore ha fatto alla sua serva».
   «Ho sempre taciuto anche con Zaccaria, che ne avrebbe giubilato. Egli ti crede madre secondo natura».
«Lo so. E così volli per prudenza. I segreti di Dio sono santi. L’angelo del Signore non aveva rivelato a Zaccaria la mia maternità divina. Avrebbe potuto farlo, se Dio l’avesse voluto, perché Dio sapeva che già era imminente il tempo dell’Incarnazione del suo Verbo in me. Ma Dio ha tenuto nascosta questa luce di gioia a Zaccaria, che respingeva come impossibile cosa la vostra figliolanza tardiva. Mi sono uniformata al volere di Dio. E, lo vedi. Tu hai sentito il segreto vivente in me. Egli nulla ha avvertito. Finché non cadrà il diaframma della sua incredulità davanti alla potenza di Dio, egli sarà separato dalle luci soprannaturali».
Elisabetta sospira e tace.

   22.9Entra Zaccaria. Offre dei rotoli a Maria. È l’ora della preghiera prima di cena. È Maria che prega ad alta voce al posto di Zaccaria. Poi si siedono a mensa.
   «Quando non ci sarai più, come rimpiangeremo di non avere più chi prega per noi», dice Elisabetta guardando il suo muto.
   «Tu pregherai, allora, Zaccaria», dice Maria.
   Egli scuote il capo e scrive: «Non potrò mai più pregare per gli altri. Ne sono divenuto indegno da quando ho dubitato di Dio».
   «Zaccaria, tu pregherai. Dio perdona».
   Il vecchio si asciuga una lacrima e sospira.
   Dopo la cena Maria torna al telaio. «Basta!», dice Elisabetta. «Ti stanchi troppo».
   «Il tempo è prossimo, Elisabetta. Voglio fare al tuo bambino un corredo degno di colui che precede il Re della stirpe di Davide».
   Zaccaria scrive: «Da chi nascerà Egli? E dove?».
   Maria risponde: «Dove i Profeti hanno detto e da chi l’Eterno sceglierà. Tutto ben fatto ciò che il nostro Signore altissimo fa».
   Zaccaria scrive: «A Betlem dunque! In Giudea. L’andremo a venerare, donna. Verrai anche tu con Giuseppe a Betlem».
   E Maria, curvando il capo sul suo telaio: «Verrò».
   La visione cessa così.


   22.10
Dice Maria:
   «La prima delle carità di prossimo va esercitata verso il prossimo. Non ti paia un giuoco di parole. La carità si ha verso Dio e verso il prossimo. Nella carità verso il prossimo[58] è compresa anche quella che va a noi. Ma se ci amiamo più degli altri, non siamo più caritatevoli. Siamo egoisti. Anche nelle cose lecite occorre esser tanto santi da dare sempre la precedenza ai bisogni del prossimo nostro. State sicuri, figli, che Dio ai generosi supplisce con mezzi della sua potenza e bontà.

   22.11Questa certezza mi ha spinta a Ebron per sovvenire la parente nel suo stato. E alla mia attenzione di soccorso umano, Dio, dando oltre misura come Egli usa, unisce un impensato dono di soccorso soprannaturale. Io vado per portare aiuto materiale, e Dio santifica la mia retta intenzione col fare, di essa, santificazione del frutto del seno di Elisabetta e, attraverso a questa santificazione, per cui il Battista fu presantificato, annullare la sofferenza fisica della matura figlia d’Eva concepente ad età inusata.
   Elisabetta, donna di fede intrepida e di fiducioso abbandono al volere di Dio, merita di comprendere il mistero chiuso in me. Lo Spirito le parla attraverso il balzare del suo seno. Il Battista ha pronunciato il suo primo discorso di Annunziatore del Verbo attraverso i veli e i diaframmi di vene e di carne, che lo separano e insieme lo uniscono alla sua santa genitrice.
Né io nego, a lei che ne è degna e alla quale la Luce si svela, la mia qualità di Madre del Signore. Negarla sarebbe stato negare a Dio la lode che era giusto dargli, la lode che portavo in me e che, non potendola dire ad alcuno, dicevo alle erbe, ai fiori, alle stelle, al sole, ai canori uccelli e alle pazienti pecore, alle acque canterine e alla luce d’oro che mi baciava scendendo dal cielo. Ma pregare in due è più dolce che dire da sole la nostra preghiera. Avrei voluto che tutto il mondo sapesse la mia sorte, non per me, ma perché a me si unisse per lodare il mio Signore.
La prudenza mi ha vietato di rivelare a Zaccaria la verità. Sarebbe stato andare oltre l’opera di Dio. E se io ero la sua Sposa e Madre, ero sempre la sua Serva e non dovevo, perché Egli mi aveva amata oltre misura, permettermi di sostituirmi a Lui e di superarlo in un decreto.
Elisabetta, nella sua santità, comprende e tace. Perché chi è santo è sempre remissivo e umile.

   22.12Il dono di Dio deve farci sempre più buoni. Più da Lui riceviamo e più dobbiamo dare. Perché più riceviamo e più è segno che Egli è in noi e con noi. E più Egli è in noi e con noi, e più noi dobbiamo sforzarci a raggiungere la sua perfezione.
   Ecco perché io, posponendo il mio lavoro, lavoro per Elisabetta. Non mi lascio prendere dalla paura di non avere tempo. Dio è padrone del tempo. A chi spera in Lui, anche nelle cose usuali, Egli provvede. L’egoismo non affretta, ritarda. La carità non ritarda, affretta. Tenetevelo sempre presente.

   22.13Quanta pace nella casa di Elisabetta! Se non avessi avuto il pensiero di Giuseppe e quello, quello, quello del mio Bambino che era il Redentore del mondo, sarei stata felice. Ma già la Croce gettava la sua ombra sulla mia vita e, come suono funebre, sentivo le voci dei Profeti…
Mi chiamavo Maria. L’amarezza era sempre mescolata alle dolcezze che Dio versava nel mio cuore. Ed è sempre andata aumentando sino alla morte del Figlio mio. Ma quando Dio ci chiama, Maria, ad una sorte di vittime per il suo onore, oh! dolce esser frante come grano nella mola, per fare del nostro dolore il pane che corrobora i deboli e li fa capaci di raggiungere il Cielo!
Ora basta. Sei stanca e beata. Riposa con la mia benedizione».

[57] innalzato da Mosè, come si narra in: Numeri 21, 8-9. La citazione sarà ricorrente nell’opera, a partire forse da 116.9. Altri fatti riguardanti Mosè sono annotati, una volta per tutte, in: 114.6 (prodigi) - 119.4 (i dieci comandamenti) - 212.5 (vitello d’oro, alleanza rinnovata, tavole della legge) - 229.3 (nascita e infanzia) - 295.5 (con Giosuè) - 324.10 (formula di benedizione) - 340.9 (passaggio del mar Rosso) - 354.9 (manna nel deserto) - 354.12 (arca dell’alleanza) - 411.6 (morte) - 436.2 (profeta del Cristo) - 457.2 (acque di Meriba, rifiuto di Edom, morte di Aronne) - 506.3 (manifestazioni divine) - 588.6 (maledizioni) - 625.6 (oppressione degli ebrei in Egitto). Altre citazioni nell’episodio della Trasfigurazione (capitolo 349) e in: 402.6 - 483.9 - 549.8 - 594.6 - 630.5 - 635.7. Le note sulle leggi mosaiche sono richiamate nell’indice tematico, alla fine del volume, sotto le voci “Feste ebraiche” e “Legge”.
[58] Nella carità verso il prossimo, invece di Nella carità che non va a Dio, è correzione di MV su una copia dattiloscritta.