MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MINORE

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AUTOBIOGRAFIA CAPITOLO 18


Senza Titolo

"Quando1 sarò innalzato trarrò tutti a me"
 (Giovanni 12, 32)  

   
   Sempre più sofferente, andai avanti. Credevo che presto tutto sarebbe stato consumato. Impazienza umana, come sei stolta rispetto alla calma divina dell'Eterno!
   La terza conferenza fu, come l'anno avanti, sulla «Lotta antitubercolare». Cioè no: la terza fu su Suor Benigna Consolata Ferrero e la quarta sulla giornata antitubercolare abbinata alla giornata dell'Università cattolica, le cui giornate si seguirono a poca distanza. Poi gli esami di gara, riusciti ottimamente.
   Le socie mi amavano moltissimo. Ero una «mamma» per loro più che una maestra. Non avevano nessun segreto con me.
   Già anche se l'avessero avuto non sarebbe servito. Un dono di Dio mi rendeva conscia di ogni novità e perciò chiamavo a me la figlietta e le dicevo: «Che hai che ti turba?». Vedendosi scoperta e credendo che io sapessi tutto per forza soprannaturale, essa parlava. Ma io non sapevo tutto. Capivo solo, sulle generali, se costei era addolorata, o inquieta, oppure tentata. E basta. La loro confidenza però mi dava modo di curare le loro anime, di guidarle e confortarle.
   Benedico Iddio di aver permesso che il prossimo mi abbeverasse con tutti i dolori. Così posso capire i dolori degli altri, compatirli, confortarli.
   Capire i cuori. Che arte difficile! Non si impara a nessuna scuola umana. Solo la luce che viene da sorgenti non umane, e che è aiutata nel dar frutto da molto spirito meditativo e da bontà di cuore, può insegnare questa scienza che è di tanto conforto.
   Esser capiti in un'ora penosa vuole spesso dire essere salvati. Salvati da brutte sorprese, salvati da pericolose cadute, salvati infine da disperazioni che stroncano l'anima se pur non l'uccidono. In tutte le età occorre esser capiti, ma specialmente in quell'età delicata che va dall'adolescenza alle soglie della maturità. È allora che i cuori sono più facili alle seduzioni, alle chimere, alle tempeste. Come teneri alberelli, che si avviano al primo fiorire, sono facili ad esser divelti da una mano brutale, spezzati da un colpo troppo forte, bruciati da un calore troppo ardente, marciti da uno stagnare di troppe acque morte, spogliati da un vento troppo turbinoso che li torce nel suo gorgo di bufera. Vanno virilizzati i cuori nel loro primo fiorire, vanno istruiti in ciò che li può ledere, vanno sorretti se troppo deboli onde non pieghino, vanno potati se, troppo esuberanti di fronde (e di affetti), si espandono troppo in una prodigalità che li esaurisce prima del frutto, vanno fertilizzati se troppo aridi, mondati se già invasi da parassiti, e soprattutto amati, amati, amati.
   Un cuore che si sente amato parla. E parlando dà modo, a chi lo ama ed è più esperto di lui, di guidarlo. Occorrerebbe sempre avere un cuore di padre o di madre per coloro che sono più giovani di noi, e certe volte occorre averlo anche per coloro che sono più vecchi, perché gli animi non hanno età. Sono eterni come Dio, e c'è sempre bisogno di tenerezza, di consiglio, di conforto a tutte le età della vita.
   Nella realtà ben pochi sono i cuori che sanno amare e, amando, capire. Rarissimi poi quelli che, essendo ormai anziani, sanno ricordarsi che furono giovani anche loro. «Ai nostri tempi questo non si faceva, ai nostri tempi nessuno faceva quest'altro», ecco la frase sprezzante che è sempre sulla bocca degli adulti verso i più giovani. Bugie! Non entro nelle grandi colpe, ché ci sono anche esse sempre state: prova ne siano gli Ospedali degli Innocenti e le Ruote ecc. ecc. in uso fin dal Medioevo, come ne fanno fede l'episodio di Francesca da Rimini, di tutte le favorite dei re, di tutte le… ninfe Egerie dei poeti e dei capi di Stato, tanto per citare cose conosciute anche dai polli. Ma entro nelle cose meno gravi: amori fatti di nascosto da papà e mammà, amicizie e letture che turbano, fatte pure di contrabbando, leggerezze di tinture, ricciolini ecc. ecc. Per carità! Io credo che da Eva in poi, in tutti i continenti e su tutti i meridiani e i paralleli del globo, si trovano.
   E allora perché tuonare come tanti Savonarola contro le generazioni d'oggi, quando anche ieri le care mammine e l'altro ieri le più care nonnine conobbero e corrisposero col caro babbino e col caro nonnino, allora baldi giovincelli, mediante… un telefono e un telegrafo senza fili a base di occhiate e di fiammiferi accesi e spenti secondo un linguaggio convenzionale, o invio di bigliettini mediante la compiacenza di un filo sottile che, nelle vie poco illuminate di solo 40 anni fa, faceva da postino galeotto? E allora perché fare i quaresimalisti per la permanente, per il rossetto se, ai loro tempi, si tenevano sulla testa tutta una architettura di posticci e si infarinavano di cipria come pesciolini pronti per la frittura? Allora andava di moda il pallore delle eroine del romanticismo; ora piace apparire come mulatte o pellirosse. Beh! È cambiata la tinta, ma il trucco c'è ora come c'era allora.
   Invece di tuonare e di predicare dicendo solenni bugie e ottenendo lo scopo che le figlie fanno doppi sotterfugi e invece del bigliettino di contrabbando ricevano addirittura il giovane di contrabbando, con serio pericolo di conseguenze, o vanno a dipingersi fuori di casa, chissà dove, cerchiamo di farle riflettere queste figlioline. Facciamoci amiche delle nostre creature prima che madri rivestite dell'autorità materna, facciamoci prima sorelle che maestre delle nostre socie più giovani e apriamo il cuore nostro perché esse aprano il cuore loro. Così bello questo sapere che la mamma e che la maestra capisce! Così dolce vedere che le nostre figlioline di carne o di spirito hanno fiducia in noi e non ci celano nulla, e nei loro sogni cercano il nostro cuore per deporre il sogno che le fa palpitare, e nei loro dolori il nostro cuore per piangervi sopra! Quanto si ottiene di più così, con questa compassione che sa dirigere senza ferire! 
   Tuttora, e sono undici anni che sono reclusa, tuttora esse, le mie figliette, vengono a me, nella felicità o nel dolore, per dirmi i loro palpiti di innamorate, le loro estasi di spose, la loro beatitudine di madri. I loro fiori di carne me li portano tutti, alle prime uscite che fanno, e vogliono che io baci i loro tesori, insegnano loro il mio nome come fosse quello di una nonnina che li ama. Tuttora vengono o scrivono, se una malattia le colpisce, se una sventura le afferra, se un lutto le orba di un essere caro. È dolce piangere con me che le capisco sempre!… Dopo vanno via più quiete, più serene, o, se lontane, si sentono più serene e fiduciose… Io resto col loro dolore nel cuore e con la mia stanchezza di malata… Ma l'anima canta perché sa che vi è un cuore meno desolato di prima!
   Qualche volta le confesso che manderei tutte a farsi benedire. Sono materialmente così stanca, sfinita, dolorante!… Ma penso che Gesù era stanco tante volte, eppure non rimandava mai nessuno. Sulla croce, nell'agonia, seppe ancora confortare il ladrone alla speranza, sua Madre, l'Apostolo e le donne fedeli…
   Le dirigenti anche, meno la Presidente, erano tutte con me. La Presidente aveva tentato, sempre aiutata dalla Presidente Diocesana, di passarmi alle Donne Cattoliche, perché avevo passato i 30 anni. Ma ci fu una levata di scudi delle socie: «O dentro io o fuori anche la Presidente che aveva anche lei 33 anni». E restai io. Ci voleva dell'eroismo a restare! Ero sempre più malata. E perciò più sensibile alle ingiustizie che mi venivano fatte.
   Quando ancora fruivo delle spirituali parole di Gesù, ad una mia preghiera in cui lo supplicavo di spezzarmi col suo Amore per aprirmi la via dei Cieli, Egli mi aveva risposto che io dovevo spezzare il mio io, frantumando ogni mio amor proprio, ogni mio diletto umano chiuso nel mio cuore col maglio di un amore perfetto, perché non appoggiato da alcun conforto soprannaturale. Allora sarei stata pronta per il Cielo.
   Ora potevo dire di avere toccato quel punto. Il mio amor proprio era calpestato da tutti, da me più di tutti che per amore di Dio e del prossimo m'ero fatta simile ad uva nel tino che il vendemmiatore pigia e spreme sotto i piedi. Nessun conforto veniva dal Cielo e nessuno dalle creature. Solo beffe, satire, rimproveri, tradimenti, e fatiche neppure notate o notate per trarne motivo di nuove beffe. Pregassi o non pregassi, parlassi o tacessi, fossi immobile o in moto, ero sempre in fallo, secondo la maggioranza. Solo le anime che avevo portate a Dio mi restavano grate e fedeli, il che mi fa pensare a quanto si legge nel Vangelo circa la fede e la riconoscenza nel Cristo di coloro che erano Gentili…
   Venne l'estate. Ormai era proprio faticoso camminare sola… Mi ricorderò sempre il 2 agosto 1932. Che pena andare a S. Antonio per il Perdono d'Assisi! Tornai a casa a braccio della mamma di Marta2. Lei già sfiorata dall'apoplessia, io spezzata dal mal di cuore, eravamo una magnifica coppia. Andavamo barcollando… devono averci prese per due ebbre. Appena a casa mi sentii male. Ma ormai mi sentivo male quasi ogni giorno.
   Si riaperse l'Associazione. Ripresi il mio ufficio di «Voce». Solo l'amore di Dio mi poteva dare forza di continuare.
   La mamma di Marta mi dette la «Vita» della Galgani3, sua concittadina, la grande «Vita» scritta dal passionista Padre Germano di S. Stanislao. Voleva parlassi di Gemma in una conferenza. Glielo promisi. Confesso che non avevo per la Galgani nessuna attrattiva. Mi pareva, per quel poco che ne sapevo, una esaltata, una nata in epoca non sua, in arretrato di qualche secolo dal momento buono per nascere. Dicevo sempre: «Ora la santità è diversa! Queste sono cose da medioevo». Ma letta quella vita mi ricredetti. Maria della Croce poteva capire la Gemma di Gesù, e la piccola violetta di Gesù, la violetta che moriva di nostalgia del Sole eterno, poteva unire il suo lieve profumo e la sua testolina velata di penitenza al profumo mistico e alla stellare corolla, che gli emblemi della Passione decorano, della Passiflora di Cristo.
   Ma prima dovevo parlare di S. Giovanna d'Arco. Patrona di Gioventù femminile, era giusto ne parlassi. Fra l'altro era desiderato dalle mie compagne. Perciò la misi in testa all'elenco delle conferenze da tenere.
   Quell'anno avevo pensato di parlare di Gemma, della Pulzella d'Orléans, delle Beate e Venerabili di Casa Savoia, e di alternare queste conferenze ad altre sulla buona stampa, nelle quali mi prefiggevo di illustrare un dato autore del quale poi avrei sorteggiato fra i presenti tre libri. Comperati naturalmente da me, a prezzo di fabbrica, mediante i buoni uffici di una cara signorina, ex atea e convertita dalle mie parole. Ho detto atea; no: anticattolica. È più giusto.
   Ma parlare di Giovanna d'Arco mi faceva paura. Perché? Perché sentivo che quando avessi parlato di lei mi sarebbe accaduto qualcosa di irreparabile. Perciò era tre anni che rimandavo la conferenza. Perché questa idea? Mah! Uno dei tanti avvertimenti che la mia psiche riceveva da altri mondi. Volli sfidare quell'avvertimento e mi misi a preparare la conferenza. Dopo avrei parlato di Gemma.
   Il 21 novembre, in tre ore, morì la mamma di Marta. Non fece a tempo a sentirmi parlare di Gemma… e andò in cielo, poiché era veramente una donna giusta, a sentire le lodi del Serafino di Lucca cantate dagli angeli belli. Ne ebbi un grande dolore. La mamma di Marta mi voleva un bene di vera amica: materno, fraterno, santo.
   Amo tanto Marta perché è figlia di tal madre… L'amo ancor più per questo che per le sue doti proprie, perché continuo ad amare in lei l'anima di una santa tornata a Dio ma non dimentica di me. Ne sono certa.
  

   Apro una parentesi per rispondere alla sua lettera che… mi ha fatto restare sbalordita per più motivi.
   Glielo dirò domani a voce, ma fin da ora le chiedo: «Perché? Perché quella sorpresa? Ah! non mi vizi, Padre, ché dopo mi spiace troppo a morire!…». Ma senza scherzi. Grazie e poi grazie ancora. La mia mano dice grazie e la mia bocca dice lo stesso. L'anima le dirà il miglior grazie con la preghiera. E questo per il dono.
   Poi un altro «grazie» per capirmi così bene nel morale e nello spirituale. E mentre Lei è ancora intento nella sua pietosa missione di consolare noi infermi, io, per dimostrarle quanto le sono grata del suo studio paziente e buono dell'anima mia, tenterò rispondere alle sue domande.
   I predicatori ci vogliono e che siano in piena efficienza fisica, altrimenti addio predicazione del Vangelo! Ma i predicatori vanno sorretti dai penitenti. Una radio non ha voce se l'elettricità non l'accende. I penitenti, le anime olocauste sono… la spina che innesta la corrente di Dio nell'anima del suo banditore e di chi lo ascolta. Brutto paragone, ma vero.
   In particolare poi penso che, quando un ministro di Dio consuma sé stesso, ora per ora, nell'esercizio del suo ministero, senza impazienze, senza stanchezze, senza ripugnanze, senza paure, senza troppa cura del suo corpo, ma con fedeltà a tutte le esigenze del suo lavoro sacerdotale, ma con ilare volontà di fare, ma con carità accesa che sa stringere al cuore il grande peccatore come sa stringere l'anima pura, poiché in tutte egli vede Iddio, egli è già un'anima-ostia. Dio si incarica Lui stesso di propinargli, ora per ora, il sacrificio, e perciò basta così.
   Noi poi, noi, le… fannullone che non siamo altro che capaci di soffrire e pregare, mettiamo tutto il resto per compiere giornalmente quella tale misura di sacrificio che deve essere versata nella banca dei cieli e che si muta, con largo interesse, in aiuto ai lavoratori della vigna di Cristo. Noi siamo le Marie4 e voi, anime sacerdotali, siete le Marte di Gesù. Il quale, è vero, ha detto che la parte migliore era quella scelta dall'adorante Maria, ma era anche ben grato a Marta, l'operosa e pratica donna di casa che provvedeva ai bisogni della sua Umanità.
   Il sacerdote, poi, salendo ogni mattina i gradini dell'altare per celebrare il Sacrificio, è Marta e Maria insieme, poiché adora e poiché opera.
   Riguardo alle letture da me fatte e che, qualunque esse fossero, hanno sempre portato luci di bene in me, io reputo che più ancora che il mio buono spirito, che si proietta su tutto, rendendo buono il meno buono, sia lo stesso Gesù che impedisce che qualcosa di male entri in me. In che maniera? Oh! semplicissimo! Riempie tutto di Sé fino all'orlo e basta.
   Se Lei, Padre, empie un bicchiere fino all'orlo e poi tenta aggiungere pianino pianino dell'altro, il superfluo trabocca. Non è forse vero? Gesù ha empito fino all'orlo la coppa del mio cuore. Ogni altra cosa non può entrare, si posa sopra un istante e scivola via. Scivola via spesso purificata dal contatto avuto col mio Gesù. Nessun merito da parte mia. Io sono talmente affascinata da Gesù che vedo scritto «Gesù» anche ove è scritto «demonio», che sento parlare Gesù anche dove parla Lucifero, che vedo Gesù su tutte, tutte, tutte le cose.
   L'amore di Mario, che d'altronde credo defunto da anni — le dirò poi perché lo credo — è spoglio di ogni desiderio e rimpianto umano. Amo l'anima sua, che credo avere ricomprata col mio dolore. E più bel dono non potevo fare a questa creatura che ho amato. Non le pare?
   Ed ora alla spiegazione della frase che l'ha colpita: «Sono giunta a capire che gli unici, veri dolori di un cuore, sono quelli che vengono da Dio per nostra prova o per nostra punizione».
   Rispondo ad ogni sua domanda.
   «Come fa a capire che un dolore viene direttamente da Dio?».
   Risposta: Per quello che ne prova l'anima, perché quando un dolore viene direttamente da Dio si contraddistingue sempre dai dolori che vengono da qualsiasi altra fonte.
   Prima di tutto, il dolore che viene da Dio, per quanto possa esser aspro e mordente, non è mai scompagnato dalla pace. Questo è il segno che non manca mai. Anche se talora pare che non ci sia, c'è. Non appena l'anima si guarda nel profondo, e questo avviene sempre, magari per un attimo, ma che è sufficiente, vede che nel suo soffrire c'è una grande pace. Pace non vuol dire rassegnazione. No. Vuol dire molto di più. Vuol dire beatitudine. E il dolore che viene da Dio è sempre accompagnato da beatitudine superspirituale.
   Ecco una delle parole che vengono a formarsi spontanee sulle nostre incerte labbra per parlare dell'indescrivibile. Superspirituale per me, che questa parola creo, vuol dire: una beatitudine nella parte spirituale dello spirito. Non è un giuoco di parole. È una realtà. Porto un paragone. La chiesa è un fabbricato eretto per il culto di Dio. Nella chiesa vi sono poi le cappelle, nelle cappelle gli altari, negli altari il tabernacolo, nel tabernacolo la pisside con Gesù-Eucaristia. Se io entro in chiesa non tocco Ge­sù-Eucaristia, ma se io salgo un altare, apro un tabernacolo, scopro un ciborio, posso dire di toccare Gesù.
   Nel corpo c'è l'anima, nell'anima lo spirito. Vi è la pace del­l'a­ni­­ma e questa può esserci in ogni dolore sopportato con rassegnazione, e vi è la pace che regna sullo spirito: ossia la superpace. E questa vi è sempre quando il dolore viene da Dio per elevare a un grado più alto il nostro spirito, purificandolo dalle ombre o fortificandolo dalle debolezze che ancora lo avviliscono.
   «In che consiste il dolore-prova?».
   Risposta: Da un crescere di amore solo da parte nostra mentre Dio pare ritirare il suo lasciandoci sole. Noi si chiama e Lui non risponde. Noi si chiede ed Egli non mostra di udire la richiesta, anzi spesso ci umilia levandoci proprio quello che più ci è caro di avere e che credevamo di avere già ottenuto. A dirlo sembra niente, ma a subirlo è molto doloroso. Le ho già descritto, nel quaderno che le ho dato oggi, cosa voglia dire soffrire da soli, senza Dio che ci sorride e risponde ai nostri gemiti…
   Il dolore-punizione, poi, lo si capisce subito perché la coscienza ci avverte di averlo meritato. Oh! io lo sento subito! Anche prima che arrivi, la coscienza mi dice: «Hai sbagliato. Ora, se Dio ti punisce, sii pronta a chinare il capo sotto la sferza che ti colpisce e digli grazie, perché te lo sei meritato e perché, scontandolo subito, non hai da scontarlo nell'al di là».
   Ma ripeto: sia che sia una prova o una punizione, la pace resta. Lei non sentirà mai dire che un santo, per prove tremende che possa aver subite — parlo di prove spirituali — perse la speranza. Ove è speranza è pace, ove è pace è Dio.
   «Come fa a capire che un dolore ha natura di castigo?».
   Risposta: Per la voce della coscienza che, come le ho detto, ci ha già avvertito di non avere agito bene, e poi perché, man mano che lo subiamo, sentiamo farsi l'anima più lucida e leggera, per cui si capisce che quella stretta che ci ha fatto soffrire, ci è stata espiazione e lavacro.
   «Lei mi parla dell'abbandono di Dio che costituisce la pena più grande. Ciò è vero; ma quest'assenza di Dio può anche essere prodotta da un'inerzia colpevole per parte della creatura. Trova lei in sé luce sufficiente per dire che talvolta il vuoto si è prodotto per parte di Dio soltanto, sia pure per i suoi fini misericordiosi?».
   Risposta: Quando un'anima è nell'inerzia colpevole non si accorge per niente se Dio c'è o non c'è. È un'anima inebetita, abulica, che vegeta senza riflettere e percepire. Il peccato, o anche solo la tiepidezza, la ottundono al punto che in lei è spenta la facoltà di percepire, il bisogno di vedere, il desiderio di nutrire sé stessa con il cibo soprannaturale. Dio allora punisce perché è giusto che punisca ed è pietosoche punisca, perché talora l'anima, sotto il colpo, si scuote e rientra in sé.
   Ma di queste anime non mi occupo ora. Parlo di quelle più o meno sveglie le quali cercano di operare, secondo la loro capacità, per il buon Dio. Magari potrebbero fare di più, se ci mettessero proprio tutto il loro impegno, ma proprio inerti non sono. Perciò sono anime in cui non v'è assenza di Dio per causa loro ma per volontà di Dio, il quale, come ho detto sopra, ricorre a quest'arma potente, o per richiamare l'anima ad una più esatta esecuzione del suo dovere filiale, o per migliorarla, attraverso la prova penosa, e allenarla a sempre più alti voli. E l'anima, che sente la giustizia di questo dolore che Dio le infligge, ha nel dolore la sua gioia e la sua pace.
   Il dolore invece che viene dagli umani, o peggio dagli inferi, è sempre ingiusto e, più o meno, ci turba. Ma però è un dolore che non tocca il vertice della potenza dolorifica, ossia non trafigge lo spirito nel suo culmine più alto e nella parte più viva. Ci farà gridare, piangere, imprecare anche, ci farà impazzire delle volte e delle volte morire. Ma moriremo per malattie della carne, ma impazziremo per sconvolgimento mentale, ma imprecheremo per convulsione morale, ma urleremo e singhiozzeremo per debolezza generale.
   Mentre il dolore che viene da Dio e ci trapassa lo spirito non ci fa uscire in nessuna escandescenza: ci sublima in una pace, in una serietà, in una carità più alta. Soffriamo intensamente, intensissimamente. È una fame insaziabile che cresce d'ora in ora e che nulla può saziare. Tutti i cibi possiamo allora dare al nostro spirito per tentare di calmare il suo languore che lo svuota, ma né opere di misericordia, né sacramenti, né preghiere, né letture spirituali sono atti a colmare il suo desiderio. È Dio, Dio che si vuole, Lui solo. E Lui si tiene sempre nascosto, si ritira sempre più in alto mentre noi, con le braccia alzate del desiderio, agonizziamo di amore invocando Lui… Quante parole occorre scrivere per dire quello che proviamo ad ogni battito di cuore!
   «Quale è la sua condotta durante queste ore di tenebre in riguardo a Dio e in riguardo al prossimo?».
   Risposta: Più Dio si ritira e più io lo amo con tutta me stessa, in spirito di umiltà, di pazienza e di sommissione, riconoscendo che me lo merito, facendo atti continui di fede perché so, anche se non lo sento, che Lui è lo stesso vicino a me e glielo dico; atti di speranza, perché spero che per sua bontà abbrevi la prova e per questa prova io meriti un bene più alto; di carità, perché per sollecitarlo a tornare gli dico che lo amo a qualunque costo e lo amerei anche se Egli non si curasse più di me; di contrizione, perché riconosco di avere peccato e meritato il suo castigo. Verso il prossimo poi uso di questa mia prova offrendo a Dio il mio dolore perché altre anime, che non lo cercano o lo cercano male, siano portate alla ricerca fervente di Dio. Così la mia ora di tenebre diviene ora di luce.
   «Si sente lei inquieta e spinta a manifestare all'esterno la sua inquietudine?».
   Risposta: No. Io mi inquieto, perché sono un essere di carne oltre che di anima, per le cose che possono urtare la carne. Ma per questemai. Ho detto e ripeto che il dolore che viene da Dio è acutissimo, è l'unico che realmente sia Dolore puro, semplice, perfetto come Dio, ma è sempre unito alla Pace. Dove è pace non è inquietudine. Non forzo mai Dio a mostrarsi con le mie bizze. Lo supplico di concedermi da capo di vedere il suo Volto che è la gioia del nostro spirito. Ma poi attendo paziente quel momento beato.
   Vede: oggi, per esempio, io sono priva della unione sensibile con Dio. I giorni passati era un continuo scoccare di scintille fra i due poli di Dio e dell'anima. Qualcosa di ineffabile. Oggi solo la mia anima getta scintille verso il suo Signore. E perciò sono desolata. Ma mi capisca: desolata come una madre o una figlia che vide partire il suo figlio o il suo babbo. Si rimane con una gran voglia di piangere e si vorrebbe che il tempo volasse per abbreviare la separazione perché si sa che il figlio, si sa che il babbo non se ne è andato per sempre, ma per un tempo relativo e per nostro bene, per tutelare i nostri interessi. Si è melanconici ma più amorosi ancora di prima, perché la sua lontananza sappiamo che è una prova novella di affetto per noi.
   Oggi amo sola… e che perciò? Sono desolata, ma non inquieta. Una santa certezza mi dice che, quando meno me l'aspetterò, Dio tornerà; tornerà tanto più presto quanto più io sarò stata amorosa e paziente. E che torrente di gioia allora si riverserà nel mio spirito!!!
   «In riguardo a Dio continua lei in tutto come se Egli fosse presente?».
   Risposta: Ma certo! Anzi filo ancora più dritta, perché la sua scomparsa mi serve di redine e mi rimette sul mezzo della via, se mi ero deviata a fiutare dei fiori lungo le prode, o al trotto, se mi ero impuntata a considerare qualche quisquilia lungo il cammino. Sono sicura che se filo dritta e veloce, guardando solo la meta che ora per ora devo raggiungere, il buon Dio torna più presto a farsi presente.
   «Ha tentazioni sulla fede in questi momenti?».
   Risposta: Ci mancherebbe altro! Una brava figlia, una amorosa sposa deve saper rispettare il padre e il marito sempre e non seccarli con querimonie e domande sciocche quando ad esse sembra che padre e marito non le amino più come prima. Non bisogna mai essere diffidenti ed egoisti nell'amore, perché diffidenza e egoismo uccidono l'amore. E perché io, col mio Padre e Sposo, dovrei essere inferiore ad una buona figlia e ad una buona sposa? Perché perdere la sicurezza, perché accarezzare dubbi sulla fede, solo perché il Signore giudica bene di ritirarsi? Ma se Egli è stanco di parlare con me e di abitare con me e preferisce andare da altre anime più elette della mia, io lo devo lasciare libero di fare, senza mettere su bronci e capricci da bambino caparbio e da moglie nevrotica. Il mio Signore deve poter dire: «Torno da Maria che è così poco seccante. Là ci sto bene perché faccio quello che mi pare».
   «Questi periodi di abbandono sono frequenti, di corta o di lunga durata?».
   Risposta: Frequenti non mi pare. Ma con matematica esattezza non glielo saprei dire, perché la gioia del ritorno è tale che mi annulla ogni ricordo di abbandono. Per cui ogni volta mi pare di esser lasciata per la prima volta tanto è mordente il dolore, e ogni volta mi pare di non averlo mai provato tanto è letificante l'estasi del ritorno di Dio in me. Se poi siano lunghi o corti è male dire. Ogni minuto pare un secolo di separazione… Però credo di averne avuti di durata diversa. Delle volte durano poche ore, delle volte più giorni. Ma poi di colpo cessano e dalla desolazione passo a una gioia sempre maggiore a quella provata prima e a un'unione sempre più stretta, a una visione sempre più netta, sin quasi a divenire reali, sensibili, e non solo intellettuali.
   «Le sembrano intesi a un fine speciale come, per esempio, ottenere una grazia richiesta?».
   Risposta: Credo siano sempre intesi a un fine speciale. Fine voluto da Dio per la sua piccola ostia, alla quale nega il suo Volto per darle in Cielo un più lungo bacio quando tutto per me sarà quaggiù finito ed io mi inabisserò nella luce della Trinità Ss., che ho sempre amata e lodata in terra. Fine voluto da me per qualche grazia richiesta. Se io non soffro non ottengo. La preghiera non basta. E quale sofferenza maggiore a questa? Che sono le torture di tutto un corpo malato rispetto a un'ora sola di separazione, di abbandono di Dio? Sono io stessa che dico a Dio: «Fammi soffrire ma concedimi questo o quello». Non per me, s'intende. Io ho fatto la rinuncia completa a ogni mio desiderio. Solo chiedo la Vita eterna. Per il resto faccia il Signore. Ma per gli altri sono una questuante insistente e mai contenta. E specie quando chiedo per la luce di un'anima abbuiata, allora le tenebre vengono su me. Ma ne sono così contenta d'esser da esse martirizzata!
   «Sono essi (periodi di abbandono) seguiti da un maggior lume sulle cose divine?».
   Risposta: Sempre. Come uno, stato al buio, trova la luce ancor fulgida di un altro rimasto sempre nella luce, così io, dopo la privazione del mio Sole, quando Egli torna a brillare sul mio spirito mi trovo avvolta in un oceano di luce… così sfolgorante che mi dà una celeste vertigine. È come se nella mia carcere venisse aperto l'uscio da una mano pietosa e dallo spiraglio io potessi vedere penetrare un fascio di raggi. Dico spiraglio perché se tutta la luce di Dio precipitasse su me io ne resterei morta… Alla luce di quel raggio io vedo molte cose che prima mi erano oscure e procedo sicura come se il Maestro mi tenesse per mano istruendomi dolcemente.
   Ecco risposto all'interrogatorio. Molto male, perché per farle capire bene dovrei poterla chiudere nel mio cuore per un'ora. Allora vedrebbe come questo povero mio cuore non viva e non muoia altro che per il Padre, per il Figlio e per lo Spirito Santo. E così sempre, in eterno, sia.
  

   Ora andiamo avanti mentre Gesù riposa. Così stanco, così avvilito il Salvatore vedendo la cecità umana che non vuole esser guarita, il marasma spirituale che sempre più si accentua!
   Lei stamane me ne accennava… Deve essere una grande pena per i sacerdoti assistere a questo intisichire degli spiriti distrutti dai microbi dell'indifferenza, dello scetticismo, del godimento illecito, della rivolta…
   Ma se è pena per tutti coloro che ancora sono con Dio, che sarà mai per Gesù? Ah! che veramente stiamo facendo subire una nuova Passione al nostro Salvatore con questo calpestare il suo amore, con questo trascurare anche il suo ricordo!…
   Il volto di Gesù è tristissimo… È veramente il volto di uno triste fino alla morte davanti al crollo delle sue più vive speranze. Certe penose constatazioni danno sempre tanta stanchezza, più di un lavoro faticoso che sia coronato di successo. E Gesù dorme col volto divino e mesto curvato sul braccio piegato. Non ha avuto una parola per me stamane. Ma io non gliel'ho neppure chiesta. Ho messo la mia povertà della sua parola ai suoi piedi come primo fiore per consolarlo un pochino, e offro e soffro per Lui e per le anime, così appesantite da tanta materialità…
   Stamane Lei mi ha chiesto se non ho avuto nessuna rivelazione in merito alla situazione attuale. Mi pare di averle detto, ma non ne sono sicura, che quella premonizione di cui soffro ha diverse fasi.
  La prima, e più confusa, è un sogno in cui vedo le cose sotto speciali figure, diremo così, simboliche. Ad esempio: se vedo cadere uno nell'acqua e l'acqua seppellirlo fino a farlo morire, può essere certo che quell'uno in breve tempo muore. Le ho dato un esempio a caso fra i molti che le potrei dare.
   Secondo: mi sogno le cose come in realtà avvengono. Ma non risento nello svegliarmi quell'avvertimento speciale che mi dice: «Fai attenzione. È un avviso», e perciò dimentico anche il sogno, salvo ricordarmene quando la cosa avviene tale e quale fu sognata.
   Terzo: sogno un lucidissimo sogno e allo svegliarmi ricevo ben netto quell'avviso: «Ricordati di questo».
   Quarto: senza nessun sogno, da sveglia sento, non so dirle come, che sta per succedere qualcosa di penoso o di brutto. Per esempio: avverto se qualcuno mi tradisce o cerca nuocermi o nuocere ad altri.
   Ora, nel caso attuale, io ho avuto, dal 1931 in poi, vivissimo il quarto caso, per cui sapevo che presto delle cose terribili si sarebbero avventate nuocendo sulla povera umanità; pure vivissimo il terzo caso in frangenti speciali, e molto vivo il primo caso.
   Ricordo in questo l'aver visto, sotto forma figurativa, l'occupazione del Belgio, Olanda, Norvegia, e l'entrata della Russia in guerra. Questo per simbolo sotto forma di stormi di aerei neri, tutti neri e dalle forme mostruose, che si dipartivano da un punto: Berlino o Mosca, come stecche di un ventaglio raggiungendo colla punta delle stecche il luogo prefisso. Così:
  

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   Scusi lo scarabocchio, ma sono un asino in disegno e la figura, per quanto mal fatta, mi aiuta a esprimere il concetto.
   Poi, nel novembre 1941, l'avviso che entro un mese i nemici sarebbero stati a Bengasi. Tre giorni dopo ebbe inizio l'offensiva inglese e entro il mese furono a Bengasi.
   Nel marzo del 1942 sempre la stessa voce (in sogno) mi disse: «La linea difensiva non è più a Palermo ma più su perché la Libia è perduta».E purtroppo!…
   Circa il nostro futuro per noi, abitanti metropolitani, ho avuto già due o tre avvisi ma non molto netti. Però potrei dire che mi danno già pensiero perché, se non ho visto esattamente il punto, credo proprio che un punto ci sarà.
   Questo per ora. Prima però che cominciassero i grandi bombardamenti sui civili (di autunno) io li vidi in sogno e lo dissi a Marta.
   Quando non c'era ancora la guerra d'Etiopia, e precisamente la notte del 23-24 maggio 1935, io vidi con una chiarezza meravigliosa l'entrata delle nostre truppe, e propriamente dei carabinieri e zaptiè montati su autocarri, in Addis Abeba, i cui tucul ardevano. Lo dissi in famiglia (prendendomi la solita patente di pazza) e a due amici venuti a trovarmi nel pomeriggio del 24 maggio. Sono tuttora vivi costoro e se lo ricordano. Un anno dopo, il 9 maggio 1936, le nostre truppe, e precisamente carabinieri e zaptiè, entravano vittoriosi su autocarri in Addis Abeba conquistata, che ardeva. Per quel sogno, così evidente e corredato da quel tale segno, io, durante i nove mesi della guerra etiopica, non diffidai mai sull'esito della stessa. Sapevo che si sarebbe vinto e presto.
   Così per la guerra di Spagna, di cui vidi tutte le nefandezze e gli eroismi. Su questa… preferisco parlare a voce.
   Le ho detto questo tanto per farle capire di che si tratta.
   Il primo modo di premonizione era il terrore delle socie e dirigenti colpevoli… Devono avermi avuta in odio anche per questo. Capirà! Entravo in argomento così: «Ragazze, agite bene, avete capito? Agite bene a mio riguardo poiché sappiate che non sono a me ignoti i vostri sotterfugi per nuocermi. Anche in questi giorni state tramandoli. Ma non riuscirete a nulla, fuorché a macchiare la vostra anima…».
    Ripeto però che di questo dono, se può chiamarsi così, ne farei molto volentieri a meno.
  

   E ora continuo con il mio racconto.
   Fissai la conferenza su S. Giovanna d'Arco5 per il 18 dicembre 1932.
   Al mattino in chiesa mi sentii un poco male. Ma poi, con opportune medicine, mi sentii meglio. Anzi ero contenta perché di solito, dopo un attacco di angiospasmo, fruivo di qualche ora di tregua. Come un cielo estivo dopo un temporale si sgombra dalle nubi, così io dopo il mio… temporale stavo col cuore più sgombro di palpiti e di crampi.
   Alle 10 andai alla sede dell'Associazione, dove trovai tutte sossopra perché era arrivata la notizia che il vecchio Parroco era stato creato Monsignore del Duomo di Lucca e perciò avrebbe lasciato la parrocchia. Notizia che non mi dette un dolore speciale perché era attesa e perché voleva dire giusto premio a un lungo lavoro parrocchiale dell'ottimo sacerdote.
   Tornata a casa a mezzogiorno, pranzai come al solito: pochino ma di gusto.
   Alle 15 andai all'Istituto S. Dorotea dove dovevo tenere la conferenza. Alle 15,30 cominciai a parlare.
   Avevo detto poche parole quando si scatenò un così repentino e grave attacco di cuore che fui per morire. Alla prima stretta mi fermai sorridendo come per attendere che alcune signore, in ritardo, che arrivavano allora, potessero prendere posto. Speravo che il cuore si limitasse a quello strizzone che già mi aveva coperta di sudore ghiaccio. Sorridevo… ma il mio viso si alterò subito in maniera tale che la Superiora mi venne vicino chiedendo se mi sentivo male. «Cosa da nulla», risposi. «Ora passa».
   Attesi qualche minuto. In piedi, eroicamente in piedi sentendomi ventilare la morte sul capo. Come Giovanna d'Orléans dicevo: «Sire Iddio primo servito!». Ma Sire Iddio volle essere servito con l'agonia della sua povera serva.
   L'attacco crebbe, crebbe, crebbe e dovetti cedere e mettermi seduta. Ero un cadavere che respirava. Durò due ore… Sa cosa vuol dire due ore di un simile soffrire?… Fui soccorsa, portata all'aria… guardavo la Madonna la cui statua pareva animarsi, vista come la vedevo fra gli sbalzi convulsivi… e guardavo e baciavo il mio Crocifisso…
   Non volli nessun dottore. Mi avrebbe fatto portare all'ospedale… In un simile stato non c'è che l'ospedale, e là non volevo andare pensando a papà e a mamma. Mi raccomandavo a Dio di non farmi morire così, per loro, per lo spavento loro.
   Ma per me… Oh! come sarei partita con gioia! Mi ero comunicata anche quella mattina, era la novena di Natale… Che bello andare a fare il Natale in cielo! Che enorme egoismo sarebbe stato!… dico ora. Altro che bellezza: egoismo. Andare in cielo col Natale senza fare la mia Passione! Prima ci voleva la Croce, una lunga, lunga agonia sulla croce!… e poi sarebbe venuto il Gloria del Paradiso.
   Finalmente alle 17,45 cominciai a stare in modo da potere tornare a casa. E vi tornai, sorretta da due pietose.
   «Ma quanto hai tardato! Fai sempre più tardi. Sono quasi le sei e noi non abbiamo ancora preso nulla». Questo fu il saluto materno. Mamma era in conversazione con una signora molto anziana che veniva quasi ogni giorno a passare il pomeriggio con noi. Era di prammatica alle 17 offrire il the o il caffè o il cioccolato. E, naturalmente, dovevo prepararlo io. Perciò il rimprovero, perché avevo tardato.
   Può pensare con quale fatica stetti al fornello, frullai il cioccolato, lo misi nelle tazze e portai il vassoio. Ero all'estremo delle forze. Mi sedetti senza parlare. Non potevo.
   La signora chiese: «Molta gente?».
   «Tanta». Infatti la sala era piena stipata.
   «È piaciuta la conferenza? Me la legge?».
   «È piaciuta. Ma ora sono molto stanca. Domani la leggerò a lei».
   «Ma che hai che pari una mummia? Hai i nervi?», chiese mamma.
   «Ho che mi sono sentita male, molto male. Guardami che lo vedrai».
   «Infatti», disse la vecchia amica, «ho visto subito che è stravolta, ma non dicevo nulla per non impressionare…». Era tanto buona, povera nonnina!…
   Cosa avrebbe fatto Lei se fosse stato mia mamma? Sono certa mi avrebbe curata, servita, quella sera, amata. Nossignori. Mi finì di stordire coi rimproveri sul mio sotterfugio (il mio tacere con l'intento di dire le cose poco a poco per non spaventarla era per lei sotterfugio) mi tormentò accusando il Circolo di ogni mio male e dandomi della stupida a piene mani perché vi andavo ecc. ecc. Però si guardò bene dal risparmiarmi di lavorare in casa.
   Fatta la loro cena — io di sera non mangiavo mai, neppure allora — rigovernato tutto, andai finalmente a letto. Febbrone notturno, soffocazioni, crampi e una infinita malinconia…
   Sentivo «che le mie voci non mi avevano ingannata», come dice la Pulzella d'Orléans, e che se «la mia missione era da Dio», Giovanna d'Arco, della quale avevo rimandato per due anni la conferenza perché la mia interna voce mi diceva che in quel giorno mi sarebbe accaduto qualcosa di irreparabile, aveva proprio mantenuto l'impegno di essere l'annunciatrice della mia prigionia, del mio supplizio.
   Non più battaglie e vittorie ma solo prigione e dolore. Non più stendardo di Cristo agitato sulle folle ma solo la croce su cui salire. Non più fiamme d'apostolato pubblico ma fiamma di un rogo di sofferenza che da undici anni mi consuma e non m'incenerisce mai. Ora ero completamente Maria della Croce. La santa guerriera, che ha incoronato il pavido Delfino a Reims, incoronava me della corona di spine.
   Quando ci viene levato il nostro amato lavoro nella vigna del Signore si soffre acutamente. La avevo difesa ad ogni costo questa mia libertà di lavoro per il mio Signore. E ora mi veniva da Lui stesso levata… Dopo si capisce quale onore sia questo, quale fiducia, quale amore di Dio per noi. Ma sul primo si soffre molto. È una di quelle ore di Getsemani che sono le prime a viversi nella nostra Passione! Quanto ci costa dire fra il pianto: «Sia fatta la tua volontà!».
   Nella notte di spasimo fisico, morale, spirituale, a fianco di mamma che dormiva beatamente, non avendo neppure la libertà di piangere apertamente, mi rifugiai in Cristo, ed Egli, come già a Caterina senese, mi disse: «Tu domandavi di sostenere e di punire i difetti altrui sopra di te e non ti avvedevi che domandavi amore, lume e conoscimento della verità, perché già ti dissi che quanto era maggiore l'amore tanto cresceva il dolore e la pena, onde a chi cresce l'amore cresce il dolore». E quale maggior crescita d'amore di questa di un Dio che mi dava il suo stesso letto, il suo stesso trono, il suo stesso altare: la croce?
   Questo pensiero, dopo le prime ore di angoscia, mi scese come un balsamo sull'anima e la fece volonterosa di compiere il sacrificio. «Non chiunque mi dice: "Signore, Signore" entrerà nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà del Padre mio», e con una lieve modifica potevano esser dette a me anche le parole6 dette all'apostolo Pietro: «Quando eri più giovane ti cingevi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le mani e un altro ti cingerà e ti condurrà dove non vorrai». Io, ammaestrata e corroborata dal Maestro mio, tendevo le mani a prendere la croce che il Padre mi imponeva e, subitamente invecchiata dall'infermità, divenivo incapace di tante cose e soggetta a tutti per le mie necessità fisiche, morali e spirituali.
   Oh! se si riflettesse come la malattia ci mette disarmati nelle mani di tutti, noi poveri infermi che dobbiamo dipendere sempre dalla buonagrazia altrui!… Bisogni fisici con tutto quanto di avvilente portano seco. Bisogni morali con tutto quanto li correda di solitudine e di malinconia che ben pochi sanno riparare. Bisogni spirituali con tutto quanto hanno di nostalgico per le funzioni che non vedremo mai più, per i Sacramenti che ci vengono dati con tanta avarizia, per la guida che ci viene a mancare, per tante, tante cose, mentre le prove si accumulano e la malattia crea nuove tentazioni e nuove debolezze… Quante cose vi sarebbe da dire sulla infermità! Ma salteranno fuori un po' per volta. Non voglio accelerare i tempi.
   Al mattino provai ad alzarmi alla solita ora. Impossibile! Rimasi a letto fino alle 9 e vi sarei stata ancora, ma mamma mi chiamò perentoriamente perché andassi a comperare il latte che la lattaia non aveva portato. Mi alzai con somma fatica. Il cuore era in condizioni spaventose. La testa mi girava, le gambe mi tremavano, ero tutta rotta come m'avessero flagellata. Scesi al terreno con il respiro grosso e un battere precipitoso in tutte le vene. Ad ogni scalino che facevo mi pareva che il cuore pesantissimo si abbassasse come per staccarsi.
   Uscii di casa tenendomi appoggiata ai muri. Per fortuna la latteria era quattro case più là e non c'era da attraversare la strada. Ero talmente cerea e con le labbra livide che la lattaia mi chiese se stavo male e mi aiutò a tornare a casa. Nel ritorno ci fu subito un'anima… buona che mi disse: «Ora la smetterà, eh? Non si impiccerà più di nulla, vero? Non vede che è finita?». Eh! ne ero più che persuasa! Ora starei zitta, ma allora non stetti zitta e risposi: «Farò quel che mi parrà di fare», e lo dissi tut­t'altro che angelicamente.
   Tornata a casa con l'aiuto della buona lattaia mi riposai un poco… ma c'era da uscire ancora. Mamma non mi dava pace. Presi con me il mio cane pensando che almeno, se cadevo per via, mi avrebbe fatto la guardia. Feci pochi passi da casa mia all'angolo di Via Leonardo da Vinci. Non mi reggevo. Entrai un momento nel negozio di cartoleria che era là, allora. «Si sente male? Come è mutata!». Sempre la stessa domanda! Tutti vedevano che avevo un volto d'agonia, fuorché mia madre. Dopo pochi minuti mi parve stare meglio; uscii dal negozio e mi misi a camminare per via Leonardo. Avrei dovuto andare in Piazza Piave. Barcollavo. Dopo pochi passi ecco da capo il male tremendo del giorno avanti. Un signore e una donna fecero appena a tempo a prendermi prima che mi accasciassi al suolo. Mi riportarono a casa.
   Crede Lei che mamma capisse, almeno allora, la mia gravità? Neanche per sogno! Io dissi, quando potei parlare: «Voglio il medico. Mi sento morire». Il medico curante — allora era Armellini — stava di fronte a casa mia. Ero sempre andata io al suo ambulatorio. Ma quel giorno avrei voluto che fosse venuto lui da me. Ma mamma disse: «Vai pure. Sono pochi passi e li puoi fare senza spendere il doppio a farlo venire».
   Maledetto denaro! Ha proprio ragione Papini a definirlo «sterco del demonio»! Per 5 lire, cinque lire di differenza, dovetti andare fuori di nuovo e, in mezzo alla via, sentirmi male. Una donna mi accompagnò dal dottore e dopo la visita il dottore stesso provvide a farmi riaccompagnare dalla domestica.
   Ero gravissima. E il medico lo disse apertamente non a me sola, ma a mamma, la quale non era venuta dal medico ad accompagnarmi, ma fu il medico che venne da lei a riferire. Forse egli sperava che dopo sarei stata risparmiata. Neanche per idea! Continuai a muovermi per casa, soffiando come un mantice, cadendo ogni tanto, soffrendo l'agonia di continuo. Uscire, no. Era impossibile. Ma per casa era come prima. Ora, se si parla di questo, mia madre dice tutto il contrario, ma ci sono molti testimoni che dicono che io dico il vero e lei non lo dice.
   Di madri Maria di Gonzaga7, come era la Priora di S. Teresina, ce ne sono tante, ma tante! Ma almeno quella non era la mamma! La mia invece è la madre e non è la mamma…
   Il mio papà, pover'uomo, era crucciatissimo di vedermi così… Credo abbia cominciato a morire allora, perché ogni volta che mi vedeva stare male, ed ormai almeno una volta al giorno il cuore cedeva, egli perdeva completamente la testa. Povero papà, quante lacrime sulla sua Maria spezzata così a 35 anni! Era l'unico che mi amasse. Gesù in cielo e papà in terra.
   Allora in casa venivano poche persone perché pochi volevano avere a che fare con mamma, e io ero sola e triste. C'era quella vecchia signora, ma era timida molto e perciò, per non urtare la supersuscettibilità di mamma, non mi difendeva per nulla.
   La sera della vigilia volli andare in chiesa, alla Messa di mezzanotte. Non mi potevo rassegnare a non andare più in chiesa, a non assistere più a una Messa, a non ricevere più il mio Gesù ora, specie ora che più che mai avevo bisogno di Lui!
   Andammo, nella notte nebbiosissima, dalle Dorotee. Eravamo un gruppetto di sei donne. Io avevo in tasca la digitale e il cognac. Mi sedetti in fondo alla chiesina. Soffrivo enormemente perché i pochi passi per la via, nel freddo, mi avevano riacutizzato il dolore cardiaco. Alla Comunione mi alzai e barcollando, tenendomi aggrappata ai banchi, andai all'altare. Al ritorno verso il mio posto cominciò un più forte batticuore. Bevvi la digitale e il cognac per non svenire. Appena sentii una tregua volli tornare a casa. Ah! non feci altro preparamento e altro ringraziamento che quello di una infinita sofferenza! Alla greppia, dove Gesù neonato vagiva, io deposi tutta la mirra di cui mi abbeveravo…
   E fu l'ultima Messa alla quale assistetti. L'ultima! Ne ho sofferto acutamente. Poi ho compreso che ora non dovevo più assistere alla Messa, ma dirla io, continuamente, coi miei dolori, col mio sacrificio. Il mio sangue doveva per sempre mescolarsi a quello dell'Uomo-Dio nel calice e dovevo io stessa alzare quel calice per offrirlo all'Eterno, dovevo io stessa consumare me stessa, piccola ostia, insieme alla Grande Ostia. E quando ho capito questo non mi sono più rammaricata d'esser claustrata dal male, d'essere come una di quelle sepolte vive che usavano nel medioevo e che vissero decine d'anni murate in una cella per soffrire e pregare per coloro che godono e non pregano.
   È rimasta pungente la fame di nutrirmi di Gesù… e quella, c'è voluto Lei per avere pietà di questa fame del mio animo, Lei e padre Giosuè8. Prima mi toccava stare anche dei 100, dico cento giorni senza che mai venisse portata a me l'Eucarestia. Ho sofferto questo con spirito di povertà… ma è stato così doloroso! Pensi: tutto quanto il male o il demonio hanno suscitato in me per turbare il mio spirito, l'ho dovuto subire sola, senza l'aiuto di una frequente Comunione, che è potente a corroborare un cuore più di ogni altra cosa. Senza Comunione, io che avrei voluto poterla fare più volte al dì! Senza più poter vedere la santa Particola ove è il mio Dio, il mio Re, il mio Sposo, io che avevo trovato il modo, quando lo ricevevo, di sfiorarlo con un bacio, avanti di aprire la bocca.
   Quale reliquia può esser simile a quella dell'Ostia consacrata? Qui non v'è un pezzetto d'osso o di veste, un capello, un dente, una goccia di sangue: qui c'è Gesù vivo, vero, completo come era nel seno di Maria, come era nella casa di Nazaret, come era per le contrade di Palestina, come era sulla Croce, come è in Cielo. Quando io penso a questo vorrei essere il ciborio o l'ostensorio che lo contiene nella specie del Pane per poterlo toccare, tenere in me, fargli una cuna preziosa, rutilante d'oro e di pietre preziose. Ma poi penso che Egli, il Gesù mio dolce, preferisce il nostro cuore per suo ciborio, specie se questo cuore è reso bello dalla purezza, o reso puro dall'amore e prezioso dal sacrificio. Allora cerco di rendere tale il mio cuore e vivo per quell'ora di gioia in cui Gesù viene in casa mia per unirsi a me con il suo Corpo, il suo Sangue, la sua Anima e la sua Divinità. E nell'attesa lo adoro in tutti i cibori dove Egli si trova, in tutti i calici dove il suo Sangue innocente è levato verso il cielo, in tutti i tabernacoli dove sta in attesa dei suoi figli…
   Oh! mistiche attese, oh! segrete adorazioni, oh! sante immolazioni per preparare la dimora del mio Re, chi vi può descrivere con quella esattezza che si dovrebbe? Chi ridire i frutti di gioia, di pace, di benessere che porta la sua venuta? Benessere non solo spirituale, ma anche fisico. Molte volte io, quando sono stata morente ed ho voluto subito l'Eucarestia, sono risorta a nuova vita non appena l'unione di Gesù con me stessa era avvenuta. E posso dire che dopo una Comunione io sto sempre meglio che non stessi prima. Anche stamane, quando Lei è venuto, mi sentivo malissimo. Dopo stetti meglio. Perciò, quando venerdì Lei mi disse che dopo aver detto la Messa era stato meglio, io non me ne stupii per nulla. È il frutto naturale dell'unione con Gesù, il Medico dei medici, il Risanatore per eccellenza.
   Ma torniamo al mio racconto.
   Il giorno dopo era Natale. Da buona francescana, io usavo tutti gli anni portare molto becchime agli uccellini della pineta, perché anche loro laudassero il Creatore nel giorno santo della nascita di Cristo. Vi volli andare anche quell'anno.
   Fra me e tutto il creato c'è sempre stato un grande buon accordo. Non riesco a capire quei credenti nel Dio Uno e Trino che non amano le cose da Lui create. E tanto meno capisco certi santi. Vi sono fra questi degli atleti di un rigorismo, dirò così, ascetico, che li fa ciechi per tutto quanto intorno a noi fiorendo, cantando, vivendo, splendendo, celebra notte e dì la Potenza che li fece. Davanti agli occhi di Dio avrà certo merito anche questa rinuncia spinta all'estremo. Ma non saprei proprio imitarla.
   Mi parrebbe d'esser sconoscente verso il mio Creatore, che mi ha concesso di vedere le notti serene in cui il cielo pare un immenso velario di cupo velluto tutto trapuntato di stelle che scrivono nel firmamento misteriose parole del poema creativo. Sconoscente per la verginea luna che veste di candore fin l'umile ciottolo d'una silvestre via. Sconoscente per il miracolo sempre nuovo della luce che torna, ad ogni alba, a consolare l'uomo dopo la notte oscura, per le aurore che spargono sui cirri delle nubi leggere delicate tinte di pastello e tramutano i boschi e i campi in un immenso forziere di gemme brillanti, sospese a fronde, a corolle, a steli baciati dal sole. Sconoscente per tutta la seta profusa sui mille e mille fiori del creato la cui veste è più bella di quella di Salomone9, per tutti i frutti della terra, dalle ondanti biade ai succosi grappoli, alle vellutate pesche e alle dipinte mele, per tutte l'acque che cantano con voci risarelle nei ruscelli, che borbottano nei torrenti, sospirano nei fiumi e suonano su piagge e scogliere un potente e insonne osanna a Dio. Sconoscente per i venti dalle mille voci e dai mille profumi rapiti nel corso veloce, sconoscente per le gaie tribù dei pennuti che cirlano, fischiano, pispolano, cantano, amano empiendo di vita il regno delle fronde, e per tutti gli animali che offrono la loro fatica o il loro amore all'uomo per suo conforto e anche per quelli che, selvaggi in vergini foreste, testimoniano pure quanto è stata grande la Forza che li fece.
   Quanto ho meditato, adorando, davanti anche all'umile pratolina dal cuore d'oro fra la raggiera candida, davanti al crescer dello stelo che si muta in spiga e in futuro pane, davanti al nido pieno di ovetti fra le piume e le lane rapite alle aie per farne letto alla dolce prole, agli ovetti che ora sembran sassolini e in cui già c'è una vita e domani saranno un mucchiettino tepido di carni, un desiderio palpitante di cibo, una prossima letizia di voli e di canti… Quanto ho meditato davanti agli sconfinati orizzonti marini e guardando gli ancor più sconfinati orizzonti dei cieli, i due altari più belli che hanno per ministri gli angeli, per organi le acque e i venti, per ceri gli astri… Oh! parole vive del nostro «Credo» nell'esistenza di Dio, parole che nessun inganno del demonio e nessun orgoglio dell'uomo può cancellare, parole eterne che avete visto il primo risveglio di Adamo e assisterete al sonno dell'ultimo uomo, parole fedeli, parole osannanti, come siete sempre state per me luce, come mi avete sempre parlato del mio Re «per cui tutto è stato fatto»10!
   Ora non vi vedo più coi miei occhi mortali. Mai più vi rivedrò, o cose belle fatte dal mio Dio. Per riparare al suo dolore d'esser bendato e schernito dalle soldataglie sacrileghe, ho accettato di non vedervi mai più. E peggio di una cieca, che almeno vede ancora attraverso l'olfatto e il tatto, io non posso più, mai più sentirvi, odori di bosco e di fieni, stormir di boschi e di biade, muoversi d'acque e carezze d'astri. Mai più. Mai più alberi che fiorite a primavera, boschi che vi vestite di porpora in autunno, aie che vi decorate di pannocchie d'oro sotto lo svolazzio delle colombe e quiete greggi che parete un mare di lana ondoso e spumoso come cresta d'onda. Mai più, chiocciate d'oro che una madre croccolante aduna sotto le ali trepide. Mai più. Alle volte mi prende un così vivo desiderio di rivederti, o spazio infinito del cielo, o spazio infinito del mare, che un pianto mi sale agli occhi. Oh! nostalgia dell'infinito creato da Dio, che non si placherà più altro che quando io mi unirò all'Infinito stesso!
   Ma vi ho tanto guardato, cose di Dio, che vi vedo ancora… e ti ho tanto amato, o Dio che hai fatto le cose, e ti amo tanto, che accetto volentieri questo che è pure un martirio nei miei svariati martirii.
   Andai in pineta sorretta da papà. Ma dovetti spargere il mio regalo per gli uccellini di Dio proprio lì, al principio. Non potevo camminare.
   Fino al 4 gennaio non uscii più. Ma quel giorno mamma voleva fare delle visite e perciò, viziata come era, pretese il mio aiuto di… dama di compagnia. Solo a vestirmi era una fatica… Due passi e una fermata, altri due e altra fermata… La gente mi guardava… Poi… anche mia madre dovette arrendersi all'evidenza che il povero asinello non poteva camminare più… E dal 4 gennaio 1933 non sono mai più uscita.
   Veramente avrei dovuto stare in assoluto riposo anche in casa… Ma in riposo non ci stavo. Mi alzavo alle sette e lavoravo tutta la mattina. Poi, dopo mangiato, o visto mangiare gli altri — è più esatto — mi coricavo fin verso le 17, ora in cui mi alzavo per preparare la cena agli altri. Al lunedì venivano le ragazze della gara e davo loro lezione. E così finii di ammazzarmi. Ogni tanto andavo in fin di vita per attacchi cardiaci, poi tornavo a riprendermi. Ma ero sempre più malata.
   Non vidi più un sacerdote fino a Pasqua, nella quale ricorrenza la Presidente, forse morsa da un rimorso per avermi tanto tormentata e per avere impedito che venissero da me la Barelli11 e altre del Consiglio Centrale, nonostante lo avessero chiesto, mi portò il quaresimalista di S. Paolino. Non so il nome. So solo che era parroco a Montelupo. Fu molto buono con me e mi consigliò di pregare molto l'angelo consolatore di Gesù agonizzante.
   Era quello che ci voleva, perché quando avevo le mie agonie le confesso che avevo paura. Sì, la morte, che ho già sentito molto vicina, è venuta verso me con tutta la sua asprezza. E ho avuto ribrezzo di lei con la mia parte inferiore. Ciò non deve stupire. Ho chiesto d'esser vittima non per l'Amore solo, il quale mi avrebbe fatta morire in un soavissimo languore d'amore. Ma ho chiesto alla Giustizia di immolarmi; e come Gesù, Vittima prima della Giustizia eterna, avrò una morte penosa. Come sempre ebbi penose le mie infinite agonie.
   Pregai d'allora sempre l'angelo12 di Gesù agonizzante e, quando poi seppi che si crede sia l'arcangelo Gabriele, lo pregai con ancora maggiore devozione. Sono stata battezzata il giorno di S. Gabriele Arcangelo e penso sia un poco il mio padrino nella mia nascita alla Chiesa; lo sarà anche nella mia nascita al Cielo.
   In maggio le mie figliette andarono a Montenero13 per premio dei loro esami. E là pregarono secondo la mia intenzione: ossia per la mia immolazione.
   Non ho mai chiesto altro per me: esser consumata e ottenere la vita eterna. Non ho chiesto e non ho mai fatto chiedere altro. Sa­rebbe stata una incongruenza. Non si richiede indietro quel che si è donato, se si è persone serie. Sarebbe un'offesa. Col buon Dio si deve fare lo stesso. Offrirsi e poi ritirarsi impauriti alla prima richiesta di Lui mi pare fare come quelli14 «che messa la mano all'aratro si volgono indietro e così si rendono inadatti al Regno di Dio». Ed io voglio essere adatta a questo Regno.
   Ho rinunciato a tutto della vita: a salute, a gioia, a ricchezza, a permesse letizie di amicizia, di passeggiate, di visioni di natura, ma vi ho rinunciato per avere tutto nell'altra vita. Né è stolta presunzione la mia, poiché il mio Maestro (che sta svegliandosi dopo due giorni e mezzo di sonno…) mi dice le parole vecchie di 20 secoli e sempre nuove: «In verità ti dico: nessuno ha abbandonato casa, padre, madre, fratelli e campi per amor mio e per il Vangelo, che non riceva il centuplo in questo tempo… unitamente alle persecuzioni e, nel tempo avvenire, la vita eterna».
   Io ho tutto abbandonato; ho dato il tesoro più grande dell'uomo: la salute e la vita, perché sono presso alla morte; ho abbandonato padre e madre poiché mio padre mi fu negato dalla malattia di assisterlo nella sua morte, e mia madre più non la posso servire e sempre più sento come sono a lei di peso… onde sono abbandonata da lei; ho rinunciato alle mie figliette d'anima sul cui fiorire m'ero curvata con tanto amore; ho rinunciato perfino alla mia casa, poiché non vivo che fra le mura di una camera simile a cella murata dalla quale niente mi può far uscire in vita; non possiedo più neppure le cose mie, come i miei cari libri, il mio pianoforte… tutto ho abbandonato per amore di Dio e ho ricevuto il centuplo dal suo amore che ora è voce, è carezza, è presenza. Ho avuto le persecuzioni perché il mondo perseguita sempre, quando ci si mette, anche se il male fa di noi dei sepolti; e nel mondo sono i nostri stessi parenti, ai quali siamo di peso e ce lo dicono, sono gli amici che ci deridono come pazze, sono i medici che ci tormentano in mille modi, sono gli estranei che, non sapendo nulla, vogliono blaterare con non misericordiose critiche… Sono quindi sicura di avere un giorno la vita eterna. Poiché Dio non mentisce, poiché Cristo non può aver sbagliato nel dire le cose, poiché la Ss. Trinità non può mancare alla sua parola.
   Quando mi sovvengo del dialogo dello scriba col Maestro: «Quale è il primo dei comandamenti?», «Ama il tuo Dio con tutto il tuo cuore, la tua anima, la tua mente, le tue forze, e ama il tuo prossimo come te stesso», «Maestro hai detto bene… e l'amare Iddio così e amare il prossimo così vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici», io sento scendere in me una sconfinata fiducia. Sì: ho amato Dio con tutte le mie forze, con più ancora delle mie forze perché l'ho amato fino a morirne. Ho amato il prossimo più di me stessa perché prego e soffro per esso, abbandonando la cura del mio futuro eterno alla bontà di Dio, senza accumulare per me tesori egoisti. Perciò sento la divina, cara Voce dirmi: «Tu non sei lontana dal Regno di Dio».
   Vieni, vieni o Regno di pace dopo tanto soffrire, e rendimi, oh! allora sì, rendimi tutto quello che ho donato… Rendimi stelle e fiori, rendimi canti d'uccelli e d'acque e fulgori di sole, rendimi tutto poiché tutto è in Dio e, quando io sarò una col Tutto, tutto avrò di nuovo, e in eterno. Vieni, vieni, divina Bellezza, alla quale mi affisso per soffrire sempre meglio. Si cancellino i veli che ancora mi celano la tua Perfezione, o dolce Amore, e dopo la croce venga la gioia d'esser con Te.
   Forse Lei dirà: «Ma costei dice sempre le stesse cose!». Può anche darsi. «Frate Masseo, domandato da frate Jacopo da Fallerone perché nel suo giubilo non mutava verso, rispose con grande letizia che quando in una cosa si trova ogni bene non bisogna mutar verso», si legge nei fioretti di S. Francesco15. Io non muto verso nel mio canto d'amore.
  

   E così passavano i mesi… Credevo che sarebbero stati mesi… Sono degli anni.
   Accadde allora una cosa impensata. Avevo girato per le vie fino al dicembre e mai nessuno mi aveva cercata. Non attiravo perché vestivo male e da vecchia, parlavo poco, ero una nullità grigia che si confonde senza spiccare. Neppure il mio parlare in pubblico mi aveva attirato amicizie. Solo delle anime erano andate a Dio. A me, povera voce che parlava di Dio, non era venuto nulla. E del resto non lo avevo desiderato poiché io lavoravo per Lui solo. Chiusa in casa, cominciò la serie degli sconosciuti che mi vennero a cercare. Non è ancora finita, anzi sempre più si intensifica, imponendomi rude fatica di pazienza e di parola…
   Poco fa mi sono quasi messa a piangere per questo. Ho tanto bisogno di silenzio e di tranquillità. E sono sempre disturbata. Arrivo quasi a svenirmi nella fatica di sentire tante voci e dover rispondere a tante parole… Ma… pazienza!…
   Una giovane signorina, una vecchia dama dell'aristocrazia, altri ancora… Chi li mandava? Mah! Dei conoscenti nessuno. Mie uditrici non erano. Vennero perché dissero che volevano conoscermi. E si è iniziato così questo apostolato spicciolo che dura ancora e che mi costa tanto di parole e di scritti.
   A metà luglio arrivò il nuovo Parroco16. Dal Parroco partente avevo fatto fare l'intronizzazione del Sacro Cuore. Avevo ben bisogno di vivere come in una chiesa, posto che in chiesa non potevo andare più. Feci avvisare subito il nuovo Parroco, che venne e mi portò la Comunione il 28 luglio. Da Pasqua ero rimasta sempre senza.
   Il giorno di S. Lorenzo17 stetti malissimo. Una cura sbagliata aveva aumentato il mio male. Da quel giorno peggiorai rapidamente. Nonostante tutta la buona voglia di fare, mi trascinavo ormai, esaurendo così le estreme riserve.
   Ma ebbi ancora modo di bere al calice della cattiveria umana con l'atto indegno della sempre nemica Presidente… Meno male che ero francescana convinta! Il mio serafico Padre mi cantò l'inno del perdono per amore di Dio. «Beati quelli che perdonano per tuo amore e soffrono pene e tribolazioni».
   Avevo chiesto il dolore. E il Dolore veniva da tutte le parti. Mi pareva di essere una cisterna in cui si adunassero le acque di molti canali. Vi era il canale della malattia, quello della calunnia, quello dell'indifferenza, quello della esigenza, quello dell'invidia. Tutti, tutti. «Scrivi, frate Leone pecorella di Dio: più di tutte le opere e i doni con cui lo Spirito Santo decora l'anima nostra, è grande il patire pene e tribolazioni per amore di Cristo. In questo è la perfetta letizia». Io ero, e sono, con lo spirito, nella perfetta letizia, perché Gesù, trattandomi da amica sua, mi dà la gioia di soffrire volentieri, per suo amore, pene, croci e ogni dolore.
   Nel dicembre, per un'altra cura ancor più sballata delle altre, a base di bromuri a dosi da cavallo e di sieri, mi ero ridotta tremante come per paralisia. Non sapevo neppur più scrivere e io, di mente sempre così forte, avevo amnesie paurose. All'analisi risultò che perdevo fosfati nella dose del 70%… Allora ai ripari con altre cure sempre più… ostrogote. Giù cardiazolo ad alte dosi, come per i matti.
   Intanto si era addottorato un nostro giovane amico che al 10 agosto mi aveva soccorsa durante la paurosa crisi. Volle visitarmi anche lui e sospese tutte le cure come micidiali. Ma lui partiva e io restavo, e il curante insisteva. Allora andiamo avanti. Le crisi erano anche doppie nel dì. Una continua agonia.
   Ormai stavo molto a letto, alzandomi solo per fare le faccende di casa, che non mi furono mai risparmiate finché mi ressi ritta. Cosa che avvenne il 1° aprile 1934. Un bel pesce d'aprile, vero?
  

   Ma le devo dire, a Lei che è il mio padre spirituale, quello che non dissi a nessuno. Le cure erano… asinesche e avrebbero peggiorato chicchessia. Ma io avevo un'altra cosa che mi faceva morire e vivere ad onta dei medici… Ed era l'Amore.
   Sfogliando, per trovare le date con maggiore esattezza, un diario che tenevo allora, trovo frasi infuocate che mi riportano il riflesso dell'ardore di quei giorni. Ho avuto un periodo di così intenso trasporto d'amore che mi pareva di vivere fuori di me, del mio povero essere così difettoso. Un serafino si era impossessato di me e mi avvampava delle sue vampe d'amore. Mi sentivo soffocare, tanto il cuore si dilatava nell'incandescenza. Cantavo, con parole create da me su ritmi spontanei, per dare uno sfogo al mio tormento. Avevo dato una musica anche al Canto di Frate Sole, a molte poesie di S. Teresina, ripetevo canzoni sacre. Avevo bisogno di uno sfogo per non esplodere…
   La sera del 10 febbraio scrissi il mio Canto dell'Amore.
   «O mio Diletto, come ha sete di Te l'anima mia, come ti va cercando per ogni dove con amorosa ansia!
   Oh! dove sei Tu? Oh! chi mi può sollevare nell'ansiosa ricerca del mio Bene?
   Vorrei parlare dell'amore che mi agita e mi opprime, vorrei trovare altri cuori in cui versare la piena della dolcezza che mi gonfia il cuore. Ma, ahimé!, il mondo è sordo e inerte alla grande voce dell'amore!
   È una delle croci più grandi degli amanti questa: avere cuore, mente e parola piene del Diletto e sentire l'indifferenza e l'ottusità che li circonda e imbavaglia.
  Sole col Solo, sempre ansiose di Te, Amore, vivono queste anime in mezzo agli uomini, e sono in un deserto perché gli uomini non le possono capire.
   E allora a Te si volgono, a Te lontano e a Te presente nell'anima che adora, a Te che solo le puoi comprendere e saziare nella loro grande fame.
   Oh! sazia Tu questa insaziabile fame, Tu che solo lo puoi, espanditi, trabocca in esse che sono volte verso di Te come avide bocche, come coppe che attendono d'essere colmate.
   Sommergile nell'onda del tuo amore, ardile nell'ardore della tua fiamma, annientale nel fulgore della tua potenza.
   Esse chiedono solo di essere da Te immolate, su un rogo spirituale che nel martirio le sublima.
   Vieni, Diletto, vieni, non più tardare, l'anima mia ha sete di Te!
   L'anima mia ti chiede l'amore, un sempre più rinnovato incendio d'amore; soffre per Te quest'anima mia, sente crescere la sua pena col crescere del suo amore.
   Eppure, mentre ad istanti ti chiede pietà perché troppo ardente è la fiamma che trapassa il cuore, mentre ti chiede una tregua perché troppo violentemente l'investe l'amore, essa ti grida: vieni, vieni a chi ti adora!
   E che sarà mai l'amore nei cieli se sulla terra esso è tanto dolce?
   E che sarà mai l'incontro con Te se a tanta distanza l'anima si liquefà al tuo fuggevole passaggio?
   E che sarà la conoscenza di Te, Amore Eterno, che sarà l'Amore perfetto, l'eterno abbracciamento con Te, se è tanto grande, potente, soave, profondo il mio povero amore di creatura?
   A me il mio Diletto ed io a Lui!
   Oh! non cercate, creature, di strapparmi da Lui, non cercate frapporvi fra me e l'Amato. Quando anche Egli mi abbandonasse ed a me nascondesse il suo Volto, io non cesserò per questo d'attenderlo e d'amarlo.
   A Lui rivolta come fiore al sole io starò aspettando in pace la fine della prova, e più dolce sarà l'istante del ritorno in cui nuovamente Egli volgerà verso la sua schiava il suo divino riso.
   Nulla sulla terra può sviarmi da Lui perché Egli è dolcezza, Egli è bontà, Egli è luce, Egli è calore, Egli è vita, Egli è conforto, Egli è beatitudine, il dolce Cristo che mi ha rapito il cuore.
   Per Lui e in Lui diviene dolce ogni tormento, in Lui si calma ogni angoscia, da Lui ogni debolezza trae vigore.
   Egli è l'Amato! Egli è il mio Amore!».
   Come vede, a distanza di nove anni io ripeto le stesse cose. Sono quelle e non possono variare. Dovrei impazzire o divenire preda del demonio per cambiare. Ma spero che Gesù non lo permetterà mai. Mi affido a Lui.
   L'ardore cresceva sempre. Sfogliando il mio diario dopo tanti anni trovo l'inno di gioia nel dolore farsi sempre più alto.
   Venne la Quaresima, la Settimana di Passione, la Settimana Santa. A Maria, che non poteva mai più andare da Gesù crocifisso, venne Gesù crocifisso.
   Uno scultore portò una grande croce di marmo nero con un magnifico Cristo in marmo di Carrara. Era una vera opera d'arte di una espressività potente. Voleva venderlo perché aveva bisogno di denaro per una cura oftalmica. Stava accecando. Si era rivolto a noi perché lo mostrassimo a persone amiche, fra cui la contessa Melzi d'Eril, nella speranza di trovare il compratore.
   Feci adagiare il Cristo sul divano, ora letto di Marta. Allora la stanza era ancora salotto. Vi rimase per tutta la Quaresima e fino al giorno dopo Pasqua, se non erro. Io andavo da Lui tutti i momenti, con la scusa di ritirarmi nella stanza silenziosa dove non arrivava odore di carbone. In realtà andavo per amarlo. Quanti baci su quel marmo freddo che rappresentava il mio Dio! Mi inginocchiavo a fianco del divano e gli parlavo per ore intere ascoltando la Voce che mi rispondeva, venendo dal profondo dei Cieli a suonarmi in cuore.
   Fossi stata molto ricca avrei comperato io quel lavoro. Era così naturale quel Volto solcato dal dolore e scavato dalla morte, quell'abbandono delle membra e quel torace dilatato dall'ultimo anelito dopo l'estremo grido! Aveva la mano sinistra serrata sul chiodo, come se il crampo finale l'avesse rattrappita così, e la destra invece col pollice, l'indice, il medio ben stesi, quasi per benedire ancora.
   L'amore cresceva nel contemplare il mio Dio morente… cresceva tanto da darmi un tormento fisico che culminò il Venerdì Santo. Oh! ho creduto morire col petto squarciato, tanto fu forte l'amore! Ho sentito lacerarmi dentro qualcosa come se una lancia mi frugasse nel petto. Deve però essersi realmente lacerato qualcosa, perché anche i sapienti Esculapi arzigogolavano sopra una lesione che si intuiva essere nel mediastino o fra questo e il cuore e di cui non sapevano dare spiegazione.
   Credo che solo la mano di Chi mi aveva ferita medicò la ferita stessa in maniera che rimanesse senza uccidere. Lo credo perché quel dolore, superiore a quanto possa essere sopportato da creatura umana, lo risento, specie nelle ore di più alta fusione con il mio Signore. Lo credo perché nessun rimedio umano è atto a calmarlo. Lo credo perché non manca mai quando raggiungo una forza così assoluta nella preghiera da strappare una grazia al cielo. Lo credo perché di colpo scompare a grazia ottenuta, salvo tornare nelle ore di più intenso amore e di più intensa preghiera, sempre più vasto… Fosse un dolore umano, sarebbe cosa da impazzire!…
   Pochi giorni avanti di provare quello spasimo soavissimo e crudelissimo avevo composto una preghiera che dicevo dopo quella di S. Francesco: «Signor mio Gesù Cristo, due cose ti prego Tu mi faccia prima che io muoia: la prima, di sentire nell'anima e nel corpo mio, quant'è possibile, quel dolore che Tu, dolce Gesù, sostenesti nell'ora della tua acerbissima Passione; la seconda, di sentire nel cuor mio, quant'è possibile, quello straordinario amore del quale Tu, Figliuol di Dio, eri acceso tanto da sostenere volentieri una così grande Passione per noi peccatori».
   La mia, al serafico Padre, era così composta: «O Padre mio S. Francesco, per quell'amore con cui Cristo ti amò e tu amasti Lui, dàmmi, ti prego, la sofferenza e l'amore che impetrasti per te stesso. Non ti chiedo la gloria visibile delle stimmate, delle quali non sono degna, ma la compartecipazione intima alle pene e all'amore di Gesù e tuo, acciocché io, a imitazione vostra, muoia d'amore per Iddio e per le anime».
  Il buon Dio mi dava quanto avevo chiesto. La ferita interna che era pena e amore, la ferita che m'avrebbe condotta alla morte dopo un mare di dolore valicato con tanta volonterosità per il Signore e le anime.
  Oh! posso ben dirlo! Il mio Signore non mi ha mai negato quanto gli ho chiesto. Avendo pietà della mia piccolezza, avendo compassione della mia vita senza nessun sollievo di gentilezze dai parenti, avendo condiscendenza per il mio buon volere che era tutto quanto potevo dargli, mi ha sempre colmata di tenerezze, di doni, di pensieri delicati quali solo un padre amoroso e uno sposo amorosissimo possono dare. M'ha dato molto di più di quanto io stessa gli chiedessi. S'è sempre curvato attento ad ascoltare non solo le mie domande ma anche i desideri inespressi e li ha resi realtà.
   Amavo i fiori e non potevo comperarli. Ebbene, il mio cortiletto era un vero canestro colmo di fiori trovati per via: bulbi di ireos, violette, gerani le cui talee gettate da chissà chi attecchivano subito dando fiori su fiori. Avevo trovato un rimettiticcio di passiflora, uno dei miei fiori preferiti, ed era divenuto pianta rigogliosa: rose, mughetti, fresie, violette, gerani di tutte le qualità, pelargoni, iris bianchi e violacei, garofani… avevo di tutto e in tutti i mesi dell'anno. Chi veniva strabiliava. I miei quaranta e più vasi erano tutti in fiore. Le piante mi si empivano sempre di corolle come per un'eterna primavera. Ora, da quando io sono a letto, sono tutti morti…
   Amavo le colombe e avevo potuto averne delle razze bellissime che mi amavano con una tenerezza umana, meglio che umana. Ora sono morte quasi tutte e inselvatichite.
   Desideravo gli uccellini e Gesù me li fornì sempre e li fornì in modo che mamma non poté imporre il suo «no».
   M'era morto il cane e ne soffrivo perché, inferma come sono, ho desiderio di una compagnia fedele nelle lunghe notti e nelle ore in cui sono sola durante il giorno: ed ebbi chi mi diede il cane.
   E su, su, su. Nelle piccole gioie materiali e nelle grandi cose spirituali sempre il buon Gesù mette nella mano della sua piccola schiava d'amore i suoi doni. Grazie per tanti che mi dicono di pregare e grazie spirituali per me. E conforti a non finire. Forse fa così perché solo Lui sa cosa soffro, Lui e io lo sappiamo con esattezza. Tutti gli altri sono ben lontani dalla realtà del mio soffrire.
   Dandomi sempre tutto quanto io gli chiedevo, mi dette anche la ferita interna che non si vede ma che duole come una lancia uncinata, infuocata, che strappi e bruci le carni più vive.
   Se il Venerdì Santo del 1930 io ebbi la mia prima ora di agonia insieme al Cristo, nel 1934, il Venerdì Santo, io fui trapassata dall'amore nel contemplare il mio Gesù sulla croce. Quando potei alzarmi scrissi questa pagina, che dico spesso e specie nelle ore di maggior soffrire o nel tempo quaresimale:
   «Egli è l'Uomo dei dolori, il Diletto del cuore mio. Per somigliare a Dio devo soffrire io pure.
   A me dunque, a me venite, o care spine, o dolci chiodi; me colpite ché la sposa vuole ornarsi dei gioielli del suo Re.
   Vedi come languido è il suo sguardo, come arsa è la sua bocca mentre prega sulla croce per la ria umanità.
   Odi tu, cuor mio, la voce mormorare fra i singulti le parole dell'amore?
   Egli muore per noi e perdona e promette il paradiso e chinando il dolce viso: "Sitio!" dice e attende da noi pietà.
   "Alle labbra benedette, al tuo cuore sofferente, quali cure posso darti per calmare l'estremo affanno? Con quale balsamo al tuo petto dare sollievo, o Redentore?".
   "Con il tuo fedele affetto e il generoso tuo soffrire".
   Oh! a me, a me venite, dolci spine e cari chiodi! Me cingete, me colpite, me inchiodate al duro legno. Sul mio petto e sul mio cuore posi il capo del mio Re.
   Col mio affetto e col mio amore voglio tergere il suo pianto, dissetare la sua febbre, confortarne l'agonia.
   Benedetto sia il dolore che mi rende uguale a Te! Benedetta sia la croce che mi innalza sino al cielo! Benedetto sia l'amore che dà ali al mio soffrire!
   Benedetto sia quel giorno che il tuo sguardo m'ha ammaliata! Più beato sia il momento che a Te m'ha consacrata!
   Ma serafico è il tormento che mi unisce, o Redentore, alla croce, al dolore, per la gloria, o Dio, di Te!
   Oh! a me, a me venite, dolci spine, cari chiodi, me ornate, in me scolpite la sembianza del mio Re.
   Vieni, vieni, duro legno della croce, insanguinato; tu solo, a mio sostegno, io voglio cercare quaggiù.
   Su nel cielo, fra gli splendori, non più languido e gemente, ma eterno e risplendente, m'attende il Redentore.
   A Lui, ornata della croce, cinta il capo di sue spine, consumata dal suo amore, volerò un dì. E fra gli angeli osannanti e serafici fulgori, i tormenti ed i dolori in tante gemme Egli muterà.
   Benedetto sia il dolore, benedetta sia la croce, benedetto sia l'amore che in cielo si compirà!».
   Scrivere così, solamente scrivere non sarebbe nulla di meritevole. Anzi un vano esercizio di parole. Ma io quelle parole le convalidavo, e le convalido, col mio dolore che amo molto più di me stessa. E ciò dà valore a quel grido scritto in un momento di unione profonda al mio Re crocifisso.
   I mali sono andati aumentando in numero ed in profondità, ma io non ho mutato il mio canto e sempre dico: «Benedetto il dolore, la croce, l'amore». E sempre invoco: «A me le spine, i chiodi, i flagelli, poiché ciò che il mondo sfugge costituisce il mio riposo, perché più cresce la stretta del soffrire e più aumenta la pace e la beatitudine, e per ogni fibra che si spezza, e per ogni forza che si annulla, io sento che si aggiunge una cellula al mio nuovo io che vivrà in cielo, poiché il cielo è di coloro che seppero morire alla carne prima che la carne morisse a noi».
   Soffro col Cristo e con Lui sarò glorificata. La sua vita e la sua passione si manifestino in me, che non chiedo che di rimanere confitta sulla croce, su quella croce che è follìa per i figli della perdizione ma è una forza divina per quelli che sono entrati nella via della salute, come dice l'Apostolo18 dalla parola incisiva e il cuore ardente.
   Due giorni dopo quel momento di estasi e dopo quel grido di desiderio che mi squarciò il petto, io fui confitta in Croce. Cristo ne scendeva, nella gloria della sua Risurrezione, io vi salivo per amore dei miei più cari amici: Gesù e le anime.
   Avevo sforzato me stessa per non mettere malinconia a papà con lo stare a letto proprio quel giorno. Ma non mi reggevo ritta. Udii, da una radio vicina, la benedizione papale impartita dopo la canonizzazione di Don Bosco19. Con questo viatico andai a letto. Ormai avevamo adattato a stanza da letto il salotto e io vi presi possesso… e vi sono ancora.
   Una novena di anni. Quanti ancora ne avrò da passare? Mi pare d'esser prossima a finire. Ma chi si abbandona a simile speranza che fu delusa tante volte, ormai?
   Bene: sia fatta una volta di più la tua volontà!
 


   Quando… è citazione da: Giovanni 12, 32. Il riferimento esatto della citazione che precede è: Apocalisse 7, 14.

   2 Marta è Marta Diciotti (nota a p. 347) della quale si parlerà più estesamente.

   3 Galgani è Gemma Galgani (1878-1903), mistica lucchese, stigmatizzata, canonizzata nel 1940. La mamma di Marta Diciotti, anche lei di Lucca, l'aveva conosciuta di persona.

   4 le Marie… le Marte, secondo l'episodio evangelico di: Luca 10, 38-42.

   5 Giovanna d'Arco (1412-1431), famosa eroina francese, detta "la Pulzella d'Or­léans", santa.

   6 le parole riportate da: Matteo 7, 21 (quelle che precedono), e da: Giovanni 21, 18 (quelle che seguono).

   7 Maria Gonzaga era la severa Priora di suor Teresa del Bambino Gesù (nota 21).

   8 padre Giosuè è Giosuè Bagatti, dell'Ordine dei Frati Minori, cappellano nell'Ospedale di Viareggio dal 1939 fino alla morte avvenuta il 21 aprile 1981.

   9 più bella di quella di Salomone, come è detto in: Matteo 6, 29; Luca 12, 27.

   10 per cui tutto è stato fatto, come è detto in: Giovanni 1, 3; 1 Corinzi 8, 6; Colossesi 1, 16; Ebrei 1, 2.

   11 la Barelli è Armida Barelli (1882-1952), fondatrice nel 1918 della Gioventù Femminile di Azione Cattolica (nota 81). Nel 1960 è stato aperto il processo per la sua beatificazione.

   12 l'angelo è quello di: Luca 22, 43; il giorno di S. Gabriele Arcangelo era il 24 marzo.

   13 a Montenero, presso Livorno, dove sorge un celebre santuario mariano.

   14 come quelli di cui si parla in: Luca 9, 62. Per le citazioni evangeliche che seguono: Matteo 19, 29; 22, 35-39; Marco 10, 29-30; 12, 28-33; Luca 10, 25-28; 18, 29-30.

   15 S. Francesco, prediletto da Maria Valtorta e più volte citato, è Francesco d'Assisi (1182-1226), il più noto dei santi italiani.

   16 il nuovo Parroco era mons. Mario Rocchicciòli, rimasto a reggere la parrocchia di San Paolino a Viareggio fino alla morte, avvenuta nel 1949.

   17 Il giorno di S. Lorenzo è il 10 agosto.

   18 come dice l'Apostolo in: 1 Corinzi 1, 18.

   19 Don Bosco è Giovanni Bosco (1815-1888), sacerdote torinese, educatore di giovani, fondatore dei Salesiani, santo.

MV particolare

Marta Diciotti