MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MINORE

A A A

QUADERNI DEL 1943 CAPITOLO 6


13 maggio 1943

   Mattina

   Poco fa lei è tornato a dirmi di scrivere. La fatica fisica è un nulla di fronte alla fatica morale che devo compiere per alzare i veli oltre i quali è il soprannaturale. Perché? Per diverse ragioni.
   La prima si è che mi pare di commettere quasi una profanazione rendendo noti i segreti di Dio in me. E temo sempre che questa, se non profanazione, certo: proclamazione, mi possa produrre un castigo: quello di essere privata delle divine carezze e delle divine parole. Si è sempre un poco egoisti, noi viventi. E non si pensa che quanto Dio ci largisce può dar gioia ad altri e che, essendo cosa di Dio, Padre di tutti, non è lecito a noi esserne avari e privarne i fratelli.
   La seconda ragione è che un resto di diffidenza umana, verso di me e verso gli altri, mi fa sempre pensare se quanto io avverto come “soprannaturale” non debba invece esser valutato da me come illusione e dagli altri come una farneticazione. Ho tanto sentito darmi della pazza che penso che… ancora il prossimo mi possa mettere in questa categoria.
   La terza ragione è che di questi favori io ho paura. Paura perché ho sempre il terrore che possano essere un inganno… Possibile che io, io nulla, possa meritare questi favori dal mio Re? E paura che mi provochino della superbia. Sento che se me ne insuperbissi, anche per un attimo, cesserebbero subito, non solo, ma io resterei anche senza quel minimo di soprannaturale che è comune a moltissimi. In castigo per la mia superbia. Oh! ne sono sicura che Gesù mi punirebbe così!
   E ora che le ho detto le ragioni per cui non amo parlare, le dirò quelle per cui sento che non sono illusa, prendendo delle larve di delirio per verità soprannaturali e parole demoniache per parole divine.
   Sono sicura per la soavità e la pace che mi invadono dopo quelle parole e quelle carezze e per la forza che mi investe, obbligandomi ad ascoltarle e a scriverle senza poterne mutare una parola. Alla dolcissima forza con cui sono obbligata ad ascoltarle o a scriverle - e sempre in momenti che esulano da ogni mia volontà di udire quelle cose (la prego credere che io non faccio nulla per mettermi, dirò così: in posizione ricevente) - sento, se è il caso, una più viva forza che mi dice: “Rendi noto questo. Taci a tutti quest’altro”. E con questa soave prepotenza non si transige…
   Ma di mio non c’è nulla. Se anche io penso (e me ne affliggo): “Gesù tace. Oh! se si facesse sentire per consolarmi un pochino!”, stia certo che Egli continua a tacere. Solo quando vuole si fa udire; e allora anche se io sono occupata d’altro, qualunque altro che magari mi urge compiere, devo smettere e occuparmi di Lui solo. Come se, secondo il mio stile, preferisco un modo di dire ad un altro e cerco cambiarlo, non posso. Così è detto e così deve restare.
   Sempre stamane lei mi diceva di scrivere di sensazioni passate. Le ho detto che non potrei ripetere ora esattamente quelle parole e perciò non le ripeto. Di mio non vi deve essere nulla. Ma le posso fare una piccola enumerazione delle cose che ho avvertito.
   Come le ho detto più volte, in molte riprese, io ho sognato Gesù, Maria e i Santi. Però mentre Gesù era sempre “vivo”, la Vergine e i Santi erano come statue o quadri: figurazioni. Solo un fraticello francescano, che certo era santo, ho visto due volte come persona viva. E una mi diceva che di tutti i mali “mi avrebbe ucciso quello che avevo lì” e mi toccava i polmoni. Questo sogno lo feci or sono sette anni, quando ai polmoni non avevo nulla di nulla.
   Un’altra volta lo stesso fraticello francescano, che non mi è parso né S. Francesco né S. Antonio, con un volto di luce, mi diceva: “Hai più meritato tu con questa malattia che una suora in convento. Ogni anno dei tuoi vale una vita conventuale”. Questo me lo rispondeva perché io, vedendo la morte in agguato, mi crucciavo di aver fatto così poco… La mia Superiora (morta dal 1925) mi allontanava dalla morte, mi occultava ad essa dicendo: “Campa ancora qualche anno”, onde io dicevo: “Ma cosa faccio io? Nulla! Fossi suora!”, e fu allora che il fraticello mi disse quelle parole.
   Come le ho detto, il mio Angelo l’ho visto solo quella volta. Però delle volte sento come un venticello alitarmi sul viso e penso che sia il mio buon angelo che mi ristora nei momenti in cui sono tanto abbattuta da non potere agitare il ventaglio. Nell’estate del 1934 questa sensazione è durata per dei mesi: i mesi di continuo pericolo mortale. Tolto questo, il mio angelo… fa il morto. Lui che mi ha così ben tutelata, poppante e urlante nei solchi infuocati di Terra di Lavoro[14], che mi ha soccorsa nella sincope del 4 gennaio 1932, non si è mai mostrato o fatto sentire palesemente, fuorché quella volta. Se non è lui che ora ha piantato il giglio e le viole, prendendoli a giardini forniti… ma chi lo sa?
   Ho invece visto e parlato (in sogno) a Padre Pio di Pietrelcina. L’ho visto, sempre in sogno, in estasi, dopo la S. Messa, ho visto il suo sguardo penetrante e avvertito sulla mia mano la cicatrice della stimmate quando mi prese per mano. E non in sogno, ma bene sveglia, ho sentito il suo profumo. Nessun giardino colmo di fiori in pieno sboccio può emanare le paradisiache fragranze che empirono la mia camera la notte fra il 25 e 26 luglio del 1941 e il pomeriggio del 21 settembre 1942, proprio mentre un nostro amico parlava di me al Padre (io ignoravo che egli fosse partito per S. Giovanni Rotondo). Tutte e due le volte ho poi ottenuto le grazie richieste. Il profumo fu sentito anche da Marta. Era così forte che la svegliò. Poi cessò di colpo come di colpo era venuto.
   Ma sentire del profumo è cosa abituale. Anche stamane, dopo la mia spietata notte di agonia, lo sentii. Mi svegliò anzi dal sonno che mi aveva preso all’alba. Erano le 6 quando ne fui svegliata. La finestra era chiusa, fiori in stanza di notte non ne tengo, profumi non ne ho, la porta era chiusa. Dunque nessun odore poteva penetrare dal di fuori. Fu come una colonna di fragranza al lato destro del letto. Come venne sparì, lasciandomi una dolcezza in cuore. Dire che è odore di questo o quel fiore è dire poco. Tutte le fragranze sono in questo profumo. Le vene odorifere si mescolano come se le anime di tutti i fiori creati si agitassero in una paradisiaca caròla.
   E ora veniamo alle sensazioni più nette e che vengono tutte da Gesù. Sì. È Lui solo che si palesa così.
   Le ho accennato alla sensazione[15] di avere in me lo sguardo di Gesù e di guardare, attraverso ai suoi occhi, i miei simili. Ciò è molto difficile a spiegarsi ed è avvenuto per molti anni di fila, quando camminavo ancora.
   Poi ci sono state, dirò così: le invasioni di amore, i soprassalti di amore: tormentosi nella loro soavità. Era come se Dio precipitasse in me con la sua volontà d’essere amato. Anche questo si spiega male. Codesti sono durati e durano ancora.
   Però da quando sono sopraggiunte più vive manifestazioni direi che avverto meno questi. Forse è perché mi sono stabilizzata in essi. Quando si è fermi in un posto, ben radicati, non ci sono più scosse. Non le pare?
   Due anni fa per la prima volta avvertii una “voce” senza suono che rispondeva a mie domande (domande che faccio a me stessa meditando su questo o quello) e con la voce una visione (mentale). Ricordo bene. Era in seguito alla discussione con mio cugino (lo spiritista). Gli avevo risposto una beffarda e pepata lettera. Tre ore dopo, mentre mi rimuginavo lo scritto, ormai spedito, e me ne applaudivo portando ragioni umane, e un po’ più di umane, ad approvazione della mia lettera di fuoco, avvertii la “voce”: “Non giudicare. Tu non puoi sapere nulla. Vi sono cose che Io permetto. Ve ne sono altre che Io provoco. E nessuna è senza scopo. E nessuna è capita con giustizia da voi umani. Io solo sono Giudice e Salvatore. Pensa a quanti miei servi furono tacciati da indemoniati perché parlarono ripetendo parole venute da zone di mistero. Pensa a quanti altri, la cui vita parve sempre scorrere nella più ligia osservanza della Legge di Dio e della mia Chiesa, sono ora fra i condannati da Me. Non giudicare. E non temere. Io sono con te. Guarda: abbi un istante di percezione della mia Luce e vedrai che la più viva luce umana è tenebrore rispetto alla Luce mia”.
   E vidi come aprirsi una porta, una grande porta di bronzo, pesante, alta… Girava sui cardini con un suono d’arpa. Non vedevo chi la spingesse ad aprirsi lentamente… Dallo spiraglio filtrò una luce così viva, così festosa, così… non v’è aggettivo per descriverla, che mi colmò di cielo. La porta continuava ad aprirsi, e dal vano sempre più ampio un fiume di raggi d’oro, di perle, di topazi, di brillanti, di tutte le gemme fatte luce, mi abbracciò tutta, mi sommerse. Compresi in quella Luce che occorre amare tutti, non giudicare nessuno, perdonare tutto, vivere solo di Dio. Sono passati due anni ma io vedo ancora quel fulgore…
   Poi la settimana santa del 1942. Anzi la settimana di Passione. Il mercoledì di Passione, all’improvviso, una frase mi suonò all’orecchio. Così viva l’impressione che posso proprio dire “mi suonò”, per quanto non udissi suono alcuno. “Di quelli che Io ti ho dato, nessuno è perito tranne il figlio di perdizione, e questo perché tu pure conoscessi l’amarezza di non esser riuscita a salvare tutti i tuoi”.
   Come lei vede, una frase per metà evangelica[16], e perciò antica, e per metà nuova. Una frase capace di rendere perplessi poiché Gesù mi ha dato molti - parenti, amici, maestri, condiscepole e discepole - molti per i quali ho sofferto, agito, pregato. Fra questi molti io ho avuto più di uno che mi ha deluso nella mia sete di spirituale amore. Perciò potevo rimanere perplessa circa la persona definita: figlio di perdizione. Ma quando Gesù parla, anche se la frase è in apparenza sibillina ai più, è unita a una tal luce speciale che l’anima a cui la frase è detta capisce esattamente a chi si allude da Cristo.
   Compresi dunque che “il figlio di perdizione” era una delle mie figliuole di Associazione. Una per la quale avevo fatto tanto, portandomela proprio sul cuore per salvarla perché avevo capito la sua natura… In apparenza, lo scorso anno, non c’era nulla che facesse pensare a un suo errore. Ma io compresi. Ho allora aumentato le preghiere per lei… e non ho potuto che impedire un delitto di infanticidio.
   Il Venerdì Santo vidi per la prima volta Gesù Crocifisso, fra i due ladroni, sulla cima del Golgota. Vista che durò per dei mesi, non continua ma molto frequente. Gesù mi appariva contro un cielo fosco, in una luce livida, nudo contro la croce scura, un corpo molto lungo e piuttosto esile, molto bianco come fosse svenato, un velo d’un azzurro smorto ai lombi, il volto piegato sul petto nell’abbandono della morte, coi capelli che lo ombreggiavano. La croce era sempre in direzione di oriente. Vedevo bene il ladrone di sinistra, male quello di destra. Ma essi erano vivi; Gesù era morto. Qualche volta vedo ancora Gesù in croce ma ora è sempre solo. Per quanto io pensi, non ho mai visto nessun quadro simile a questo.
   In giugno, sotto questa impressione, scrissi la seguente poesia. Erano anni che non ne facevo più, perché con tanto male la vena poetica si è disseccata come fiore che muore. Gliela trascrivo non perché sia un capolavoro ma perché rende l’impressione delle mie impressioni dopo quella visione e le rende meglio che non le mie frasi di prosa. Subito dopo scrissi anche quella a Maria Vergine, benché la Madonna io non la veda e non la senta mai. Le copio tutte e due.
   Redemisti nos Deo [= Deus] in sanguine Tuo.
   Sinistro è il monte dalla scabra roccia.
   Il cielo si infosca sul tuo dolore
   mentre ti sveni a goccia a goccia
   sull’alta cima per noi, Signore.
   Stai con le braccia aperte a croce
   col capo chino sotto la corona,
   lo sguardo velato, spenta la voce,
   vivo solo il cuore che amore sprona.
   Guardi degli uomini l’odio e la guerra
   che fame e stragi, nell’andar fatale,
   seminan fiere per tutta la Terra.
   E l’uomo sempre preferisce il Male
   al Bene che è tuo figlio, alla Pace
   che è santo fiore di celeste aiuola,
   all’Amore in cui ogni egoismo tace,
   alla Fe’, vita dei popoli sola.
   E Tu ancora, sì, ancora una volta sali
   sul tuo Calvario per noi, e per noi ti offri,
   ostia che riscatta i nostri mali,
   e sul legno, alto verso il cielo, soffri.
   Perché, perché novellamente asceso
   sei sulla croce dolorosa? L’uomo
   di folle cupidigia e d’ira acceso
   contro sé stesso infierisce e domo
   non è finché, vinto, nel fango tristo,
   donde lo traësti a più alta sorte,
   di nuovo non sia. E contro di Te, Cristo,
   si scaglia con furor cieco di morte.
   Pur Tu torni, per l’uomo che t’offende,
   ad espiar, ché ti sei fatto scudo
   per noi contro le folgori tremende
   del Padre tuo e solo, livido, ignudo,
   nell’ultimo spasmo levando il viso
   gridi: “Tutto è compiuto! Per quest’ora,
   Padre, perdona! Ad essi il Paradiso!
   Io li ho redenti una volta ancora!”
   16 giugno 1942.
   Alla Vergine.
   Ave Maria! Tu che sei la santa
   proteggi questa giovinezza pia,
   tu che sei ricolma, dolce Maria,
   di grazia così tanta.
   Per il Signore che è teco e te con Lui,
   tu, benedetta fra le creature,
   difendile dalle insidie oscure
   e dai tristi giorni bui.
   Per quel Figlio che nel seno avesti
   restando vergine, e che è Gesù pietoso,
   volgi, deh! volgi il ciglio tuo amoroso.
   Regina sei dei mesti.
   Santa Maria! Prega per noi mortali.
   Senza di te troppo la nostra vita,
   o Madre nostra, è simile a smarrita
   arundine[17] dall’ali
   stanche per troppo volo, o a navicella
   scossa da furia d’onde accavallate.
   Deh! tu placa il nembo sull’acque irate
   ché sei del mar la stella.
   Nella vita e più nell’ora in cui le luci
   per noi si spengon nel buio della morte
   tu, Vergine e Madre, l’eterne porte
   aprici e a Dio ci adduci.
   17 giugno 1942.
   Sono contenta d’aver fatto i miei due ultimi… pasticci poetici per Gesù e Maria. Se anche le rime sono zoppe non importa. Gesù me le classifica lo stesso con un bel voto perché guarda non la metrica ma l’amore.
   E in giugno, una sera che ero fra morte e vita, sentii anche chiamarmi da quella figliuola - “il figlio di perdizione” - che era a Roma. Un grido di invocazione infinita: “Signorina, signorina! Non mi guarda? Non mi sente? Non mi vuole più bene?”. Io lo sentii distintamente. Nessun altro lo udì. Un mese e mezzo dopo seppi da lei, tornata a casa sua, la verità vera sulla sua assenza: un figlio. E quella sera, disperata, era stata lì lì per uccidersi… e aveva chiamato me per resistere alla tentazione. Aveva chiamato me, con la sua anima, me che non sapevo nulla di preciso, che la credevo via per lavoro, che non volevo credere a quella “voce” del mercoledì di passione.
   Poi, delle volte, ho visto Gesù fanciullo sui sette, dieci anni. Bellissimo. Gesù uomo nella pienezza della virilità. Ancor più bello.
   Ma la sensazione più dolce, più piena, più sensibile, l’ho avuta il 2 marzo di quest’anno. Non rida, Padre. Ma l’ho avuta la mattina della morte di Giacomino, il mio povero uccelletto.
   Piangevo perché… sono una sciocca. Piangevo perché mi affeziono molto a tutto. Piangevo perché nella mia segregazione di malata decenne ho un vero desiderio di affezioni intorno a me, siano pure affezioni di bestiole. E mi lamentavo, piano, con Gesù. Gli dicevo: “Però, me lo potevi lasciare. Me lo avevi dato. Perché me lo hai tolto? Sei geloso anche di un uccello?”. Poi conclusi: “Ebbene… prendi anche questo mio dolore. Te lo offro, con tutto il resto, per quello che Tu sai”.
   E allora ho sentito due braccia circondarmi e attirarmi contro un cuore, col capo su una spalla. Ho avvertito il tepore di una carne contro la mia gota, il respiro e il pulsare di un cuore dentro un petto vivo. Mi sono abbandonata a quell’abbraccio sentendo sul mio capo una voce mormorarmi nei capelli: “Ma ti resto Io. Ti tengo Io, sul mio Cuore. Non piangere ché ti amo Io”.
   E non ho più pianto. E non ho più sentito dolore. Noti che quando mi muore un uccello, un cane, sono pianti che durano mesi…. Quel giorno: … finito tutto con l’abbraccio di Gesù. Qualche volta, meno intenso, si ripete.
   Poi, col venerdì santo di quest’anno, ossia il 23 aprile, la prima dettatura di Gesù, e il 1° maggio la seconda.
   Oh! ora poi ho proprio detto tutto e mi fermo con le spalle così rotte che mi pare d’aver portato la croce su e giù per il Calvario.

[14] Terra di Lavoro, cioè a Caserta, dove nacque il 14 marzo 1897 e dove rimase nei primi diciotto mesi di vita, affidata dalla mamma ad una nutrice sciagurata che arrivava al punto di abbandonare la piccina nei campi. Persone e fatti qui menzionati trovano ampia trattazione nell’Autobiografia, alla quale Maria Valtorta si riferisce quando accenna a cose già dette.
[15] sensazione, che sarà come giustificata nel secondo “dettato” del 5 luglio 1944.
[16] evangelica, perché presa da Giovanni 17, 12.
[17] arundine è tutt’altro che rondine, nel cui significato la parola è qui usata come concessione poetica.