MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MINORE

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QUADERNI DAL 1945 AL 1950 CAPITOLO 510


21 dicembre 1945

   Oh! Padre! Non so se lei se ne è accorto che al momento della S. Comunione io facevo fatica a seguirla perché ero… già altrove, intenta a guardare verso l'alto, da dove mi veniva un richiamo gioioso, di quella gioia non descrivibile con confronti e vocaboli umani. Dovevo fare uno sforzo a staccarmi di là per rispondere a lei… Dopo, fra sussulti di letizia, ondate di letizia sempre più vasta, mi si è schiarito sempre di più l'ultraumano e ho visto.
   Ho visto i fulgidissimi azzurri delle praterie paradisiache… È già cosa che porta alla beatitudine, anche rimanesse da sola, questa vista delle plaghe celesti inondate dalla luce che nessun paragone spiega, dalla luce del Paradiso.
  Noti che le distese del celeste Regno mi apparivano molto più in alto del comune cielo etereo, eppure mi erano distintissime come fossero non più oltre dei tetti; e sempre quando contemplo il Paradiso ho questa sensazione di infinita lontananza dalla Terra e quella di essere ioche sono trasportata oltre l'atmosfera terrestre per essere avvicinata al Cielo paradisiaco perché io possa vedere bene. Mi sento, insomma, strappata alla Terra e portata lassù, lontano. Non nel Paradiso, che è ancora più in alto, ma dove già il creato è lontano anche con le stelle e i pianeti. Ho la sensazione di essere inginocchiata con l'anima mia, e lo farei anche materialmente se un resto di vigilante ragione non mi trattenesse dal dare manifestazioni di quanto avviene in me. Ma con l'anima mi prostro perché sento d'essere al cospetto di ciò che è tanto superiore all'uomo, che va venerato anche se è semplicemente luce e azzurro senza limiti.
   Da un punto messo fra nord ed est vengono incontro a me, camminando, come comuni mortali, sui campi di zaffiro, tre splendidissime figure di un incesso regale e dignitosissimo. Eppure non hanno alcun sussiego. Tutt'altro. Camminano sciolte, senza perdere imponenza. Sorridono guardando me e si sorridono accennandomi fra di loro con un linguaggio di sguardi. Man mano che si avvicinano vedo i moti dei bellissimi occhi, le iridi azzurro zaffiro nel primo, nerissime nel secondo, castano dorato nel terzo, splendere nel sorriso e alla luce del Paradiso. Vengono fino al limite del campo celeste oltre il quale è il vuoto fino allo scaglione inferiore dove sono io, venerante e rapita. E lì si fermano guardandomi, sorridendo come solo un angelo può sorridere, stando allacciati alla vita come tre fratelli che si amano e che passeggiano insieme.
   Sono i tre arcangeli: Gabriele, Michele, Raffaele. E tento di fargliene un ritratto. Sono tre bellissimi giovani. Mi appaiono come giovani dai 20, anche dai 18 ai 30 anni. Il più giovane è Raffaele, il più anziano (nell'aspetto) Michele dalla terribile bellezza.
   Il primo a destra era Gabriele, dell'apparente età di 24-25 anni. Alto, snello, molto spiritualizzato nei tratti rapiti di adoratore perpetuo. Biondo di un biondo oro zecchino, dai capelli ondanti fino a toccare appena le spalle, meglio la base del collo, trattenuti da un sottile cerchio diamantato: pareva una fascia di luce incandescente più che metallo e gioielli. Vestito di quelle vesti di luce tessuta – diamanti e perle – che molte volte ho visto nei corpi gloriosi. Una tunica lunga, sciolta, castissima, che nascondeva completamente i piedi e lasciava a malapena scoperta la mano destra pendente lungo il fianco, bellissima nella sua forma. Mi guardava coi suoi zaffirei occhi, con un sorriso così soprannaturale che per quanto fosse un sorriso mi intimoriva.
   L'altro, al centro, pure molto alto come il compagno, era, come ho detto, terribile nella sua bellezza austera. Bruno di capelli che aveva più corti del compagno e più ricciuti, più robusto di membra, con la fronte nuda da ogni diadema ma con sul petto una specie di medaglione in oro e pietre sostenuto da due catenelle d'oro al collo. 
   Le pietre inca­stonate formano caratteri, forse un nome, ma io non so leggere quelle parole, quelle lettere che non sono come le nostre. È vestito d'oro acceso, una veste che abbacina tanto è splendente. Sembra una fiamma chiara (non rossastra ma dorata) che ne fasci le mem­bra agili e robuste. Il suo occhio nero è severo e getta raggi. Non mi fa paura, a me, perché sento che non è in collera con me, ma che an­zi mi ama. Ma è uno sguardo di una terribilità che deve essere ango­sciosa ai peccatori e a Satana. Michele non ha né spada né lancia, all'opposto di come lo raffigurano, ma le sue armi sono i suoi occhi. Anche il sorriso è severo, molto austero.
   Il terzo, vestito di una veste cinta da una cintura gemmata, una veste di un delicato color smeraldo, pare vestito proprio del colore che si vede guardando uno smeraldo contro luce. È alto, morato nei capelli lunghi come quelli di Gabriele. Un prezioso colore di capelli che sono un castano pieno di spruzzettii d'oro cupo. Sembra il più giovane di tutti, e mi ricorda un poco S. Giovanni apostolo per il dolce giovanile sorriso. Però Raffaele ha gli occhi di un dolcissimo colore castano, uno sguardo placido, paziente, che è una carezza. Sorride più umanamente degli altri. Tutto in lui è più simile a come noi siamo. È proprio il "buon giovane"1 del libro di Tobia. Viene voglia di mettergli la mano nella mano, con fiducia, e di dirgli: "Guidami! In tutto!".
   Mi guardano, sorridono, si sorridono. Poi mi salutano.
   Gabriele canta, con la sua voce d'arpa spiritualissima (e ogni nota porta all'estasi): "Ave, Maria", e nel dire "Maria" raccoglie le mani sul petto e curva il capo alzandolo poi con un sorriso che aumenta lo sfavillio di tutto lui verso il più alto Paradiso. Capisco che più che salutarmi si è voluto chiaramente indicare. È l'Arcangelo che annunzia2 il grande mistero… e sembra che non sappia che dire quelle parole e venerare la Vergine…
   Michele tocca il suo gioiello sul petto. Lo prende fra le dita della destra e lo alza per mostrarmelo, e con una voce piena di risonanze di bronzo dice: "Chi è con Dio tutto può. E nulla può Satana su chi è con Dio. Perché, chi è come Dio?" e queste ultime parole paiono far vibrare l'aura celeste come per un armonioso tuono. Riposa il suo medaglione sul petto e si inginocchia adorando l'Eterno (che io però non vedo, ma che direi, dallo sguardo dell'arcangelo, che è a perpendicolo o immediatamente dietro alle mie spalle, su, su, ben in alto).
   Raffaele, dalla voce d'oro, apre le braccia come per abbracciarmi e alza nel contempo il viso splendente di gioia nella contemplazione di Dio e dice: "La gioia sia sempre con te". Assomiglia un poco all'angelo che ho visto in due visioni. Ma è meno spiritualizzato di quello. Ha alla radice dei capelli una luce in forma di stella, una luce mite che conforta, come conforta la sua veste di splendente smeraldo chiaro.
   Mi guardano ancora. Poi si allacciano più stretti alla vita e (noti che non avevo fino allora notato le ali dietro le loro schiene) e aprono le ali di perla, di fiamma, di luce verdolina, e rat­ti salgono all'Empireo, cantando una non ripetibile canzone, ugua­le a quella udita il 13 dicembre 44 a Còmpito, quando vedevo le coorti angeliche trasvolare su Betlemme, cantando…
   E io resto qui. Anzi scendo dalle sfere dove ero e rientro in me stessa, nei miei spasimi, nel mio letto. Però la gioia resta… e mi accorgo anche che, stupida stupida, non ho saputo dire una parola ai tre arcangeli… Però la mia anima ha parlato con loro. La sentivo che li venerava, anche se non potevo tradurre in parole materiali i palpiti suoi.
   

   Dopo avere avuto tutto quanto sopra, prendo la Bibbia per ricercare in essa ogni apparizione angelica. Passano così Abramo, Giacobbe, Tobia e poi il profeta Daniele. Nel capo 8° mi cade lo sguardo sui versetti 13-14. Giunta alla frase: "Rispose: Da sera a mattina, per duemila trecento giorni, e poi sarà purificato il santuario", rapida come una freccia luminosa viene una risposta, meglio, una spiegazione: "Metti al posto della parola 'giorni' quella di 'secoli', perché per noi un secolo è meno di un giorno, e avrai la data della fine del mondo". Non altro. Subitanea come è venuta, così è cessata la voce, che direi del mio interno ammonitore3 perché è simile alla sua.
           
   

   buon giovane, il compagno di viaggio nel racconto di Tobia 5.
           
   2 l'Arcangelo che annunzia, in Luca 1, 26-38.
           
   3 interno ammonitore, espressione ricorrente, è una sorta di intuizione o voce interna, di cui la scrittrice ha dato la spiegazione il 29 gennaio 1944. Diventerà, il 9 gennaio 1946, una "voce immateriale" che "detta". Dopo alcuni giorni, il 15 gennaio, la scrittrice svelerà che è il suo angelo custode, al quale potrà dare finalmente un nome: Azaria.