MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME I CAPITOLO 36



XXXVI. La sacra Famiglia in Egitto. Una lezione per le famiglie.

   25 gennaio 1944 (ore 24).

   36.1La soave visione della S. Famiglia. Il luogo è in Egitto. Non ho dubbi, perché vedo il deserto e una piramide.
   Vedo una casuccia a un sol piano, il terreno, tutta bianca. Una povera casa di molto povera gente. I muri sono appena intonacati e coperti di una mano di calcina. La casetta ha due porte, l’una vicina all’altra, che mettono nei due unici ambienti della casa, nei quali, per ora, non entro. La casetta è nel mezzo di un poco di terreno sabbioso, recinto da un riparo di canne confitte nel suolo, un molto debole riparo contro i ladri; può servire unicamente di difesa contro qualche cane o gatto randagio. Ma già, chi deve aver voglia di rubare dove è visibile che non c’è ombra di ricchezza?
   Questo poco terreno che la siepe di canne recinge, siepe sulla quale, a farla più fitta e meno misera, sono stati condotti degli arrampicanti che mi paiono modesti convolvoli — solo su un lato vi è un arbusto di gelsomino in fiore e un cespuglio di rose delle più comuni — è stato coltivato pazientemente, nonostante il terreno sia arido e magro, a orticello. Vi noto delle modestissime verdure nelle poche aiuole del centro, sotto ad una pianta d’alto fusto che non so capire che sia, la quale dà un poco d’ombra sul terreno assolato e sulla casetta. A questa pianta è legata una capretta bianca e nera, che bruca e rumina le foglie di alcuni rami gettati al suolo.

   36.2E lì vicino, su una stuoia stesa a terra, vi è Gesù bambino. Mi pare abbia un due anni, o due e mezzo al massimo. Giuoca con alcuni pezzetti di legno intagliati, che sembrano pecorine o cavallini, e con alcuni trucioli di legno chiaro, meno arricciolati dei suoi riccioli d’oro. Con le manine paffutelle cerca mettere queste collane di legno al collo delle sue bestioline.
   È buono e sorridente. Molto bello. Una testolina che è tutta a ricciolini d’oro fitti fitti, pelle chiara e delicatamente rosata, occhietti vivi, splendenti, di un azzurro carico. L’espressione è naturalmente diversa, ma riconosco il colore degli occhi del mio Gesù: due zaffiri scuri e bellissimi.
   Veste una specie di lunga camicina bianca, che sarà certo la sua tunica. Ha le maniche sino al gomito. Ai piedi, per ora, nulla. I minuscoli sandali sono sulla stuoia e servono anch’essi di giocattolo al Bambino, che mette sulla suola le sue bestioline e tira il sandalo per la cinghia come fosse un carrettino. Sono sandali molto semplici: una suola e due cinghie, che partono una dalla punta e una dal calcagno. Quella della punta, poi, si biforca a un certo punto, e un pezzo passa entro l’occhiello della cinghia del calcagno per venire poi ad allacciarsi con l’altro pezzo, formando anello al collo del piede.

   36.3Un poco più in là, anche Ella all’ombra della pianta, è la Madonna. Tesse ad un rustico telaio e sorveglia il Bambino. Vedo le mani sottili e bianche andare e venire gettando la spola sulla trama, e il piede, calzato da sandali, muovere il pedale. È vestita di una tunica color fiore di malva, un viola rosato come certe ametiste. È a testa nuda, e così posso vedere che ha i capelli biondi bipartiti sul capo e pettinati semplicemente in due trecce, che le fanno un bel ciuffo sulla nuca. Ella ha le maniche lunghe e piuttosto strette. Nessun ornamento fuorché la sua bellezza e la sua espressione dolcissima. Colore del volto, dei capelli e degli occhi, forma del viso, sempre come quando la vedo. Qui sembra giovanissima. Sì e no le si danno venti anni.
   Ad un certo punto si alza e si curva sul Bambino, al quale rimette i sandaletti e glieli allaccia con cura. Poi lo carezza e lo bacia sulla testolina e sugli occhietti. Il Bambino cinguetta e Lei risponde, ma non comprendo le parole. Poi torna al suo telaio, stende sulla tela e sulla trama un panno, prende lo sgabello su cui era seduta e lo porta in casa. Il Bambino la segue con lo sguardo senza importunarla quando Ella lo lascia solo.
   Si vede che il lavoro è finito e viene la sera. Infatti il sole cala verso le sabbie nude, e un vero incendio invade tutto il cielo dietro la piramide lontana.
   Maria torna. Prende per mano Gesù e lo fa alzare dalla sua stuoia. Il Bambino ubbidisce senza resistenza. Mentre la Mamma raccoglie i giocattoli e la stuoia e li porta in casa, Egli corre trotterellando sulle sue gambette tornite verso la caprettina e le butta le braccine al collo. La capretta bela e strofina il musino sulle spalle di Gesù.
   Maria torna. Ora ha un lungo velo sul capo e un’anfora in mano. Prende Gesù per la manina e si avviano tutti e due, girando intorno alla casetta verso l’altra facciata.
   Io li seguo ammirando la grazia del quadro. La Madonna che regola il suo passo su quello del Bambino, e il Bambino che trotterella e sgambetta al suo fianco. Vedo i calcagni rosei alzarsi e posarsi, con la grazia propria dei passi dei bambini, nella sabbia del sentieruolo. Noto che la sua tunichetta non è lunga sino ai piedi, ma giunge soltanto sino a metà del polpaccio. È molto linda, semplicissima, trattenuta alla vita da un cordoncino pure bianco.
   Vedo che sul davanti della casa la siepe è interrotta da un rustico cancello, che Maria apre per uscire sulla via. Una povera via all’estremo di una città o paese che sia, là dove questo finisce nella campagna, che qui è costituita di sabbia e di qualche altra casetta, povera come questa, con qualche gramo orticello.
   Non vedo nessuno. Maria guarda verso il centro, non verso la campagna, come attenda qualcuno, poi si avvia verso una vasca o pozzo che sia, che è qualche decina di metri più in su e sul quale delle piante di palma fanno un cerchio d’ombra. Vedo che anche il terreno, là, ha delle erbe verdi.

   36.4Qui vedo venire avanti per la via un uomo non troppo alto ma robusto. Riconosco Giuseppe, che sorride. È più giovane di come lo vidi nella visione[79] del Paradiso. Sembra avere al massimo quaranta anni. Ha i capelli e la barba folti e neri, la pelle piuttosto abbronzata, occhi scuri. Un viso onesto e piacente, un viso che ispira fiducia.
   Vedendo Gesù e Maria, affretta il passo. Ha sulla spalla sinistra una specie di sega e una specie di pialla, e con la mano tiene altri arnesi del mestiere, non come quelli di ora ma quasi uguali. Sembra che torni dall’aver fatto qualche lavoro in casa di qualcuno. Ha una veste fra il color nocciuola e il marrone, non molto lunga — arriva un bel po’ più su della caviglia — ed ha le maniche corte sino al gomito. Alla vita una cinghia di cuoio, mi sembra. Una vera veste da lavoro. Ai piedi sandali intrecciati alla caviglia.
   Maria sorride e il Bambino manda dei gridetti di gioia e tende il braccino libero. Quando i tre si incontrano, Giuseppe si curva offrendo al Bambino un frutto che mi pare una mela, dal colore e dalla forma. Poi gli tende le braccia, e il Bambino lascia la Mamma e si rannicchia fra le braccia di Giuseppe, curvando il capino nell’incavo del collo di Giuseppe, che lo bacia e ne è baciato. Una mossa piena di affettuosa grazia.
   Dimenticavo di dire che Maria era stata sollecita a prendere gli arnesi di lavoro di Giuseppe, per lasciarlo libero di abbracciare il Bambino.
   Poi Giuseppe, che si era accoccolato al suolo per mettersi all’altezza di Gesù, si rialza, riprende con la mano sinistra i suoi arnesi e tiene stretto sul petto robusto, con il braccio destro, il piccolo Gesù. E si avvia verso casa, mentre Maria va alla fonte ad empire la sua anfora.
   Entrato nel recinto della casa, Giuseppe depone il Bambino, prende il telaio di Maria e lo porta in casa, poi munge la capretta. E Gesù osserva attentamente queste operazioni e quella della chiusura della capretta in un piccolo sgabuzzino posto su un lato della casa.
   La sera cala. Vedo il rosso del tramonto farsi violaceo sulle sabbie, che per il calore sembrano tremolare. La piramide sembra più scura.
   Giuseppe entra in casa, in una stanza della casa che deve essere officina, cucina, stanza da pranzo insieme. Si vede che l’altro ambiente è quello destinato al riposo. Ma in quello io non entro. Vi è un basso focolare acceso. Vi è un banco da falegname, una piccola tavola, degli sgabelli, delle mensole con su le poche stoviglie e due lumi ad olio. In un angolo, il telaio di Maria. E molto, molto ordine e nitore. Dimora poverissima ma pulitissima.
   È questa un’osservazione che faccio: in tutte le visioni riguardanti la vita umana di Gesù, ho notato che tanto Lui come Maria, come Giuseppe, come Giovanni, sono sempre ordinati e puliti nella veste e nel capo. Abiti modesti e semplici acconciature, ma di una nitezza che li fa apparire signorili.

   36.5Maria torna con l’anfora e viene chiusa la porta sul crepuscolo calato rapidamente. La stanza è rischiarata da una lucerna, che Giuseppe ha accesa e messa sul suo banco, dove si curva a lavorare ancora intorno a delle piccole assi, mentre Maria prepara la cena. Anche il fuoco rischiara la stanza. Gesù, con le manine appoggiate al banco e la testolina volta in su, osserva ciò che fa Giuseppe.
   Poi si siedono a mensa, dopo aver pregato. Non si fanno, è naturale, il segno di croce, ma pregano. È Giuseppe che prega e Maria risponde. Ma non capisco nulla. Deve essere un salmo. Ma è detto in una lingua che m’è affatto sconosciuta.
   Poi si siedono a tavola. Adesso la lucerna è sulla tavola. Maria ha in grembo Gesù, al quale fa bere il latte della capretta nel quale intinge delle fettine di pane tolte ad una pagnottella tonda, dalla crosta scura, e scura anche nell’interno. Pare pane fatto con segala o con orzo. Certo ha molta crusca, perché è bigio. Intanto Giuseppe mangia pane e formaggio, una fettina di formaggio e molto pane. Poi Maria mette Gesù seduto su uno sgabelletto vicino a Lei e porta in tavola delle verdure cotte — mi sembrano lessate e condite come usiamo anche noi — e ne mangia Lei pure dopo che Giuseppe si è servito. Gesù rosicchia tranquillo la sua mela e sorride scoprendo i dentini bianchi. La cena termina con delle ulive o dei datteri. Non comprendo bene, perché per essere ulive sono troppo chiare e per essere datteri sono troppo duri. Vino, niente. La cena di povera gente.
   Ma è tanta la pace che spira in questa stanza, che la visione di nessuna reggia pomposa me la poteva dare simile. E quanta armonia!

   36.6Gesù questa sera non parla. Non mi illustra la scena. Mi ammaestra col suo dono di visione e basta. Ne sia sempre e ugualmente benedetto.
   
   26 gennaio 1944.

   36.7Dice Gesù:
   «La lezione, a te e agli altri, te la dànno le cose che vedi. È lezione di umiltà, di rassegnazione e di buona armonia. Preposta ad esempio a tutte le famiglie cristiane, e specie alle famiglie cristiane di questo speciale e doloroso momento.

   36.8Tu hai visto una povera casa. E, quel che è doloroso, casa povera in paese straniero.
   Molti, solo perché sono dei “passabili” fedeli che pregano e ricevono Me-Eucaristico, che pregano e si comunicano per i “loro” bisogni, non per le necessità delle anime e per gloria di Dio — perché è ben raro chi nel pregare non sia egoista — molti pretenderebbero di avere una vita materiale facile, ben riparata da ogni più piccola pena, prospera, felice.
   Giuseppe e Maria avevano Me, Dio vero, per loro Figlio, eppure non ebbero neppure il povero bene d’esser poveri ma nella loro patria, nel paese dove erano conosciuti, dove almeno c’era una casetta “loro” e il pensiero dell’alloggio non c’era a mettere un assillo fra i tanti, nel paese dove, per essere conosciuti, era più facile trovare lavoro e provvedere alla vita. Sono due profughi proprio per avere Me. Clima diverso, paese diverso, così triste rispetto alle dolci campagne della Galilea, lingua diversa, costumi diversi, in mezzo ad una popolazione che non li conosce e che ha la abituale diffidenza delle popolazioni per i profughi e per gli sconosciuti.
   Privi di quei mobili comodi e cari della “loro” casetta, di tante cose umili e necessarie che là vi erano e che non parevano tanto necessarie, mentre qui, nel nulla che li circonda, sembrano addirittura belle come il superfluo che fa deliziose le case dei ricchi. Con la nostalgia del paese e della casa, col pensiero di quella povera roba lasciata là, dell’orticello dove più nessuno provvede, forse, alla vite e al fico e alle altre utili piante. E con la necessità di provvedere al vitto quotidiano, alle vesti, al fuoco giorno per giorno, a Me, bambino, al quale non può essere dato il cibo che è lecito dare a se stessi. E con tanta pena in cuore. Per la nostalgia, per l’incognita del domani, per la diffidenza della gente che è restia, specie nei primi tempi, ad accogliere le offerte di lavoro di due sconosciuti.
   Eppure, l’hai visto. In quella dimora aleggia serenità, sorriso, concordia, e di comune accordo si cerca di farla più bella, anche nel misero orto, perché sia più simile a quella lasciata e più confortevole. Non vi è che un pensiero: quello che a Me, Santo, sia resa meno ostile la terra, meno misera a Me che vengo da Dio. Amore di credenti e di parenti che si estrinseca in mille cure, che vanno dalla capretta, acquistata con tante ore di lavoro in più, ai piccoli giocattoli intagliati negli avanzi del legno, ai frutti presi per Me solo, negando a sé un boccone di cibo.
   Diletto padre mio della Terra, come sei stato amato da Dio, da Dio Padre nell’alto dei Cieli, da Dio Figlio, divenuto Salvatore, sulla Terra!
   In quella casa non vi sono nervosismi, bronci, visi scuri, e non vi è rimprovero reciproco e tanto meno verso Dio, che non li colma di benessere materiale. Giuseppe non rimprovera a Maria d’esser causa del suo disagio, e Maria non rimprovera a Giuseppe di non saperle dare un maggiore benessere. Si amano santamente, ecco tutto, e perciò la loro preoccupazione non è il proprio benestare ma quello del coniuge. Il vero amore non conosce egoismo. E il vero amore è sempre casto, anche se non è perfetto nella castità come quello dei due vergini sposi. La castità unita alla carità porta seco tutto un corredo d’altre virtù e perciò fa, di due che si amano castamente, due perfezioni di coniugi.
   L’amore di mia Madre e di Giuseppe era perfetto. Perciò era fomite ad ogni altra virtù e specie a quella della carità verso Dio, benedetto ad ogni ora, nonostante che la sua santa volontà fosse penosa alla carne e al cuore, benedetto poiché sopra la carne ed il cuore era più vivo e signore nei due santi lo spirito, e questo magnificava con riconoscenza il Signore per averli eletti a custodi del suo eterno Figlio.

   36.9In quella casa si pregava. Troppo poco si prega nelle case, ora. Si alza il giorno e cala la notte, si iniziano i lavori e vi sedete alla tavola senza un pensiero per il Signore, che vi ha permesso di vedere un nuovo giorno, di poter giungere ad una nuova notte, che ha benedetto le vostre fatiche e concesso che vi divenissero mezzo a conquistarvi quel cibo, quel fuoco, quelle vesti, quel tetto che pure sono necessari alla vostra umanità. Sempre “buono” quello che viene da Dio buono. Anche se povero e scarso, l’amore gli dà sapore e sostanza, l’amore che vi fa vedere nell’eterno Creatore il Padre che vi ama.
   In quella casa vi è frugalità. Vi sarebbe anche se il denaro non mancasse. Ci si nutre per vivere, non ci si nutre per far godere la gola con insaziabilità di ingordi e con capricci di golosi, che si empiono fino ad appesantirsi e sprecano sostanze in cibi costosi senza un pensiero per chi di cibo è scarso o è privo, senza riflettere che, se essi avessero moderazione, molti potrebbero essere sollevati dal morso della fame.
   In quella casa si ama il lavoro. Lo si amerebbe anche se il denaro fosse abbondante, poiché nel lavoro l’uomo ubbidisce al comando di Dio e si libera dal vizio che come edera tenace stringe e soffoca gli oziosi, simili a massi immobili. Buono il cibo, sereno il riposo, contento il cuore quando uno ha ben lavorato e si gode il suo tempo di sosta fra un lavoro e l’altro. Non alligna, nella casa e nella mente di chi ama il lavoro, il vizio dalle molteplici facce. E, non allignando questo, prospera l’affetto, la stima, il rispetto reciproco, e crescono in una atmosfera pura i teneri virgulti, che divengono così origine di future famiglie sante.
   In quella casa regna umiltà. Quanta lezione di umiltà per voi superbi! Maria avrebbe avuto, umanamente, mille e mille ragioni di insuperbirsi e di farsi adorare dal coniuge. Tante fra le donne lo fanno soltanto per essere un poco più colte, o di natale più nobile, o di borsa più ricca del marito. Maria è Sposa e Madre di Dio, eppure serve — non si fa servire — il coniuge, ed è tutta amore per lui. Giuseppe è il capo di casa, giudicato da Dio tanto degno d’esser un capo famiglia, da ricevere da Dio in custodia il Verbo incarnato e la Sposa dell’eterno Spirito. Eppure è sollecito ad alleviare a Maria fatiche e lavori, e le più umili occupazioni di una casa le fa lui perché Maria non si affatichi, non solo, ma come può, per quanto può, la ricrea e si industria a farle comoda la casa e lieto di fiori l’orticello.
   In quella casa è rispettato l’ordine. Soprannaturale, morale, materiale. Dio è il Capo supremo e a Lui viene dato culto e amore: ordine soprannaturale. Giuseppe è il capo della famiglia e a lui viene dato affetto, rispetto e ubbidienza: ordine morale. La casa è un dono di Dio come le vesti e le suppellettili. In tutte le cose è la Provvidenza di Dio che si mostra, di quel Dio che provvede il vello alle pecore, la piuma agli uccelli, l’erba ai prati, il fieno agli animali, i granelli e le fronde ai volatili, e tesse la veste al giglio della convalle. La casa, le vesti, le suppellettili vanno accolte con gratitudine, benedicendo la mano divina che le fornisce e trattandole con rispetto come dono del Signore, senza guardarle con malumore perché povere, senza strapazzarle abusando della Provvidenza: ordine materiale.

   36.10Non hai compreso le parole scambiate nel dialetto di Nazaret, né le parole della preghiera. Ma le cose viste hanno dato una grande lezione. Meditatela, o voi tutti che ora tanto soffrite per aver mancato in tante cose verso Dio, e fra queste anche in quelle in cui non mancarono mai i santi Sposi che mi furono Madre e padre.
   E tu bèati nel ricordo del piccolo Gesù, sorridi pensando ai suoi passetti di infante. Fra poco lo vedrai camminare sotto una croce. E sarà visione di pianto».

[79] visione del 10 gennaio 1944, ne “I quaderni del 1944”.