MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME I CAPITOLO 63



LXIII. Il lebbroso guarito presso Corazim.

   6[135] novembre 1944.

   63.1Con una precisione da fotografia perfetta ho davanti alla vista spirituale, da stamane prima ancor che fosse l’alba, un povero lebbroso.
   Questo è veramente un rudere di uomo. Non saprei dire che età ha, tanto è devastato dal male. Scheletrito, seminudo, mostra il suo corpo ridotto allo stato di una mummia corrosa, dalle mani e dai piedi contorti e mancanti di parti, di modo che quelle povere estremità non paiono neppur più di uomo. Le mani, artigliate e contorte, hanno della zampa di qualche mostro alato, i piedi paiono quasi zoccoli di bove, tanto sono mozzi e sfigurati.
   La testa poi!… Io credo che uno rimasto insepolto, e che divenga mummificato dal sole e dal vento, sia simile nel capo a questo capo. Pochi superstiti ciuffetti di capelli, sparsi qua e là, appiccicati alla cute giallastra e crostosa come per polvere seccata su un teschio, occhi appena socchiusi e incavatissimi, labbra e naso sbocconcellati dal male mostrano già le cartilagini e le gengive, le orecchie sono due embrionali ruderi di padiglione, e su tutto è stesa una pelle incartapecorita, gialla come certi caolini, sotto la quale bucano le ossa. Pare abbia ufficio di tenere radunate queste povere ossa entro il suo lurido sacco, tutto frinzelli di cicatrici o lacerazioni di piaghe putride. Una rovina!
   Penso proprio ad una Morte che sia vagante per la Terra e ricoperta da una pelle incartapecorita sullo scheletro, avvolta in un lurido manto tutto a brandelli, e avente in mano non la falce, ma un nodoso bastone, certo strappato a qualche albero.
   È sulla soglia di una spelonca fuori mano, una vera spelonca, tanto diruta che non posso dire se in origine era un sepolcro, o un capanno per boscaioli, o l’avanzo di qualche casa distrutta. Guarda verso la via, lontana un cento e più metri dal suo antro, una via maestra polverosa e ancora piena di sole. Nessuno è sulla via. A perdita d’occhio, sole, polvere e solitudine sulla via. Molto più su, a nord-ovest, vi deve essere un paese o città. Vedo le prime case. Sarà lontana almeno un chilometro.
   Il lebbroso guarda e sospira. Poi prende una ciotola sbocconcellata e la riempie ad un rigagnolo. Beve. Si addentra in un groviglio di rovi, dietro all’antro, si curva, strappa al suolo dei radicchi selvatici. Torna al rigagnolo, li monda dalla polvere più grossa con l’acqua scarsa del rio e se li mangia piano, portandoli a fatica alla bocca con le mani rovinate. Devono esser duri come stecchi. Stenta a masticarli e molti li sputa senza poterli inghiottire, nonostante cerchi di aiutarsi bevendo sorsi d’acqua.

   63.2«Dove sei, Abele?», grida una voce.
   Il lebbroso si scuote, ha un che sulle labbra che potrebbe essere un sorriso. Ma sono così mal ridotte quelle labbra che è informe anche questa larva di sorriso. Risponde con una voce strana, stridula (mi fa pensare al grido di certi pennuti di cui ignoro l’esatto nome): «Qui sono! Non credevo più che tu venissi. Pensavo ti fosse accaduto del male, ero triste… Se mi manchi anche tu, che resta al povero Abele?». Nel dire così, cammina verso la via, finché può secondo la Legge, si vede, perché a mezza distanza si ferma.
   Sulla via viene avanti un uomo che quasi corre, tanto va lesto.
   «Ma sei proprio tu, Samuele? Oh! se non sei tu che attendo, chiunque tu sia, non farmi del male!».
   «Sono io, Abele, proprio io. E sano. Guarda come corro. Sono in ritardo, lo so. E ne avevo pena per te. Ma quando saprai… oh! tu sarai felice. E qui ho non solo i soliti tozzi di pane. Ma una intera pagnotta fresca e buona, tutta per te, e ho anche del buon pesce e un formaggio. Tutto per te. Voglio tu faccia festa, mio povero amico, per prepararti alla festa più grande».
   «Ma come sei tanto ricco? Io non capisco…».
   «Ora ti dirò».
   «E sano. Non sembri più tu!».

   63.3«Senti, dunque. Ho saputo che a Cafarnao era quel Rabbi che è santo, e sono andato…».
   «Fermati, fermati! Sono infetto».
   «Oh! non importa! Non ho più paura di niente». L’uomo, che non è altro che il povero rattratto guarito e beneficato da Gesù nell’orto della suocera di Pietro[136], è infatti giunto col suo passo veloce a pochi passi dal lebbroso. Ha parlato camminando e ridendo felice.
   Ma il lebbroso dice ancora: «Fermati, in nome di Dio. Se ti vede qualcuno…».
   «Mi fermo. Guarda, metto qui le provviste. Mangia, mentre io parlo». Pone su un grosso sasso un fagottello e lo apre. Poi si ritrae qualche passo, mentre il lebbroso si avanza e si getta sul cibo inusato.
   «Oh! quanto è che non mangiavo così! Come è buono! E pensare che pensavo che sarei andato al riposo a stomaco vuoto. Non un pietoso oggi… e tu neppure… Mi ero masticato dei radicchi…».
   «Povero Abele! Lo pensavo. Ma dicevo: “Bene. Ora sarà triste. Ma poi sarà felice!”».
   «Felice, sì, per questo buon cibo. Ma poi…».
   «No! Sarai felice per sempre».
   Il lebbroso scuote il capo.
   «Senti, Abele. Se tu puoi aver fede, sarai felice».
   «Ma fede in chi?».
   «Nel Rabbi. Nel Rabbi che ha guarito me».
   «Ma io sono lebbroso e all’ultimo punto! Come può guarirmi?».
   «Oh! Lo può. È santo».
   «Sì, anche Eliseo guarì Naaman lebbroso[137]… Lo so… Ma io… Io non posso andare al Giordano».
   «Tu sarai guarito senza bisogno d’acqua. Ascolta: questo Rabbi è il Messia, capisci? Il Messia! Il Figlio di Dio è. E guarisce tutti quelli che hanno fede. Dice: “Voglio” e i demoni scappano, e le membra si raddrizzano, e gli occhi ciechi vedono».
   «Oh! se avrei fede, io! Ma come posso vedere il Messia?».
   «Ecco… sono venuto per questo. Egli è là, in quel paese. So dove è questa sera. Se vuoi… Io ho detto: “Lo dico ad Abele, e se Abele sente di aver fede lo conduco al Maestro”».
   «Sei pazzo, Samuele? Se mi avvicino alle case sarò lapida­to».
   «Non nelle case. La sera sta per scendere. Ti condurrò sino a quel boschetto e poi andrò a chiamare il Maestro. Te lo condurrò…».
   «Va’, va’ subito! Vengo da me sino a quel punto. Camminerò nel fossato, fra la siepe, ma tu va’, va’… Oh! va’, amico buono! Se sapessi cosa è aver questo male! E cosa è sperare di guarire!…». Il lebbroso non si cura neppur più del cibo. Piange e gestisce implorando l’amico.
   «Vado, e tu vieni». L’ex-rattratto va via di corsa.

   63.4Abele scende a fatica nel fosso che costeggia la via, tutto pieno di cespugli cresciuti nel fondo asciutto. Vi è appena al centro un filo d’acqua. La sera scende mentre l’infelice scivola fra le macchie dei cespugli, sempre all’erta se ode un passo. Due volte si appiatta nel fondo: la prima per un cavaliere che percorre al trotto la via, la seconda per tre uomini carichi di fieno, diretti al paese. Poi prosegue.
   Ma prima di lui giunge al boschetto Gesù con Samuele. «Fra poco sarà qui. Va lento per le piaghe. Abbi pazienza».
   «Non ho fretta».
   «Lo guarirai?».
   «Ha fede?».
   «Oh!… moriva di fame, vedeva quel cibo dopo anni di astinenza, eppure ha lasciato tutto dopo pochi bocconi per correre qui».
   «Come lo hai conosciuto?».
   «Sai… vivevo di elemosina dopo la mia sventura e percorrevo le vie per andare da un luogo all’altro. Di qui passavo ogni sette giorni e avevo conosciuto quel poverello… un giorno in cui, costretto[138] dalla fame, si era spinto, sotto un temporale da mettere in fuga i lupi, sin sulla via del paese, in cerca di qualcosa. Frugava fra le immondizie come un cane. Io avevo del pane secco nella bisaccia, obolo di persone buone, e ho fatto a mezzo con lui. Da allora siamo amici e ogni settimana lo rifornisco. Con quel che ho… Se ho molto, molto; se poco, poco. Faccio quel che posso come mi fosse un fratello. È dalla sera che mi hai guarito, benedetto Tu sia, che penso a lui… e a Te».
   «Sei buono, Samuele; per questo la grazia ti ha visitato. Chi ama merita tutto da Dio.

   63.5Ma ecco là qualcosa fra le frasche…».
   «Sei tu, Abele?».
   «Sono io».
   «Vieni. Il Maestro ti attende qui, sotto il noce».
   Il lebbroso emerge dal fosso e monta sulla sponda, la valica, si addentra nel prato. Gesù, col dorso addossato ad un altissimo noce, lo attende.
   «Maestro, Messia, Santo, pietà di me!», e si butta tutto fra l’erba, ai piedi di Gesù. Col volto al suolo dice ancora: «O Signore mio! Se Tu vuoi, Tu puoi mondarmi!». E poi osa alzarsi sui ginocchi e tende le braccia scheletrite, dalle mani contorte, e tende il volto ossuto, devastato… Le lacrime scendono dalle orbite malate alle labbra corrose.
   Gesù lo guarda con tanta pietà. Guarda questa larva d’uomo che il male orrendo divora, e che solo una vera carità può sopportare vicino, tanto è ripugnante e maleodorante. Eppure ecco che Gesù tende una mano, la sua bella, sana mano destra, come per carezzare il poveretto.
   Questo, senza alzarsi, si butta però indietro, sui calcagni, e grida: «Non mi toccare! Pietà di Te!».
   Ma Gesù fa un passo avanti. Solenne, buono, soave, posa le sue dita sulla testa mangiata dalla lebbra e dice, con voce piana, tutta amore eppure piena di imperio: «Lo voglio! Sii mondato!». La mano rimane per qualche minuto sulla povera testa. «Alzati. Vai dal sacerdote. Compi quanto la Legge prescrive. E non dire quanto ti ho fatto. Ma solo sii buono. Non peccare mai più. Ti benedico».
   «Oh! Signore! Abele! Ma tu sei tutto sano!». Samuele, che vede la metamorfosi dell’amico, grida di gioia.
   «Sì. È sano. Lo ha meritato per la sua fede. Addio. La pace sia con te».
   «Maestro! Maestro! Maestro! Io non ti lascio! Io non ti posso lasciare!».
   «Fai quanto vuole la Legge. Poi ci vedremo ancora. Per la seconda volta sia su te la mia benedizione».
   Gesù si avvia facendo cenno a Samuele di restare. E i due amici piangono di gioia, mentre alla luce di un quarto di luna tornano alla spelonca per l’ultima sosta in quella tana di sventura.
   La visione cessa così.

[135] 6 è d’incerta lettura sul manoscritto originale, dove sembrerebbe corretto in 8. Precisiamo che le date, poste da MV all’inizio di ogni capitolo, vengono riportate in modo uniforme, cioè mettendo il nome del mese anche quando MV indica il mese con il numero d’ordine, e aggiungendo l’anno se MV lo tralascia.
[136] nell’orto della suocera di Pietro è un’aggiunta di MV su una copia dattiloscritta.
[137] Eliseo guarì Naaman lebbroso, come si narra in: 2 Re 5, 1-14.
[138] costretto, invece di spinto, è correzione di MV (per evitare la ripetizione) su una copia dattiloscritta.