MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME IV CAPITOLO 295



CCXCV. Il discorso e i miracoli ad Arbela, già evangelizzata da Filippo di Giacobbe.

   4 ottobre 1945.

   295.1 Alla prima persona alla quale si rivolgono chiedendo di Filippo di Giacobbe, si accorgono di quanto ha lavorato il giovane discepolo. L’interrogata, una vecchierella grinzosa che porta a fatica una brocca piena d’acqua, fissando con gli occhietti incavati dall’età il bel volto di Giovanni — che le ha fatto sorridendo la domanda, precedendola da un «La pace sia con te», così dolce che la vecchia ne è stata conquisa — dice: «Sei tu il Messia?».
   «No. Ma il suo apostolo. Egli è là che viene».
   La vecchia pone al suolo la sua brocca e arranca nella direzione indicata, per poi inginocchiarsi davanti a Gesù.
   Giovanni, rimasto con Simone davanti alla brocca che si è quasi ribaltata spargendo metà del suo liquido, sorride dicendo al compagno: «Ci conviene prendere questa brocca e andare a raggiungere la vecchia». E lo fa avviandosi, mentre il compagno soggiunge: «E ci servirà per bere. Abbiamo tutti sete».
   Quando raggiungono la vecchierella — che, non sapendo cosa dire di preciso, continua a ripetere: «Bello, santo Figlio della più santa Madre!», stando in ginocchio e bevendo con gli occhi la figura di Gesù, che le sorride ripetendo a sua volta:
   «Alzati, madre. Ma alzati, dunque», — quando la raggiungono, Giovanni le dice: «Abbiamo preso la tua brocca. Ma si è quasi capovolta. Poca acqua c’è. Ma, se tu ce lo concedi, noi beveremo quest’acqua e poi ti riempiremo la brocca».
   «Sì, figli, sì. E mi spiace di non avere che acqua per voi. Latte come quando nutrivo il mio Giuda vorrei avere nel seno, per darvi la più dolce cosa che sia sulla Terra: un latte di madre. Vino vorrei avere del più scelto, per corroborarvi. Ma Marianna di Eliseo è vecchia e povera…».
   «La tua acqua mi è vino e mi è latte, madre, perché è data con amore», risponde Gesù bevendo per il primo alla brocca che Giovanni gli porge. Poi bevono gli altri.
   La vecchia, che si è infine alzata, li guarda come guarderebbe il Paradiso, e quando vede che, avendo bevuto tutti, stanno per gettare l’acqua rimasta e per dirigersi alla fonte che chioccola in fondo alla via, ecco che allora la vecchia si getta avanti, difendendo la brocca e dicendo: «No, no. Più di acqua lustrale è santa questa in cui Lui ha bevuto. Io la terrò con cura per essere con essa mondata dopo la morte». E si afferra la sua brocca, dicendo: «La porto in casa. Ne ho delle altre. Empirò quelle.

   295.2 Ma prima vieni, Santo, che ti mostro la casa di Filippo»; e trotterella lesta, tutta curva e tutta un riso nel volto grinzoso, negli occhietti che la gioia ravviva. Trotterella tenendo un lembo del mantello di Gesù fra le dita, quasi temesse che Egli le possa sfuggire, e difende la sua brocca dalle insistenze degli apostoli che vorrebbero che lei non portasse quel peso. Trotterella beata, guardando la via e le case di Arbela, deserta la prima, chiuse le altre nella sera che scende, con lo sguardo di un conquistatore, felice della sua vittoria.
   Finalmente, passando da questa via secondaria ad una più centrale dove vi è della gente che si affretta alle case — e la gente la osserva stupita, additandosela e interpellandola — ella, dopo aver atteso di avere intorno un cerchio di gente, strilla:
   «Ho con me il Messia di Filippo. Correte a darne l’avviso ovunque e per primo alla casa di Giacobbe. Che siano pronti ad onorare il Santo». Strilla a perdifiato. Sa farsi ubbidire. È la sua ora di comando, povera vecchietta popolana, sola, sconosciuta. E vede tutta una città commuoversi per il suo comando.
   Gesù, tanto più alto di lei, le sorride quando lei lo guarda di tanto in tanto, e le pone la mano sul capo senile, in una carezza di figlio che la fa tramortire di felicità.

   295.3 La casa di Giacobbe è in una via del centro. Tutta aperta e illuminata, mostra dal portone un lungo ingresso in cui si agita della gente con dei lumi, che corre fuori festante non appena Gesù appare nella via. Il giovane discepolo Filippo, poi la madre e il padre, i parenti, i servi, gli amici.
   Gesù si ferma e risponde con maestà al saluto profondo di Giacobbe, poi si china sulla madre di Filippo che lo venera in ginocchio e la fa alzare benedicendola e dicendole: «Sii sempre felice per la tua fede». Indi saluta il discepolo accorso con l’altro che era con lui, che Gesù pure saluta.
   La vecchia Marianna, nonostante tutto, non lascia il lembo del mantello e il suo posto a fianco di Gesù finché non sono per porre piede nell’atrio. Allora geme: «Una benedizione perché io sia felice! Ora Tu stai qui… io vado nella mia povera casa e… tutto il bello è finito!». Quanto rimpianto nella voce senile!
   Giacobbe, al quale la moglie ha parlato piano, dice: «No, Marianna di Eliseo. Resta tu pure nella mia casa come tu fossi una discepola. Resta finché il Maestro sarà con noi e sii felice così».
   «Dio ti benedica, uomo. Tu comprendi la carità».
   «Maestro… Ella ti ha condotto alla mia casa. Tu mi hai fatto grazia e carità. Non faccio che rendere, e sempre in maniera meschina, il molto che da Te e da lei ho ricevuto. Entra, entrate, e vi sia ospitale la mia casa».
   La folla, di fuori nella via, li vede entrare e grida: «E noi?
   Vogliamo sentire la sua parola».
   Gesù si volge: «È notte. Stanchi siete. Preparate l’anima con un santo riposo e domani sentirete la Voce di Dio. Per ora siano con voi pace e benedizione».
   E il portone si chiude sulla felicità di questa casa.
   Giacomo di Zebedeo osserva al Signore, mentre si purificano dal viaggio: «Forse era meglio parlare subito e partire all’alba. I farisei sono in città. Me lo ha detto Filippo. Ti daranno noia».
   «Quelli che avrebbero avuto noia da essi, sono lontani. La noia che potranno darmi non ha valore. C’è l’amore che l’annulla»…

   295.4 La mattina di poi… L’uscita festante fra i famigliari di Filippo e gli apostoli. La vecchietta è dietro. L’incontro con quelli di Arbela che attendono pazienti. L’andata nella piazza principale dove Gesù inizia a parlare.
   «Si legge nel capo ottavo del secondo dell’Esdra quanto ora Io qui vi ripeto: “Giunto il settimo mese…” (Gesù mi dice: “Non mettere altro. Ripeto integralmente le parole del libro[101]”).
   Quando è che un popolo rimpatria? Quando ritorna nelle terre dei suoi padri. Io vengo a riportarvi nelle terre del Padre vostro, nel Regno del Padre. E lo posso perché a tanto Io sono stato mandato. Io vengo a portarvi perciò nel Regno di Dio, ed è perciò giusto equipararvi ai rimpatriati con Zorobabele in Gerusalemme, la città del Signore, ed è giusto fare con voi come Esdra lo scriba fece col popolo raccolto di nuovo fra le sacre mura. Perché ricostruire una città dedicandola al Signore, ma non ricostruire le anime che sono simili a tante piccole città di Dio, è stoltezza senza pari.
   Come ricostruire queste piccole città spirituali che tante ragioni hanno diroccato? Quali materie usare per farle solide, belle, durature? Le materie sono nei precetti del Signore. I dieci comandamenti, e voi li sapete perché Filippo, vostro figlio e mio discepolo, ve li ha ricordati. I due santi fra i santi precetti: “Ama Dio con tutto te stesso. Ama il prossimo come te stesso”. Questi sono il compendio della Legge. E questi Io predico, perché con essi è sicura la conquista del Regno di Dio. Nell’amore si trova la forza di conservarsi santi o di diventarlo, la forza del perdono, la forza dell’eroismo nelle virtù. Tutto si trova nell’amore.

   295.5 Non è la paura quella che salva. La paura del giudizio di Dio, la paura delle sanzioni umane, la paura delle malattie. La paura non è mai costruttiva. Essa scrolla, sgretola, scompagina, dirompe. La paura porta a disperazione, porta solo ad astuzie per celare il malfare, porta solo a temere quando ormai la tema è inutile perché il male è ormai in noi. Chi pensa, mentre è sano, ad agire con prudenza, per pietà del suo corpo? Nessuno. Ma appena il primo brivido di febbre serpeggia per le vene, o una macchia fa pensare a malattie immonde, ecco allora che viene la paura ad essere tormento aggiunto alla malattia, ad essere forza disgregatrice in un corpo che la malattia già disgrega.
   L’amore invece è costruttore. Esso edifica, solidifica, mantiene compatti, preserva. L’amore porta speranza in Dio. L’amore porta fuga dal malfare. L’amore porta a prudenza verso la propria persona, che non è il centro dell’universo, come lo credono e lo fanno gli egoisti, i falsi amorosi di se stessi perché amano una parte sola, quella meno nobile, a scapito della parte immortale e santa, ma che è sempre doveroso conservare sana fino a che a Dio non piacerà il contrario, per essere utili a se stessi, ai parenti, alla propria città, alla nazione tutta.
   È inevitabile che vengano le malattie. Né è detto che ogni malattia sia prova di vizio o di punizione. Vi sono le sante malattie mandate dal Signore ai suoi giusti perché nel mondo, che fa di se stesso il tutto e il mezzo del godimento, vi siano i santi che sono come ostaggi di guerra per la salvezza degli altri, e pa gano di persona perché sia espiata con la loro sofferenza la dose di colpa che il mondo giornalmente accumula e che finirebbe a crollare sull’umanità, seppellendola sotto la maledizione sua.
   Vi ricordate[102] del vecchio Mosè orante mentre Giosuè combatteva in nome del Signore? Dovete pensare che chi soffre con santità dà la più grande battaglia al feroce guerriero che sia nel mondo, nascosto sotto apparenze di uomini e popoli, a Satana, il Torturatore, l’Origine di ogni male, e si batte per tutti gli altri uomini. Ma quanta differenza tra queste[103] sante malattie che Dio manda e quelle che sono mandate dal vizio per un peccaminoso amore verso il senso! Le prime, prove della volontà benefica di Dio; le seconde, prove della corruzione satanica.
   Perciò bisogna amare per essere santi, perché l’amore crea, preserva, santifica.

   295.6 Io pure, annunciandovi questa verità, vi dico, come Nehemia ed Esdra: “Questo giorno è consacrato al Signore Iddio nostro. Non fate lutto, non piangete”. Perché ogni lutto cessa quando si vive il giorno del Signore. La morte cessa la sua asprezza perché da perdita di un figlio, di uno sposo, di un padre, madre o fratello, diviene momentanea e limitata separazione. Momentanea, perché con la nostra morte cessa. Limitata, perché si limita al corpo, al senso. L’anima nulla perde con la morte del parente estinto. Ma anzi non ne è limitata la libertà che a una delle parti: la nostra di superstiti con l’anima ancora serrata nella carne, mentre l’altra parte, quella già passata alla seconda vita, gode della libertà e della potenza di vegliarci e di ottenerci più, molto più di quando ci amava dalla carcere del corpo.
   Io vi dico, come Nehemia ed Esdra: “Andate a mangiare pingui carni e a bere dolce vino, e mandatene delle porzioni a quelli che non ne hanno, perché è giorno santo al Signore e perciò nessuno deve soffrire in esso. Non vi attristate, perché il gaudio del Signore, che è fra voi, è la forza di chi riceve la grazia del Signore altissimo fra le proprie mura e nei propri cuori”.
   Voi non potete più fare i Tabernacoli. Il loro tempo è passato. Ma alzatene di spirituali nei cuori. Salite sul monte, ossia ascendete verso la Perfezione. Cogliete rami d’ulivo, di mirto, di palma, di quercia, d’issopo, di ogni pianta più bella. Rami delle virtù di pace, di purezza, di eroismo, di mortificazione, di fortezza, di speranza, di giustizia, di tutte, tutte le virtù. Ornatevi lo spirito celebrando la festa del Signore. I suoi Tabernacoli vi attendono. I suoi. E sono belli, santi, eterni, aperti a tutti coloro che vivono nel Signore. E insieme con Me, oggi, proponete di fare penitenza sul passato, proponete di prendere una vita nuova.
   Non temete del Signore. Egli vi chiama perché vi ama. Non temete. Siete suoi figli come ognun d’Israele. Anche per voi Egli ha fatto il Creato e il Cielo, ha suscitato Abramo e Mosè, e aperto il mare, e creata la nuvola di guida, ed è sceso dal Cielo per dare la Legge, e ha aperto le nubi perché piovessero manna, e rese feconde le rupi perché dessero acqua. Ed ora, oh! che ora anche per voi manda il vivo Pane del Cielo alle vostre fami, manda la vera Vite e la Fonte di Vita eterna alle vostre seti. E per mia bocca vi dice: “Entrate a possedere la Terra sulla quale Io ho alzato la mano per darla a voi”. La mia spirituale Terra: il Regno dei Cieli».

   295.7 La folla si scambia parole entusiaste…
   Poi ecco i malati. Tanti. Gesù li fa allineare su due file e, mentre ciò si fa, chiede a Filippo di Arbela: «Perché non li hai guariti tu?».
   «Perché essi abbiano ciò che io ho avuto: la guarigione per mezzo tuo».
   Gesù passa benedicendo uno per uno i malati, ed è il solito prodigio che si ripete di ciechi che vedono e sordi che odono, muti che parlano, rattrappiti che si raddrizzano, febbri che cadono, debolezze che cessano.
   Le guarigioni sono finite.

   295.8 In ultimo, dopo l’ultimo malato, sono i due farisei andati a Bozra e altri due.
   «La pace a Te, Maestro. E a noi non dici nulla?».
   «Ho parlato per tutti».
   «Ma noi di quelle parole non abbiamo bisogno. Noi siamo i santi d’Israele».
   «A voi che maestri siete dico: commentate fra voi il capo che segue, il nono del secondo di Esdra[104], ricordando quante volte Dio vi ha usato fin qui misericordia e, battendovi il petto, dite, come fosse una preghiera, la conclusione del capitolo».
   «Ben detto, ben detto, Maestro. E i tuoi discepoli lo fanno?».
   «Sì. Lo esigo per prima cosa».
   «Tutti? Anche gli omicidi che sono nelle tue file?».
   «Vi pute l’odore del sangue?».
   «È voce che grida al Cielo».
   «Fate allora di non imitare mai coloro che lo spargono».
   «Non siamo assassini!».
   Gesù li fissa trapanandoli con lo sguardo.
   Non osano aggiungere parola per qualche tempo. Ma si accodano al gruppo che torna alla casa di Filippo, il quale si sente in dovere di invitarli ad entrare prendendo parte al banchetto. «Molto volentieri, molto! Staremo più a lungo col Maestro», dicono fra enormi inchini.
   Ma giunti nella casa paiono segugi… Guardano, sbirciano, fanno domande astute ai servi e persino alla vecchierella, che mi sembra attratta a Gesù come lo è il ferro dalla calamita. Ma lei risponde svelta: «Io ieri ho visto questi soli. Voi vi sognate. Io li ho accompagnati qui, e di Giovanni non c’era che quel fanciullo biondo e buono come un angelo». Quelli fulminano la nonnetta con un improperio e si volgono altrove.
   Ma un servo, senza rispondere direttamente a loro, si curva su Gesù, che seduto parla col padrone di casa, e gli chiede:
   «Dove è Giovanni di Endor? Questo signore lo cerca». Il fariseo fulmina il servo e lo bolla di «stolto».
   Ma Gesù ormai è al corrente delle loro intenzioni e occorre riparare come si può. Il fariseo dice: «Era per felicitarci con questo prodigio della tua dottrina, Maestro, e fare onore a Te attraverso al convertito».
   «Giovanni è per sempre lontano e sempre più lo sarà».
   «È ricaduto nel peccato?».
   «No. Sta salendo verso il Cielo. Imitatelo e nell’altra vita lo troverete».
   I quattro non sanno più che dire e prudentemente parlano d’altro. I servi annunciano pronte le mense e tutti passano nella stanza del convito.
   […].

[101] le parole del libro sono quelle di: Neemia 8, secondo la neo-volgata.
[102] ricordate, quanto si narra in: Esodo 17, 8-16.
[103] tra queste… e quelle, invece di da queste… da quelle, è correzione nostra.
[104] il nono [capitolo] del secondo [libro] di Esdra corrisponde, nella neo-volgata, a: Neemia 9.