MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME IV CAPITOLO 249



CCXLIX. Maria Ss. ammaestra Giuda Iscariota sul dovere preminente della fedeltà a Dio.

   10 agosto 1945.

   249.1 La mattina calma e solare favorisce la marcia su per delle colline messe sempre in direzione di ovest, ossia del mare.
   «Bene abbiamo fatto a giungere ai monti nelle prime ore del mattino. Non avremmo potuto rimanere per la pianura sotto questo sole. Ma qui c’è ombra e fresco. Compiango quelli che seguono la via romana. Buona per l’inverno», dice Matteo.
   «Dopo queste colline troveremo il vento del mare. Tempera sempre l’aria», dice Gesù.
   «Mangeremo là in cima. L’altro giorno era tanto bello. E di qui deve esserlo ancora di più, perché il Carmelo è più vicino e più vicino è il mare», aggiunge Giacomo d’Alfeo.
   «È pur bella la nostra patria!», esclama Andrea.
   «Sì. C’è proprio di tutto. Monti nevosi e colline dolci, laghi, fiumi, piante di ogni genere, né vi manca il mare. È proprio il paese di delizie che hanno celebrato i nostri salmisti, i nostri profeti, i nostri grandi guerrieri e poeti», dice il Taddeo.
   «Dinne qualche brano[38], tu che sai tante cose», prega Giacomo di Zebedeo.
   «“Con la bellezza del Paradiso Egli ha formato la terra di Giuda.
   Del sorriso dei suoi angeli ha decorato la terra di Neftali e coi fiumi di miele del cielo ha dato sapore ai frutti della sua terra.
   Tutto il creato si specchia in te, gemma di Dio, da Dio data al suo popolo santo.
   Più dolce dei grappoli pingui che maturano sulle pendici dei tuoi monti, più soave del latte che riempie il petto delle tue agnelle, più inebbriante del miele che ha il sapore dei fiori che ti vestono, terra beata, è la tua bellezza per il cuore dei tuoi figli.
   Il cielo è disceso a farsi fiume che unisce due gemme, a farti pendente e cintura sulla tua veste verde.
   Il tuo Giordano canta, e ride un tuo mare, e l’altro ricorda che Dio è terribile, mentre pare danzino i colli nell’ora della sera come gaie fanciulle su un prato, e i tuoi monti pregano nelle albe angeliche o cantano l’alleluia nell’ardore del sole, o anche adorano insieme alle stelle la tua potenza, Signore altissimo.
   Non ci hai chiuso fra serrati confini, ma davanti ci hai lasciato l’aperto mare per dirci che il mondo è nostro”».
   «Bello, eh! Proprio bello! Io non sono stato che sul lago e a Gerusalemme; per anni e anni non ho visto altro. Ora conosco solo la Palestina. Ma sono certo che niente di più bello è nel mondo», dice Pietro, pieno di orgoglio nazionale.
   «Maria mi diceva che è molto bella anche la valle del Nilo», dice Giovanni.
   «E l’uomo di Endor parla di Cipro come di un paradiso», aggiunge Simone.
   «Eh! ma la nostra terra!…»…
   E gli apostoli, tutti meno l’Iscariota e Tommaso che sono insieme a Gesù, un poco avanti, proseguono a lodare le bellezze della Palestina.
   Ultime vengono le donne, che non possono trattenersi dal raccogliere sementi di fiori per piantarle nei loro orticelli o nei loro giardini, e perché sono belli e perché saranno un ricordo del loro viaggio.

   249.2 Delle aquile, credo marittime, o avvoltoi, fanno larghi giri sulle creste delle colline, abbassandosi talora in cerca di preda. E una zuffa si accende fra due avvoltoi che giostrano, giostrano, perdendo penne, in un elegante e feroce duello che finisce con la fuga del vinto, che forse va a morire su di un picco remoto. Almeno così giudicano tutti, tanto il suo volo è stanco, da morente.
   «Gli ha fatto male l’ingordigia», commenta Tommaso.
   «L’ingordigia e l’ostinazione fanno sempre male. Anche quei tre di ieri!… Misericordia eterna! Che brutta sorte!», dice Matteo.
   «Non guariranno mai?», chiede Andrea.
   «Chiedilo al Maestro».
   Gesù, interrogato, risponde: «Meglio sarebbe chiedere se si convertiranno. Perché in verità vi dico che è preferibile morire lebbroso e santo che sano e peccatore. La lebbra resta sulla terra, nella tomba. Ma il peccato resta nell’eternità».

   249.3 «A me è piaciuto molto il tuo discorso di ieri sera», dice lo Zelote.
   «A me no, invece. Era molto severo per troppi in Israele», dice l’Iscariota.
   «Sei tu fra questi?».
   «No, Maestro».
   «E allora? Perché te la prendi?».
   «Ma perché ti può nuocere».
   «Dovrei allora, per non incontrare nocumento, patteggiare ed esser complice coi peccatori?».
   «Non dico questo. Non lo potresti fare. Ma tacere. Non inimicarti i grandi…».
   «Tacere è acconsentire. Io non acconsento alle colpe. Né dei piccoli, né dei grandi».
   «Ma lo vedi che cosa è accaduto al Battista?».
   «La sua gloria».
   «La sua gloria? Mi pare la sua rovina».
   «Persecuzione e morte per fedeltà al nostro dovere sono gloria all’uomo. Il martire è sempre glorioso».
   «Ma con la morte impedisce a se stesso di essere maestro, dà dolore a discepoli e famigliari. Esce lui da ogni pena, ma lascia gli altri in pene ben maggiori. Il Battista non ha parenti, è vero. Ma ha sempre doveri verso i discepoli».
   «Anche avesse parenti, sarebbe uguale. La vocazione è più del sangue».
   «E il quarto comandamento?».
   «Viene dopo quelli dedicati a Dio».
   «Una madre, Tu l’hai visto ieri come soffre per un figlio…».
   «Madre! Vieni qui».
   Maria accorre presso Gesù e chiede: «Che vuoi, Figlio mio?».
   «Madre, Giuda di Keriot sta perorando la tua causa perché ti ama e mi ama».
   «La mia causa? In che?».
   «Mi vuole persuadere ad una maggior prudenza perché Io non sia colpito come il nostro parente, il Battista. E mi dice che bisogna aver pietà delle madri, risparmiandosi per esse, perché così vuole il quarto comandamento. Tu che ne dici? Ti cedo la parola, Madre, perché tu ammaestri con dolcezza questo Giuda nostro».

   249.4 «Io dico che non amerei più mio Figlio come Dio, che giungerei a dubitare di essermi sempre ingannata, di essere sempre stata ingannata sulla sua Natura, se lo vedessi venire meno alla sua perfezione con abbassare il suo pensiero a considerazioni umane, perdendo di vista le considerazioni soprumane: ossia il redimere, il cercare di redimere gli uomini, per amore degli stessi e per gloria di Dio, a costo di crearsi pene e rancori. Lo amerei ancora come un figlio traviato da una forza malvagia, per pietà, perché mi è figlio, perché sarebbe un disgraziato, ma non più con quella pienezza di amore con cui lo amo ora che lo vedo fedele al Signore».
   «A Se stesso, vuoi dire».
   «Al Signore. Ora Egli è il Messia del Signore e deve essere fedele al Signore così come ogni altro, anzi più di ogni altro, perché Egli ha la missione più grande di ogni altra che fu, che è e che sarà sulla Terra, e certo ha da Dio gli aiuti proporzionati a tanta missione».
   «Ma se gli accadesse del male non piangeresti?».
   «Tutte le mie lacrime. Ma lacrime e sangue piangerei se lo vedessi fedifrago a Dio».
   «Ciò diminuirà molto le colpe di quelli che lo perseguiteranno».
   «Perché?».
   «Perché tanto te che Lui quasi li giustificate».
   «Non te lo pensare. Le colpe saranno sempre uguali agli occhi di Dio, sia che noi si giudichi che ciò è inevitabile, come che si giudichi che nessun uomo di Israele dovrebbe essere in colpa verso il Messia».
   «Uomo di Israele? E se fossero gentili non sarebbe lo stesso?».
   «No. Per i gentili non ci sarebbe che la colpa verso un loro simile. Israele sa chi è Gesù».
   «Molto Israele non lo sa».
   «Non lo vuole sapere. È incredulo di proposito. Alla anticarità unisce perciò l’incredulità e nega la speranza. Calpestare le tre virtù principali non è colpa minima, Giuda. È grave, spiritualmente grave più dell’atto materiale verso mio Figlio».
   Giuda, a corto di argomenti, si curva ad allacciarsi un sandalo rimanendo indietro.

   249.5 La vetta, o meglio, uno scrimolo che è quasi sulla vetta, uno scrimolo che si protende tutto in avanti come volesse correre verso l’azzurro riso del mare infinito, è raggiunto. Un folto bosco di elci fa una luce di smeraldo chiaro, punteggiata da morbidi aghi di sole su questa cresta di monte che è vaga, che è ariosa, aperta sull’ormai prossima sponda marina, di fronte alla maestosa catena del Carmelo. In basso, ai piedi del monte dallo scrimolo sporgente come per ansia di volo, dopo campicelli a mezza costa, vi è una stretta valle con un torrente profondo, certo imponente per violenza d’acque nei tempi di piena, ora ridotto ad uno spumeggio d’argento al centro del letto. Il torrente corre verso il mare rasentando la base del Carmelo. Una via corre presso il torrente, sopraelevata sull’argine destro, congiungente una città messa nel centro dell’insenatura della costa a quelle dell’interno, forse della Samaria, se mi oriento bene.
   «Quella città è Sicaminon», dice Gesù. «Vi saremo a sera fatta. Ora riposiamo perché difficile è la discesa, sebbene fresca e breve».
   E seduti in cerchio, mentre si arrostisce su un rustico spiedo un agnello, certo dono dei pastori, parlano fra loro e con le donne…

[38] qualche brano: i brani citati non sembrano ripresi testualmente dalla sacra Scrittura, che tuttavia ne riflette il concetto in vari passi soprattutto del Pentateuco e dei Salmi.