MARIA
VALTORTA

Voglio che le anime possano bere alla Fonte vitale della mia parola

"Quando la Chiesa - e per tale alludo ora alla riunione degli alti dignitari di Essa - agì secondo i dettami della mia Legge e del mio Vangelo, la Chiesa conobbe tempi fulgidi di fulgore. Ma guai quando, anteponendo gli interessi della Terra a quelli del Cielo, inquinò Se stessa con passioni umane! Tre volte guai quando adorò la Bestia di cui parla Giovanni, ossia la Potenza politica, e se ne fece asservire..." (Qd 12 dicembre 1943)

OPERA MAGGIORE

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VOLUME IV CAPITOLO 248



CCXLVIII. A Betlem di Galilea. Giudizio per un omicidio e parabola delle foreste pietrificate.

   9 agosto 1945.

   248.1 È sera quando giungono a Betlem di Galilea. Si capisce che è destino delle città di questo nome essere adagiate su ondulate colline, fasciate di verde, di boschi, di prati, su cui pasturano greggi scendendo verso gli ovili per la notte. L’aria rossa, vestigio del potente tramonto appena compiuto, è piena di una pastorale musica di campani e di un tremolare di belati, ai quali si uniscono i gridi allegri dei bambini che giuocano e le voci delle madri che li chiamano.
   «Giuda di Simone, va’ con Simone a cercare alloggio per noi e le donne. Al centro del paese è l’albergo e là vi raggiungeremo».
   Mentre Giuda e lo Zelote ubbidiscono, Gesù si volge alla Madre e dice: «Questa volta non sarà come all’altra Betlemme. Troverai riposo, Madre mia. Pochi si muovono in questa stagione e non vi è nessun editto».
   «Con questa stagione sarebbe dolce anche dormire sui prati o in mezzo a questi pastori, fra gli agnellini», e Maria sorride al Figlio e sorride a dei pastorelli curiosi che la guardano fisso.

   248.2 Sorride in tal maniera che uno dà di gomito all’altro e gli dice sottovoce: «Non può che essere Lei», e si fa avanti, sicuro, dicendo: «Ti saluto, Maria piena di grazia. Il Signore è con Te?».
   Maria risponde con un ancor più dolce sorriso: «Eccolo il Signore», e accenna a Gesù, che si è voltato a parlare con i cugini dando loro incarico di dare oboli ai poveri che si avvicinano con lamentose richieste. E tocca leggermente suo Figlio, la Madre, dicendogli: «Figlio mio, questi pastorelli cercano di Te e mi hanno riconosciuta. Non so come…».
   «Certo di qui è passato Isacco lasciando il profumo della ri velazione. Giovinetto, vieni qui».
   Il pastorello, un brunetto sui dodici-quattordici anni, robusto sebbene magro, dagli occhi vivi e nerissimi, dai capelli spioventi con una zazzera d’ebano, avvolto nella sua pelle di pecora — e mi sembra una copia giovinetta del Precursore — si accosta con un sorriso beato, come affascinato, a Gesù.
   «La pace a te, fanciullo. Come hai riconosciuto Maria?».
   «Perché solo la Madre del Salvatore poteva avere quel sorriso e quel volto. Mi fu detto: “Un volto di angelo, degli occhi di stella e un sorriso che è più dolce del bacio di una madre, dolce come il suo nome che è Maria, santo tanto da potersi curvare sul Dio neonato”. Ho visto questo in Lei e l’ho salutata perché ti cercavo. Ti cercavamo, Signore, e… non osavo salutare Te per primo».
   «Chi ti ha parlato di noi?».
   «Isacco dell’altra Betlemme, promettendoci di condurci da Te come viene l’autunno».
   «Fu qui Isacco?».
   «È ancora per queste contrade, con tanti discepoli. Ma a noi pastori fu lui che parlò. E noi abbiamo creduto alla sua parola.

   248.3 Signore, lascia che noi pure ti si adori come quei compagni nostri nella notte beata»; e, mentre si inginocchia nella polvere della via, getta un grido agli altri pastori che hanno fermato il gregge alle porte della città (porte per modo di dire, perché non è città murata) là dove anche Gesù si era fermato per attendere le donne ed entrare con esse in paese.
   Il pastorello grida: «Padre, fratelli e amici, abbiamo trovato il Signore. Venite e adoriamo».
   E i pastori vengono ad affollarsi col gregge intorno a Gesù e a pregarlo di non andare da altri ma di accettare la loro povera casa, poco lontana, per sua dimora e per quella dei suoi amici.
   «È un ampio ovile», spiegano, «poiché Dio ci protegge e vi sono stanze e portici colmi di fieno fragrante. Le stanze alla Madre e alle sue sorelle, perché donne sono. Ma anche per Te ve ne è una. Gli altri possono dormire con noi sotto i portici, sul fieno».
   «Io pure starò con voi. E mi sarà più dolce riposo che se dormissi nella stanza del re. Andiamo però prima ad avvisare Giuda e Simone».
   «Vado io, Maestro», dice Pietro e se ne va insieme a Giacomo di Zebedeo.
   Sostano sul margine della via attendendo il ritorno dei quattro apostoli.

   248.4 I pastori guardano Gesù come fosse già Dio nella sua gloria. I più giovani poi sono proprio beati, e sembra vogliano stamparsi nella mente ogni particolare di Gesù e di Maria, che si è curvata ad accarezzare degli agnelli venuti a drizzare il musetto, belando, contro i suoi ginocchi.
   «Ce ne era uno, in casa di Elisabetta mia parente, che mi leccava le trecce ogni volta che mi vedeva. Lo chiamavo “amico” perché mi era proprio amico come un fanciullo e appena poteva correva da me. Questo me lo ricorda tutto, con questi occhi di due colori. Non lo uccidete! Anche l’altro fu lasciato vivere per questo suo amore per me».
   «È un’agnella, Donna, e la volevamo vendere perché ha gli occhi di due colori e credo che da uno poco ci veda. Ma la terremo se tu vuoi».
   «Oh! sì! Già io non vorrei mai che fosse ucciso nessun agnellino… Sono così innocenti e con una voce da bambino che chiama la mamma. Mi parrebbe di uccidere un bambino a uccidere uno di questi».
   «Ma allora, Donna, non ci sarebbe più posto per noi sulla terra se vivessero tutti gli agnellini», dice il pastore più anziano.
   «Lo so. Ma io penso al loro dolore e a quello delle pecore madri. Piangono tanto quando si levano a loro i figli. Sembrano proprio madri come noi. E io non posso vedere soffrire nessuno, ma ho strazio per una madre straziata. È un dolore diverso da ogni altro, perché a noi si lacerano non solo cuore e cervello per la percossa della morte di un figlio, ma fino le viscere stesse. Noi madri rimaniamo unite col figlio, sempre. Ed è lacerarci tutte il levarcelo».
   Non sorride più Maria, ma ha un luccichio di pianto nell’occhio azzurro e guarda il suo Gesù che l’ascolta e la guarda, e gli posa una mano sul braccio, come se temesse che Egli fosse per esserle strappato dal fianco.

   248.5 Dalla via polverosa viene una piccola scorta di armati: sei uomini, unita a persone vocianti. I pastori guardano e parlano sottovoce fra di loro. Poi guardano Maria e Gesù.
   Il più vecchio parla: «Allora è stato bene che tu non entrassi in Betlem questa sera».
   «Perché?».
   «Perché quella gente, che ora è passata entrando in città, va per strappare un figlio a una madre».
   «Oh! ma perché?».
   «Per ucciderlo».
   «Oh! no! Che ha fatto?».
   Anche Gesù lo chiede e gli apostoli si affollano per sentire.
   «È stato trovato ucciso per la via del monte il ricco Gioele. Tornava da Sicaminon, pieno di denaro. Ma ladroni non sono stati, perché il denaro era ancora sul morto. Il servo che lo accompagnava disse che il padrone gli aveva detto di correre avanti per avvisare del ritorno, e per la via, diretto verso il luogo dove fu commesso l’omicidio, vide solo il giovane che ora sarà ucciso. Due, poi, del paese, giurano di averlo visto aggredire Gioele. Ora i parenti del morto esigono la sua morte. E se omicida è…».
   «Non lo credi?».
   «Non mi pare cosa possibile. Il giovane è poco più di un ragazzo, è buono, vive sempre con la madre di cui è l’unico figlio, e lei è vedova, e vedova santa. Non gli mancano i mezzi. Non pensa alle femmine. Non è rissoso. Non è folle. Perché allora ha ucciso?».
   «Ma ha forse dei nemici?».
   «Chi? Gioele il morto o Abele l’accusato?».
   «L’accusato».
   «Ah! Non saprei… Ma… Non saprei».
   «Sii schietto, uomo».
   «Signore, è una cosa che penso, e Isacco ci ha detto che non si deve pensare male del prossimo».
   «Ma si deve avere coraggio di parlare per salvare un innocente».
   «Se parlo, abbia io ragione o torto, dovrò fuggire di qua perché Aser e Giacobbe sono potenti».
   «Parla senza temere. Non sarai costretto a fuggire».
   «Signore, la madre di Abele è giovane, bella e saggia. Aser saggio non è, e non lo è Giacobbe. Al primo piace la vedova e al secondo… il paese sa che il secondo è un cuculo nel talamo di Gioele. Io penso che…».
   «Ho capito.

   248.6 Andiamo, amici. Restate pure, voi donne, coi pastori. Tornerò presto».
   «No, Figlio. Io vengo con Te».
   Gesù già cammina sollecito verso l’interno della città. I pastori restano indecisi, ma poi abbandonano il gregge ai più giovani che restano con tutte le donne, meno la Madre e Maria d’Alfeo che seguono Gesù, e si danno a raggiungere il gruppo apostolico.
   Alla terza strada che taglia la via principale di Betlem si incontrano con l’Iscariota, Simone, Pietro e Giacomo, che vengono in giù gestendo e vociando.
   «Che fatto, Maestro! Che fatto! e che pena!», dice Pietro sconvolto.
   «Un figlio preso a forza alla madre per essere ucciso, e lei lo difende come una iena. Ma è donna contro degli armati», aggiunge Simone Zelote.
   «Sanguina già da molte parti», dice l’Iscariota.
   «Le hanno sfondato la porta perché si era barricata in casa», termina Giacomo di Zebedeo.
   «Vado da lei».
   «Oh! sì! Tu solo puoi consolarla».

   248.7 Piegano a destra, poi a sinistra, verso il centro del paese.
   Già si vede l’affollamento tumultuoso che si agita e pressa vicino alla casa di Abele, e delle grida laceranti di donna, disumane, feroci e pietose insieme, giungono fin qui.
   Gesù affretta il passo giungendo ad una minuscola piazzetta – una curva della strada, che qui si allarga, più che una piazzetta – nella quale il tumulto è al colmo.
   La donna contende ancora il figlio alle guardie stando abbrancata con una mano, che è divenuta artiglio di ferro, al rudere della porta abbattuta, e con l’altra sta allacciata alla cintura del figlio, e se uno cerca di staccarla di là morde ferocemente, incurante dei colpi che riceve né delle strappate ai capelli, che le danno in maniera così feroce che le rovesciano indietro il capo; e quando non morde urla: «Lasciatelo! Assassini! È innocente! La notte che fu ucciso Gioele egli era nel letto al mio fianco! Assassini! Assassini! Calunniatori! Immondi! Spergiuri!».
   E il giovanetto, afferrato per le spalle dai catturatori, trascinato per le braccia, si volge indietro col volto sconvolto e urla: «Mamma! Mamma! Perché devo morire se non ho fatto nulla?». È un bel giovinetto alto e snello, dagli occhi oscuri e dolci, i capelli morati un poco mossi. La veste lacerata mostra il corpo agile e giovanile, quasi ancora di fanciullo.
   Gesù, con l’aiuto di chi l’accompagna, spezza la folla compatta come un masso e si fa strada fino al gruppo pietoso, proprio nel momento in cui la donna, spossata, viene strappata dalla porta e trascinata, come un sacco legato al corpo del figlio, per la strada sassosa.
   Ma ciò dura per pochi metri. Un più fiero strattone divelle la mano materna dalla cintura del figlio, e la donna cade prona battendo duramente il viso al suolo, sanguinando più ancora. Ma subito si rialza stando in ginocchio, tendendo le braccia, mentre il figlio, portato via velocemente, per quanto lo concede la folla che si apre a fatica, si libera il braccio sinistro e lo agita, storcendosi indietro e gridando: «Mamma! Addio! Ricorda, tu almeno, che io sono innocente!». La donna lo guarda con occhi da pazza e poi piomba a terra svenuta.

   248.8 Gesù si para davanti al gruppo dei catturatori. «Fermatevi un momento. Ve lo ordino!». E il suo viso non ammette replica.
   «Chi sei?», dice aggressivo un cittadino che è nel gruppo.
   «Non ti conosciamo. Scansati e lasciaci andare perché sia ucciso prima che la notte venga».
   «Un Rabbi sono. Il più grande. In nome di Jeovè fermatevi, o Egli vi fulminerà». Intanto pare che fulmini Lui. «Chi è testimonio contro costui?».
   «Io, lui e lui», risponde quello che ha parlato prima.
   «La vostra testimonianza non è valida perché non è vera».
   «E perché lo puoi dire? Noi siamo pronti a giurarlo».
   «Il vostro giuramento è peccato».
   «Noi peccare? Noi?».
   «Voi. Come covate lussuria, come nutrite odio, come avete avidità di ricchezze, come siete omicidi, così siete anche spergiuri. Vi siete venduti alla Immondezza. Potete compiere qualunque lordura».
   «Guarda come parli! Io sono Aser…».
   «Ed Io sono Gesù».
   «Non sei di qui, non sei sacerdote né giudice. Nulla sei. Sei lo straniero».
   «Sì, sono lo Straniero perché la Terra non è il mio Regno.
   Ma sono Giudice e Sacerdote. Non solo di questa piccola parte d’Israele, ma di tutto Israele e di tutto il mondo».
   «Andiamo, andiamo! Abbiamo a che fare con un pazzo», dice l’altro testimone e dà uno spintone a Gesù per scansarlo.
   «Tu non farai nessun altro passo», tuona Gesù guardandolo con uno sguardo di miracolo che soggioga e paralizza, così come rende vita e letizia, quando vuole. «Tu non fai nessun altro passo.

   248.9 Non credi a ciò che Io dico? Ebbene, allora guarda. Qui non c’è la polvere[37] del Tempio, né l’acqua di esso, e non ci sono parole scritte con l’inchiostro per fare l’acqua amarissima che è giudizio alla gelosia e all’adulterio. Ma qui sono Io. E Io faccio giudizio». La voce di Gesù è uno squillo di tromba tanto è penetrante.
   La gente si pigia per vedere. Solo Maria Ss. e Maria d’Alfeo sono rimaste a soccorrere la madre svenuta.
   «E Io faccio giudizio così. Datemi un pizzico di polvere della via e un goccio d’acqua in un orciolo. E, mentre mi vengono date, voi che accusate e tu che sei accusato rispondete a Me. Sei tu innocente, figlio? Dillo con sincerità a Colui che ti è Salvatore».
   «Lo sono, Signore».
   «Aser, puoi giurare di non avere detto che il vero?».
   «Lo giuro. Non avrei motivo di mentire. Lo giuro per l’altare. Scenda dal Cielo una fiamma che mi bruci se io non dico il vero».
   «Giacobbe, puoi tu giurare di essere sincero nell’accusa e senza un movente segreto che ti spinga a mentire?».
   «Lo giuro per Geové. Solo l’amore per l’amico ucciso mi spinge a parlare. Con costui io non ho nulla di personale».
   «E tu, servo, puoi giurare di aver detto la verità?».
   «Mille volte lo giuro se occorre! Il mio padrone, il mio povero padrone!», e piange velandosi il capo col mantello.
   «Sta bene. Ecco l’acqua ed ecco la polvere. E la parola è questa: “Tu, Padre santo e Dio altissimo, compi giudizio di verità per mio mezzo, acciò vita e onore siano resi all’innocente e alla madre desolata, e degno castigo a chi innocente non è. Ma per la grazia che ho agli occhi tuoi, non fiamma né morte, ma lunga espiazione venga a coloro che hanno commesso peccato”».
   Dice queste parole tenendo le mani stese sull’orciolo come fa il sacerdote all’altare durante la Messa, all’offertorio. Poi tuffa la destra nell’orciolo e con la mano inzuppata d’acqua spruzza i quattro sotto giudizio e fa loro bere un sorso di quell’acqua. Prima al giovanetto, poi ai tre altri. Indi incrocia le braccia sul petto e li guarda.

   248.10 Anche la folla guarda, e dopo pochi momenti ha un urlo e si getta col volto al suolo. Allora i quattro che erano in fila si guardano fra loro e urlano alla loro volta: il primo, il giovanetto, di stupore, gli altri di orrore. Perché si vedono coperti nel volto di subita lebbra, mentre il giovanetto ne è immune.
   Il servo si getta ai piedi di Gesù che si scansa come tutti, soldati compresi, e si scansa prendendo per mano il giovanetto Abele perché non si contamini presso i tre lebbrosi. E grida, questo servo: «No! No! Perdono! Lebbroso no! Sono stati loro che mi hanno pagato perché facessi ritardare fino a sera il padrone, per colpirlo sulla via deserta. Mi hanno fatto sferrare la mula apposta. Mi hanno insegnato a mentire dicendo che ero venuto avanti. Invece ero con loro ad ucciderlo. E dico anche perché l’hanno fatto. Perché Gioele si era accorto che Giacobbe amava la giovane sua moglie e perché Aser voleva la madre di costui ed essa lo respingeva. Si sono accordati per liberarsi di Gioele e di Abele insieme e godersi le donne. Ho detto. Levami la lebbra, levamela! Abele, tu sei buono, prega tu per me!».
   «Tu va’ da tua madre. Che uscendo dal suo languore veda il tuo viso e torni alla vita serena. E voi… A voi dovrei dire: “Vi sia fatto ciò che fatto avete”. E sarebbe umana giustizia. Ma Io vi affido ad una espiazione sovrumana. La lebbra di cui inorridite vi salva dall’essere afferrati e uccisi come meritate. Popolo di Betlem, scansati, apriti come le acque del mare per lasciare andare costoro alla loro lunga galera. Tremenda galera! Più atroce della rapida morte. Ed è pietà divina per dare loro modo di ravvedersi se vogliono. Andate!».
   La folla si addossa ai muri lasciando libero il centro della via, e i tre, ricoperti di lebbra come fossero malati da anni, vanno l’uno dietro l’altro verso la montagna. Nel silenzio e nel crepuscolo che scende, e che ha fatto tacere ogni voce di uccelli e di quadrupedi, non si sente che il loro pianto.
   «Purificate la via con acque abbondanti dopo avervi arso del fuoco. E voi, soldati, andate e riferite che giustizia è fatta secondo la più perfetta legge mosaica».
   E Gesù fa per andare dove sua Madre e Maria Cleofe continuano a soccorrere la donna, che rinviene lentamente mentre il figlio ne carezza le mani gelate e le bacia.

   248.11 Ma la gente di Betlem, con un rispetto quasi esterrefatto, prega: «Parlaci, Signore. Tu sei realmente potente. Tu sei certo quello di cui parlò l’uomo che di qui è passato annunciando il Messia».
   «Parlerò a notte, presso l’ovile dei pastori. Per ora vado a ristorare la madre».
   E va dalla donna che, seduta sul grembo di Maria d’Alfeo, rinviene sempre più, guardando il viso amoroso di Maria che le sorride, non raccapezzandosi, finché china lo sguardo sulla testa morata del figlio curvo sulle sue mani vacillanti e chiede:
   «Sono morta io pure? È questo il Limbo?».
   «No, donna. Questa è la Terra, questo è tuo figlio, salvato da morte. E questo è Gesù, mio Figlio, il Salvatore».
   La donna ha un moto tutto umano, per prima cosa. Raduna le forze e si protende a prendere il capo chino del suo figliolo, e lo vede vivo e sano, lo bacia frenetica, piangendo, ridendo, ritrovando tutti i nomi della cuna per dirgli la sua gioia.
   «Sì, mamma, sì. Ma ora, guarda, non a me. A Lui. A Lui che mi ha salvato. Benedici il Signore».
   La donna, ancora troppo debole per alzarsi o per porsi in ginocchio, stende le mani che tremano e sanguinano ancora, e prende la mano di Gesù coprendola di baci e di lacrime.
   Gesù le posa la mano sinistra sulla testa dicendole: «Sii felice. In pace. E sii sempre buona. E tu pure, Abele».
   «No, Signore mio. La vita mia e di mio figlio è tua perché Tu le hai salvate. Lascia che egli vada coi discepoli come già desiderava da quando furono qui. Io te lo dono con tanta gioia e ti prego di lasciare che io lo segua per servirlo e servire i servi di Dio».
   «E la tua casa?».
   «Oh! Signore! Può uno risorto da morte avere più gli affetti che aveva prima di morire? Mirta è uscita da morte e da inferno per Te. In questo paese potrei giungere ad odiare coloro che mi hanno torturata nella mia creatura. E Tu predichi l’amore. Lo so. Lascia dunque che la povera Mirta ami il Solo che meriti amore, la sua missione, i suoi servi. Ora sono ancora sfinita e non potrei seguirti. Ma non appena potrò, permettimelo, Signore. Sarò al tuo seguito e presso il mio Abele…».
   «Seguirai tuo figlio e Me con lui. Sii felice. Sta’ in pace, ora. Con la mia pace. Addio».
   E mentre la donna sorretta dal figlio e da alcuni pietosi rientra in casa, Gesù, coi pastori, gli apostoli, la Madre e Maria d’Alfeo, torna fuori del paese andando poi all’ovile sito all’estremità di una via che finisce nei campi…

   248.12 …Un grande falò è acceso per illuminare la riunione. Seduti a semicerchi sui campi, molti attendono che Gesù venga a parlare. Intanto parlano loro degli avvenimenti del giorno. È presente anche Abele, col quale molti si congratulano dicendo che tutti credevano nella sua innocenza.
   «Ma eravate pronti a uccidermi, però! Anche tu che mi avevi salutato sulla porta di casa proprio nell’ora in cui veniva ucciso Gioele», non può trattenersi da rispondere il giovanetto. E aggiunge: «Ma io ti perdono in nome di Gesù».
   Ecco che Gesù viene dall’ovile verso di loro. Alto, biancovestito, contornato dagli apostoli, seguito dai pastori e dalle donne.
   «La pace a voi tutti.
   Se l’essere venuto è valso ad instaurare il Regno di Dio fra di voi, sia benedetto il Signore. Se l’essere venuto è valso a far brillare una innocenza, sia benedetto il Signore. Se l’essere giunto in tempo per impedire un delitto serve anche a dare a tre colpevoli modo di redimersi, sia benedetto il Signore. Ora, di tutte le molte cose che porta a meditare questa giornata, e che mediteremo mentre la notte scende a fasciare di tenebre la gioia di due cuori e il rimorso di altri tre — e nelle sue tenebre nasconde come in velo pudico le lacrime gioiose dei primi e quelle brucianti degli altri, che però Dio vede — vi è quella che indica come nulla è inutile di quanto Dio ha dato per Legge.

   248.1La Legge data da Dio, nominalmente è molto osservata in Israele. Ma in realtà non lo è. La Legge è là, analizzata, sviscerata, spezzettata, fino a farla morire per torture di sottigliezze piccine. È là. Ma come un cadavere mummificato non ha vita, respiro, circolazione di sangue nonostante abbia l’apparenza di uno che sia immobile per sonno, così la Legge non ha vita, respiro, sangue in troppi, troppi, troppi cuori. Su una mummia ci si siede come su uno sgabello. Su una mummia si possono appoggiare oggetti, vesti, anche lordure, se si vuole, ed essa non si ribella perché non ha vita. Così troppi fanno della Legge uno sgabello, un appoggio, uno scarico per le loro lordure, certi che essa non si ribella nella loro coscienza perché essa per loro è morta.    
   Potrei paragonare molta parte di Israele alle foreste pietrificate che si vedono sparse per la valle del Nilo e nel deserto egiziano. Erano boschi e boschi di piante vive, nutrite da linfe, fruscianti al sole, belle di fronde, di fiori, di frutti. Facevano, del punto dove sorgevano, un piccolo paradiso terrestre, caro a uomini e animali che dimenticavano l’aridità desolata del deserto, la sete rovente che le sabbie danno all’uomo penetrando con la loro polvere ardente nelle fauci. Dimenticavano il sole spietato che calcifica i cadaveri in poco tempo, scarnendoli, consumandone in polvere le carni e lasciando coricati fra le curve delle sabbie scheletri e scheletri puliti come da un attento operaio. Dimenticavano tutto in quest’ombra verde, frusciante, ricca d’acque e di frutti che ristoravano, consolavano, rendevano ardimento a nuovi percorsi.
   Poi, per una ignota causa, come cose maledette, esse si sono non solo disseccate, come fanno le piante che, morte che siano, servono ancora per fare fuochi nei focolari dell’uomo, o dei roghi per illuminare la notte, tenere lontano fiere e cacciare l’umido della notte ai pellegrini lontani dai paesi. Ma queste non hanno servito come legna. Pietra sono divenute. Pietra. La silice del suolo sembra essere salita per un sortilegio dalle radici al tronco, ai rami, alle fronde. I venti hanno poi spezzato i rametti più esili divenuti simili ad alabastro che è duro e molle insieme. Ma i rami più robusti sono là, sui loro tronchi poderosi a fare inganno alle carovane stanche, che nel riflesso abbacinante del sole, o nella luce spettrale della luna, vedono profi larsi le ombre dei tronchi ritti sui loro pianori, o nel fondo delle valli che conoscono l’acqua solo nel tempo delle piene feconde e che, e per l’ansia di un rifugio, di un ristoro, di un pozzo, di frutti freschi, e per la stanchezza degli occhi abbacinati dal sole sulle sabbie senza riparo, si precipitano verso le foreste fantasma. Veramente fantasma! Illusorie apparenze di corpi vivi. Reali presenze di cose morte.
   Io le ho viste. Mi sono rimaste impresse, per quanto fossi poco più che un pargolo, come una delle più tristi cose della Terra. Così mi erano parse finché non ho toccato, misurato, pesato le cose totalmente tristi della Terra perché sono le cose completamente morte. Le cose immateriali, ossia le virtù e le anime morte. Morte le prime nelle anime, morte le anime perché si sono uccise.

   248.14 La Legge è in Israele. Ma vi è come le piante pietrificate sono nel deserto: divenute silice. Morte. Oggetto di inganno. Oggetto destinato a corrodersi senza servire. Anzi nuocendo perché creano miraggi che allettano allontanando dalle oasi vere, facendo morire di sete, di fame, di desolazione, col loro attirare alla loro morte. Morte che attira altri a morte, come si legge in certe favole di miti pagani.
   Voi oggi ne avete avuto un esempio di cosa è una Legge ridotta a pietra in un’anima pure divenuta pietra. È peccato di ogni genere e creatore di sventura. Questo vi serva a saper vivere e a saper far rivivere la Legge in voi, nella sua integrità che Io illumino con luci di misericordia.
   La notte è alta. Le stelle ci guardano e con esse Dio. Alzate lo sguardo al cielo stellato ed elevate lo spirito a Dio. E senza critiche verso gli infelici già da Dio puniti, e senza orgogli per essere senza il loro peccato, promettete a Dio e a voi stessi di non cadere nella aridità delle piante maledette dei deserti e delle valli d’Egitto.
   La pace sia con voi».
   Li benedice e poi si ritira nell’ampio recinto dell’ovile, cinto da rustici portici, sotto cui i pastori hanno steso molto fieno a fare da letto ai servi del Signore.

[37] la polvere ecc. sono gli elementi per compiere il giudizio di Dio prescritto in: Numeri 5, 11-31.